#FrancoBuffoni

L'Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionalelombradelleparole.wordpress.com@lombradelleparole.wordpress.com
2025-11-09

 Confronto tra due letture della antologia critica  di Paolo Ruffilli, “Incanto e disincanto (Voci della poesia italiana del Novecento)”, 2025, Il ramo e la foglia  pp. 224 € 19,  di Giorgio Linguaglossa e Marie Laure Colasson – Problema: Collasso o Continuità della tradizione poetica del novecento?

Nota di lettura di Giorgio Linguaglossa

 State attenti: la nave è ormai in mano al cuoco di bordo, e le parole che trasmette il megafono del comandante non riguardano più la rotta, ma quel che si mangerà domani”.

(Søren Kierkegaard, Stadi sul cammino della vita, 1845)

«La poesia è una forma particolare di comunicazione verbale in cui la lingua usata non è necessariamente diversa da quella della comunicazione quotidiana, eppure l’esito è completamente diverso. Perché le sue parole non sono rivolte a chiarire un concetto, ma a “incarnarlo”, a farlo cioè vivere con tutta la sostanza e la forza dei sentimenti ad esso legati e collegati: paura, amore, incanto e disincanto, odio, sdegno, distacco.» (Paolo Ruffilli)

Ecco l’elenco completo dei poeti inclusi nel repertorio critico di Paolo Ruffilli:

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Elio Filippo Accrocca, Alberto Arbasino, Raffaello Baldini, Nanni Balestrini, Giorgio Bassani, Dario Bellezza, Giovanna Bemporad, Attilio Bertolucci, Carlo Betocchi, Alberto Bevilacqua, Piero Bigongiari, Ignazio Buttitta, Giorgio Caproni, Vincenzo Cardarelli, Bartolo Cattafi, Giovanni Comisso, Sergio Corazzini, Stefano D’Arrigo, Eduardo De Filippo, Libero De Libero, Luciano Erba, Franco Fortini, Alfonso Gatto, Virgilio Giotti, Giovanni Giudici, Alfredo Giuliani, Corrado Govoni, Guido Gozzano, Tonino Guerra, Margherita Guidacci, Francesco Leonetti, Franco Loi, Gian Pietro Lucini, Mario Luzi, Biagio Marin, Filippo Tommaso Marinetti, Eugenio Montale, Elsa Morante, Marino Moretti, Alberto Mario Moriconi, Giacomo Noventa, Ottiero Ottieri, Elio Pagliarani, Aldo Palazzeschi, Alessandro Parronchi, Pier Paolo Pasolini, Sandro Penna, Albino Pierro, Antonio Porta, Antonia Pozzi, Salvatore Quasimodo, Giovanni Raboni, Clemente Rebora, Amelia Rosselli, Roberto Roversi, Umberto Saba, Edoardo Sanguineti, Camillo Sbarbaro, Franco Scataglini, Rocco Scotellaro, Vittorio Sereni, Leonardo Sinisgalli, Ardengo Soffici, Maria Luisa Spaziani, Giovanni Testori, Giuseppe Ungaretti, Diego Valeri, Giorgio Vigolo, Emilio Villa, Paolo Volponi, Andrea Zanzotto.

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In totale, Ruffilli include 73 poeti, coprendo l’arco che va dagli ultimi anni dell’Ottocento (Gozzano, Govoni) fino alla fine del Novecento (Raboni, Loi, Rosselli, Fortini, Zanzotto).

