TRE MINISTRI UN SOLO CIRCO
Cronache dal teatrino di Palazzo
di Alfredo Facchini
C’è un teatrino, a Roma, dove ogni giorno si alza il sipario e la compagnia di giro del governo dà il peggio di sé. Basta un microfono, un palco improvvisato e la voglia incontenibile di dire qualcosa che superi, per volume e assurdità, ciò che ha detto un collega il giorno prima.
Nordio: «Il maschio non accetta la parità, il suo codice genetico fa resistenza».
Dopo aver strizzato l’occhiolino alla P2 di Licio Gelli, il Guardasigilli s’improvvisa genetista. Per lui l’uguaglianza fra donne e uomini non è questione di cultura, educazione, responsabilità, ma una faccenda di geni ribelli. E così la violenza maschile assume i toni della fatalità.
Attribuire la violenza maschile - come fa Nordio - al “codice genetico” significa togliere responsabilità umane, sociali, culturali. Rendere inevitabile ciò che andrebbe affrontato.
Poi arriva lei. Roccella: «Non c’è correlazione tra educazione sessuale a scuola e diminuzione della violenza contro le donne».
Per l’ex pasionaria pannelliana l’idea che l’educazione possa ridurre il danno sociale più antico del mondo diventa improvvisamente un’illusione. Non servono conoscenze, non servono strumenti, non servono parole: bisogna brancolare nel buio, e soprattutto restarci. Chi spera in giovani capaci di relazioni sane dovrà farsene una ragione: la scuola deve restare un luogo per coltivare tabù.
Ed eccoci all’apice. Cambio di scena. Il colpo di teatro. Tajani: «Se ci attaccano da Sud, il Ponte sullo Stretto sarà importante per l’evacuazione».
Un’invasione immaginaria proveniente da Sud, un ponte gigantesco trasformato non in infrastruttura ma in via di fuga. Il prossimo passo? Armare i caselli.
Se guardiamo insieme le tre “sciocchezze” pronunciate dai ministri meloniani, emerge con chiarezza un modello ricorrente, utilizzato da governi inetti in affanno narrativo.
Si lancia nel vuoto una frase vistosa, sproporzionata, che crea un piccolo incendio mediatico. Risultato: riempire l’aria di scintille per non parlare del fuoco vero.
C’è un principio non scritto: se ripeti molte frasi esagerate, scollegate dai fatti, la soglia di accettazione pubblica si abbassa. Si rende il grottesco parte della normalità.
Ormai tutte le destre - con dosaggi diversi - hanno adottato queste tecniche. La logica è dire qualunque cosa pur di occupare la scena. È un tratto comune ai governi che vivono nel ciclo perenne di talk show, social e dichiarazioni lampo.
È un populismo di governo: chi ha il potere parla come se fosse sempre all’opposizione. È sempre colpa degli Altri o di chi li ostacola. Il caso Albania, su tutti. Serve a parlare non al paese intero, ma a un blocco preciso di sostenitori. «Chi non salta comunista è». (Magari.)
Questo linguaggio discende da una corrente comunicativa che privilegia l’emozione sopra l’analisi. Se la frase crea una reazione forte, ha già vinto. L’origine sta nelle tecniche di marketing politico importate dagli USA dagli anni ’90, oggi moltiplicate dai social e da un gangster alla Casa Bianca.
Una pratica che mira a ridefinire i confini del dicibile. Si lanciano frasi iperboliche per abituare il pubblico a un tono sempre più spinto, fino a far sembrare moderate posizioni che non lo sono affatto.
Intanto Meloni Nordio, Roccella, Tajani: la vita vera resta offesa da questo circo di parole. Chi subisce la violenza non vuole sentire parlare di geni impazziti. Chi educa non vuole farsi dire che il suo lavoro è inutile. Chi vive nel Sud non merita di essere usato come scenario di fantasie distopiche.
Quando si banalizza la violenza sulle donne, quando si nega l’importanza della cultura, quando si trasforma un progetto infrastrutturale in un racconto da guerra fredda, si costruisce un paese che deve abituarsi al ridicolo. Ed è lì che il potere smette di essere solo inadeguato e diventa pericolosissimo: perché governa come parla, senza misura e senza vergogna.
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