Già negli anni settanta Franco Fortini stigmatizzava che ormai in poesia le scelte editoriali le facevano gli «uffici stampa dei grandi editori» e che la critica di poesia era un arnese obsoleto che non aveva più alcuna influenza sulle scelte editoriali e sulla politica editoriale degli uffici stampa del comparto poesia. Oggi, a distanza di più di cinquanta anni, appare sempre più evidente il carattere obsoleto e inattendibile della critica di poesia, chi la fa, fa una critica di accompagnamento, un cerimoniale che nulla ha davvero in comune con un pensiero critico. Perché una critica ha senso se la si esercita come intermediario con un pubblico libero e intellettualmente preparato. Oggi, in assenza di un pubblico intellettualmente preparato della poesia, è del tutto fuorviante parlare di critica di poesia, io stesso che scrivo queste parole non sono un critico né aspiro ad esserlo, preferisco dipingermi molto più semplicemente come un contemporaneista che fa una critica di parte, non certo neutrale, ed io infatti non voglio essere neutrale ma, appunto, amo essere annoverato come uomo di parte non disposto a negoziare alcunché sui valori. Dunque, un critico di parte, con tutti i limiti e i pregi che una tale definizione comporta.
Il problema da mettere a fuoco è che in questi ultimi, diciamo, cinquantacinque anni, la poesia italiana è rimasta priva di un ceto di poeti intellettuali che sapessero andare oltre gli interessi di parte. Per ceto intellettuale intendo una gruppo di letterati (aspiranti poeti, diciamo così, perché “poeta” è una parola grossa che addossa sul malcapitato enormi responsabilità).

Voglio dire che in un paese dove il ceto letterario del comparto poesia è inamovibile e insindacabile, dove i medesimi personaggi occupano da decenni i posti chiave delle grandi case editrici, il risultato più probabile è che in quel comparto non ci saranno, diciamo, novità, non si avranno rinnovamenti; gli addetti agli uffici stampa del comparto poesia alla lunga perderanno il contatto con la storicità, con il divenire, con le nuove tendenze poetiche e filosofiche, con le nuove tendenze politiche e geopolitiche del mondo. Infatti, il risultato attuale è che da circa cinquanta anni il comparto poesia nazionale è affetto da un sostanziale immobilismo e standardizzazione del «gusto» e delle politiche editoriali che, necessariamente, sono diventate in questi decenni sempre più clientelari e inattendibili.

E poi il fatto che nessuno dei poeti oggi attualmente ai vertici degli uffici stampa degli editori, come si dice, «a maggiore diffusione nazionale», sia anche un critico, un intellettuale a pieno titolo,  è un deficit che produce ripercussioni gravi sul comparto poesia, perché è inevitabile che ciascun poeta che occupa quegli uffici tenderà a crearsi una politica editoriale personale (anche in buona fede) che sia una prosecuzione della propria attività di letterato. E questo elemento di criticità alla lunga, nel corso dei decenni, ha introdotto delle storture sempre più vaste e profonde ed ha determinato una vera e propria cecità verso il «nuovo», che si presenta come «inspiegabile». Oggi chiunque apra un catalogo di Einaudi poesia o Mondadori poesia si troverà davanti a decine di nomi che non si capisce bene come abbiano fatto ad approdare in collane un tempo prestigiose, perché è chiaro nel leggere le loro opere che sono persone che scrivono in un linguaggio politicamente stereotipato e standardizzato nel migliore dei casi; si tratta di amatori del genere, non sono dei letterati e tanto meno degli intellettuali, sono persone che fanno poesia come hobby, interludio, svago domenicale. Il risultato finale è che è venuta meno anche la credibilità di un intero comparto culturale. Oggi, in effetti, è l’intero comparto culturale della poesia ad essere del tutto futile ed esornativo, decorativo e nulla più. Ad aggravare questa situazione è stata la sostituzione della critica del testo con i soliloqui degli opinionisti. L’oligarchia delle opinioni ha invaso il comparto poesia  in virtù soprattutto della capacità di questi opinionisti di spendere in tutti i comparti la moneta epistemica che con fatica si sono guadagnati. Così è avvenuto che oggi un manipolo di opinionisti occupa totalmente lo spazio del dibattito critico sulla poesia, cioè lo spazio di presenza proprio delle istituzioni culturali e dei social media.

In questo quadro indiziario il Repertorio critico di Paolo Ruffilli (1949) nasce come proposta di ripensamento del linguaggio poetico, rispetto alla palus putredinis che ha caratterizzato un lungo periodo di stagnazione della prassi poetica, fatta eccezione per le poche alternative sperimentali, che non sono andate mai al di là del loro riscatto formale. In questa situazione stagnazione linguistica è più che logico ridiscutere i vecchi parametri, proporre alternative, forgiare delle categorie ermeneutiche utili a capire che cosa è avvenuto oggi: l’allontanamento dalla tradizione del novecento che ha finito per influire sulle nuove generazioni che si sono avvicendate dagli anni settanta del novecento ad oggi.

Questa riflessione critica la si attendeva da tempo. Si è trattato di un fenomeno complesso, determinato da un cambiamento dei parametri ontologici del linguaggio. Ben vengano quindi volumi come questo di Ruffilli che consente di tornare alle origini dell’esaurimento del Novecento poetico e a individuare un nuovo tracciamento ermeneutico. Un lavoro che ci consente la possibilità di ritornare con il pensiero alle origini  della attuale stagnazione culturale e alla crisi della forma-poesia del novecento.

Resta  sempre valida la domanda posta da Alfonso Berardinelli sulla poesia del Novecento:

«La nostra poesia (con Montale, Luzi, Bertolucci, Caproni, Sereni, Penna, Zanzotto, Giudici, Amelia Rosselli) è stata fra le migliori in Europa; ma poi (salvo eccezioni) ha perso libertà e pubblico. […] Un’arte senza lettori deperisce o si trasforma in una specie di pratica ascetica, con tutto il suo seguito di comiche devozioni e perversioni […] Ma se la poesia italiana è stata fra le migliori d’Europa, come è accaduto che quest’arte ha perso pubblico e credito?».

Paolo Ruffilli

Ruffilli ci fornisce una ampia pista di pattinaggio per articolare una riflessione consapevole sui poeti inclusi nella rassegna critica e per un bilancio sull’esaurimento della ontologia poetica novecentesca che l’autore indica  negli ultimi poeti autenticamente novecenteschi: Edoardo Sanguineti, Pierpaolo Pasolini, Andrea Zanzotto e Franco Fortini. Dopo di loro c’è uno scalino in discesa. Si apre una pista di atterraggio morbido ad una forma-poesia che converte il distacco dalla tradizione e la sua minoritarietà in fattori di «rinnovamento» linguistico ad personam. Certo, ci sono state le antologie di Porta, Berardinelli e Cordelli, Mengaldo, Cucchi-Giovanardi e di migliaia di altri con relative schedine critiche di accompagnamento. Ruffilli fa una operazione intellettualmente coraggiosa: arresta il novecento a Fortini e Zanzotto. E ci sarà pure una ragione di fondo per questa scelta che un poeta preparato come Ruffilli non ha fatto certo a caso.

Anch’io con il mio lavoro, Critica Della Ragione Sufficiente del 2020, ho avuto modo di approfondire questo discorso affrontando criticamente i singoli autori di poesia del tardo novecento e dei due decenni che sono seguiti dal punto di vista di quella che Berardinelli definisce la «discesa culturale» della poesia post-zanzottiana.

Però, c’è un “però”: la nuova ontologia del linguaggio della nostra epoca ci rivela che (noi) che abitiamo il presente osserviamo il passato (loro) con gli occhi del nostro presente, del nostro mondo; ergo la nostra visione del passato è sempre una proiezione del nostro presente. Ma, c’è un “ma”: nel (nostro) presente si è verificato un fenomeno del tutto nuovo, l’ontologia del linguaggio si è rivelato un vuoto linguistico, un buco, una apertura che inghiotte tutte le parole, ed il poeta è costretto a cercare le sue parole non più in un passato ormai sepolto ma in un futuro che rimane ignoto. È questo il dilemma che la «nuova poesia» dovrà, obtorto collo e volente e nolente, affrontare. Il problema è che oggi siamo alle prese con l’impossibilità di trovare un linguaggio e la ridondanza enfisematica della prosa.

Non v’è dubbio che i poeti minori della fine del Novecento come Margherita Guidacci, Francesco Leonetti, Ottiero Ottieri, Diego Valeri, Giorgio Vigolo, Emilio Villa, Paolo Volponi, Piero Bigongiari, Carlo Betocchi, Giorgio Caproni, Eduardo De Filippo, Stefano D’Arrigo, Alfonso Gatto siano di livello nettamente superiore ai «poeti nuovi» del tardo Novecento come Giuseppe Conte, Valerio Magrelli, Maurizio Cucchi, Mario Benedetti, Milo De Angelis, Umberto Piersanti, Patrizia Cavalli, Patrizia Valduga, Valentino Zeichen, Franco Buffoni etc. I primi hanno ancora una idea di poesia, una idea di forma-poesia, una idea di tradizione coesa e comune; hanno ancora un linguaggio poetico comune; i secondi non si pongono più il problema della tradizione ma si guardano bene dall’esternare le ragioni storiche, di ontologia del linguaggio, sociali, politiche e geopolitiche che hanno determinato il quadro storico e ontologico entro il quale si situa  il proliferare delle poetiche ad personam dove ciascuno si fa una propria personale poesia tascabile. Questa poesia non pone più domande radicali ma si assesta e si adegua alla «discesa culturale» senza neanche la consapevolezza del pendio declinante cui li costringe la «discesa culturale». Il problema vero è che la «discesa culturale» e la minoritarietà dovranno pur finire un giorno o l’altro. Il problema è quando qualcuno si alzerà dalla sedia e pronuncerà il verdetto: “Il re è nudo!”. Il problema storico invece è assistere a questo estenuante e interminabile vento di libeccio di una «discesa culturale» che sembra non finire mai. Ecco, Paolo Ruffilli non lo scrive apertamente, ma tutto il suo lavoro implica un non-detto: che la poesia italiana finisce con Sanguineti, Fortini, Pasolini e Zanzotto, quattro poeti distantissimi tra loro ma che si trovano consapevolmente in un unico contesto storico e ontologico, di ontologia linguistica. Dopo di loro verrà il diluvio della «discesa culturale» e della minoritarietà. Ma questo è un altro capitolo del discorso.

Una poesia se è nuova richiede la costruzione di nuove categorie ermeneutiche. E forse è proprio da qui che la poesia del futuro dovrà ripartire: dalla costruzione di nuove categorie del pensiero.

Il fatto è che ormai in Italia la normologia è la regola militare di fondo che disciplina ogni attività del nostro Paese, a iniziare dalla politica fino all’etica dei costumi e alla libertà intellettuale. I cuochi di bordo hanno sostituito i comandanti della nave, loro sanno solo parlare della majonese o del grana padano che si mangerà oggi o domani.

Paolo Ruffilli è nato nel 1949. Ha pubblicato, di poesia: “Piccola colazione”, Garzanti, 1987, American Poetry Prize; “Diario di Normandia”, Amadeus, 1990; “Camera oscura”, Garzanti, 1992; “Nuvole”, con foto di F. Roiter, Vianello Libri, 1995; “La gioia e il lutto”, Marsilio, 2001, Prix Européen; “Le stanze del cielo”, Marsilio, 2008; “Affari di cuore”, Einaudi, 2011; “Natura morta”, Nino Aragno Editore, 2012, Poetry-Philosophy Award; “Variazioni sul tema”, Aragno, 2014, Premio Viareggio Giuria; “Le cose del mondo”, Mondadori, 2020; di narrativa: “Preparativi per la partenza”, Marsilio, 2003; “Un’altra vita”, Fazi, 2010; “L’isola e il sogno”, Fazi, 2011.
www.paoloruffilli.it

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Glossa critica di Marie Laure Colasson

L’operazione critica di Paolo Ruffilli, la continuità del discorso poetico del novecento

Con questo scritto interpreto la voce dell’Alter-Ego di Giorgio Linguaglossa, voglio introdurre il discorso da un diverso angolo visuale.

Con Incanto e disincanto. Voci della poesia italiana del Novecento (Il ramo e la foglia, 2025), Paolo Ruffilli realizza un gesto editoriale e intellettuale di equilibrio che si colloca a metà strada tra il repertorio e il bilancio, tra il manuale d’autore e la riflessione poetologica. Non si tratta di una semplice rassegna di nomi o un’antologia critica divulgativa, il libro si presenta come un percorso critico della poesia italiana del novecento, un secolo che – secondo lo stesso Ruffilli – “ha tradotto in elaborazione letteraria la crisi di identità dell’uomo contemporaneo”.

Questa premessa non è neutra, è un manifesto poetico. L’autore, poeta egli stesso, esprime la sua idea della poesia come luogo di incarnazione del senso, non di pura astrazione concettuale. La sua “critica” si fonda su un principio umanistico tipicamente novecentesco: la parola poetica come esperienza dell’io.

Di fronte a una critica odierna ridotta, come ha notato Giorgio Linguaglossa, a “cerimoniale di accompagnamento”, Ruffilli adotta una postura diversa: non quella del teorico o del polemista, ma quella dell’artigiano del linguaggio poetico che torna a perlustrare i materiali vivi della poesia. Incanto e disincanto è infatti un repertorio che, pur evitando la terminologia filosofica o la categoria “ontologica” cara a certa critica militante, persegue l’obiettivo di restituire un orizzonte di senso alla poesia, ridefinirne la funzione.

Dove Linguaglossa vede l’esaurimento di un ciclo  (la dissoluzione della forma-poesia dopo Fortini e Zanzotto), Ruffilli preferisce vedere una continuità, una linea vitale che attraversa il secolo tra rotture e permanenze. Se il primo denuncia la “discesa culturale” e la minoritari età della poesia di oggi, il secondo cerca nella poesia le energie carsiche della sopravvivenza nella continuità.

L’ introduzione di Ruffilli parte da un assunto estetico e antropologico: la poesia come linguaggio che, pur condividendo la materia con la lingua quotidiana, “incarna” sentimenti e visioni, trasformandoli in esperienza collettiva. L’incanto e il disincanto diventano così le due polarità di un medesimo processo: la ricerca del senso e le ragioni della sua perdita. Ruffilli costruisce una coralità ordinata e appassionata di autori (da Ungaretti a Zanzotto, da Montale a Rosselli, da Caproni a Loi) dove la pluralità delle voci è ricondotta a una funzione comune: quella di rappresentare, con mezzi diversi, la frantumazione dell’io e la ricerca di una nuova modalità di abitare il linguaggio poetico.

È vero, come osserva Linguaglossa, che Ruffilli si ferma laddove Linguaglossa vorrebbe che continuasse. Arrestarsi dopo Fortini e Zanzotto significa comunque interrompere il novecento anzitempo, prima del suo decesso cronologico. Ruffilli evita così di entrare nel terreno filosofico del dopo, evita di impantanarsi nel territorio incerto della poesia post-novecentesca, lascia il problema in sospeso. Ma questa sospensione è una scelta consapevole. Incanto e disincanto si arresta appena prima che il secolo finisce, non per nostalgia o conservatorismo, ma per definire il perimetro di una civiltà poetica che ha avuto un inizio e una fine. È un libro che parla del novecento da dentro, non dal dopo.

Il tono è da critico cronista, non da storico della poesia. Ruffilli è un narratore della poesia che si affida al racconto, più che al giudizio, la sua funzione è ordinare, laddove vige il disordine; laddove la critica accademica disseziona, Ruffilli cerca la continuità, l’evoluzione di una ontologia linguistica. Laddove l’estetica militante  sentenzia l’esaurimento della forma-poesia del novecento, lui preferisce delimitare il campo dei suoi protagonisti e della sua ermeneutica. Questa operazione ha una doppia valenza: è una guida, un atto di fede nel discorso poetico del novecento, che implica la speranza e l’augurio che quel discorso poetico abbia ancora un futuro.

Ruffilli, in definitiva, non cerca un nuovo sistema ermeneutico, ma un nuovo modo di guardare alla tradizione, non come a un cimitero di glorie, ma come a un corpo ancora pulsante. Laddove il critico militante (Linguaglossa) diagnostica la malattia terminale del discorso poetico, la crisi irreversibile della ontologia linguistica del novecento, Ruffilli tenta una terapia della memoria.

Ecco dunque il messaggio del lavoro di Ruffilli: un atto di fede nella tradizione, la fiducia, forse anacronistica ma necessaria, nella possibilità che la poesia, anche nell’epoca del Collasso del Simbolico, resti un modo di conoscenza. È il suo incanto e il suo disincanto. La consapevolezza che senza lettori e senza critica, quella conoscenza rischierebbe di rimanere muta. Questa sì che è, per Ruffilli, il pericolo più grande: il Collasso della poesia della tradizione del novecento.

(Marie Laure Colasson)

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