F1 2025 - Orari e #dovevedere il GP d’#Austria in #TV e streaming https://www.formula1.it/news/24659/1/f1-2025-orari-e-dove-vedere-il-gp-d-austria-in-tv-e-streaming?utm_source=dlvr.it&utm_medium=mastodon
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Capitolo 406: (Concl)Ave Maggio
Buon Primo Maggio, cari affezionatissimi e care affezionatissime. I capitoli cinefili stanno invadendo la programmazione di questo blog, ma vi assicuro che presto torneranno anche gli altri contenuti, soprattutto le recensioni complete. Ad aprile ho guardato 17 film, esattamente lo stesso numero dello scorso anno, anche se nel computo totale sono a quota 79 da inizio 2025 (quindi indietro di dieci film rispetto al 2024, annata record). Lo so, non è su queste cose che dovrebbe fantasticare una persona adulta, ma che volete farci, godiamo delle piccole cose per navigare in un mare di responsabilità, ansie, rotture di palle. E allora viva il cinema!
Il Bacio di Mary Pickford (1927): Nel capitolo precedente vi parlavo della genialità di Bowfinger e di come avesse preso spunto da questo film sovietico del 1927. Ovviamente, sono andato a cercarmelo per vederlo (e l’ho trovato addirittura su youtube!). Il malinconico bigliettaio di un cinema è innamorato di una ragazza, ma lei non lo vede proprio, soprattutto perché non è famoso (pensate che stronza). L’uomo allora fa di tutto per entrare nel mondo del cinema, finché un giorno, mentre la diva del muto Mary Pickford è a Mosca, riesce a farsi dare un bacio sulla guancia diventando a sua volta l’idolo delle folle. Ma la celebrità, si sa, è un’arma a doppio taglio. Tutto molto divertente, spericolato, piacevole in maniera quasi sorprendente, il colpo di genio però deriva dal fatto che l’attrice statunitense del titolo, Mary Pickford, non aveva assolutamente idea che stessero girando un film su di lei (pensava che le macchine da presa fossero lì per documentare la sua visita per i cinegiornali dell’epoca), infatti le scene in cui è presente sono girate con luce naturale e hanno una sostanziale differenza di qualità nell’immagine. L’importante però è l’idea, poi il montaggio fa il resto: Sergei Komarov è un genio, non è possibile definirlo in altro modo.
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I Soliti Sospetti (1995): Non mancano anche a voi i film degli anni 90? Quando un’idea geniale era tutto ciò di cui si aveva bisogno? Ve lo immaginate un film come questo di Bryan Singer girato oggi, con star strapagate e una serie di scemenze a cui non daresti un briciolo di credibilità? La storia è nota: un criminale di mezza tacca, Kevin Spacey, è l’unico sopravvissuto dopo l’assalto a una nave che, secondo gli inquirenti, trasportava un grosso carico di cocaina. Un detective, prima di lasciar andare Spacey su cauzione, lo trattiene per fargli confessare ciò che sta nascondendo, dando vita a uno dei più grandi thriller di sempre, in un’epoca in cui il plot twist non era ancora all’ordine del giorno, anzi, non te lo aspettavi praticamente mai e, per questo, ti lasciava a bocca aperta. Uno dei finali più memorabili di sempre, oltre ad aver consegnato all’immortalità cinematografica, uno dei nomi più spaventosi della storia del cinema: Keyser Soze. Stupendo, anche a distanza di anni.
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Y2K (2024): Kyle Mooney, figlioccio del Saturday Night Live, debutta alla regia con una storia distopica che, tecnicamente, dovrebbe far acqua da tutte le parti eppure, almeno per me, funziona. I due tipici sfigati del liceo decidono di imbucarsi a una festa di capodanno, anche perché uno di loro sogna di ricevere il classico bacio di mezzanotte dalla bella della scuola, Rachel Zegler. È il 31 dicembre del 1999 e allo scoccare del nuovo anno, il Millennium Bug colpisce tutti gli apparati tecnologici, che prendono vita e si ribellano agli umani, seminando morte e distruzione ovunque (sic). Parte alla grande, con una festa fuori controllo e una regia piena di idee, poi si sgonfia un po’, come una boy band al secondo album. Nonostante ciò, pur avendo più di 40 anni, mi sono sentito di nuovo adolescente, quando guardavo film scemi e mi godevo la musica degli anni 90 (a proposito, il film mi ha messo addosso una grande nostalgia dei Chumbawamba). Non so come o perché, nonostante i cliché (o forse proprio per), la presenza totalmente cringe di Fred Durst dei Limp Bizkit (nella parte di se stesso) e una serie di scene stupide e inverosimili, il film mi ha proprio divertito. Ah, è stato un flop quasi ovunque, quindi mi sa che sono tra i pochi.
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Conclave (2024): Quando vivi a Roma e vieni letteralmente travolto, volente o nolente, da ciò che accade in Vaticano, è consequenziale ritrovarsi a vedere questo film dello scorso anno di Edward Berger, in cui Ralph Fiennes è un cardinale alle prese con l’organizzazione del conclave, tra verità nascoste, dubbi, intrighi, politica, mistificazioni e sorprese continue (e un’eccellente Isabella Rossellini). Il miglior complimento che si può fare a questo film è che sembra un’opera di Tarik Saleh, il peggior commento è che l’ultima mezzora sembra uscita fuori dalle pagine di Dan Brown. Niente miracoli, ma un film solido, ben recitato e pieno di quei momenti in cui pensi “ah, ma allora si può ancora scrivere una sceneggiatura decente”. Ad ogni modo, la finezza estetica di alcune sequenze e l’uso che Berger e il suo direttore della fotografia fanno del colore sono di una bellezza da 5 pallini. Bel film.
•••½
Assassinio per Contratto (1958): Martin Scorsese ha definito questo b-movie di Irving Lerner uno dei film che più lo hanno influenzato nella sua vita. Un uomo, per ottenere denaro più rapidamente rispetto a un impiego tradizionale, decide di reinventarsi come sicario. Tutto fila liscio finché non gli viene chiesto di eliminare la testimone chiave di un imminente processo. Per essere un film del ’58 ci sono tante buone idee: una colonna sonora frivola rispetto ai temi della storia, la quotidianità del sicario, che si intrattiene in occupazioni frivole in attesa di svolgere il suo lavoro e un finale forte e inaspettato. Forse eccessivamente scarno per i miei gusti, nonostante vedere un gangster esistenzialista, calmo, calcolatore, addirittura contrario alle armi da fuoco, sia senza dubbio un concetto abbastanza potente per l’epoca. Non tutto funziona a dovere, ma c’è ottimo materiale di base: forse in mano a un regista più in gamba sarebbe uscito fuori un lavoro eccellente, chi lo sa? Un film (e un protagonista) che ha poco da dire, ma sa come dirlo.
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The Tree of Life (2011): Parlare di questo capolavoro di Terrence Malick è come raccontare un bel sogno, che si vive, si tocca quasi con mano, ma che lentamente sfuma i suoi contorni lasciando alla fine soprattutto il ricordo di una sensazione che ci avvolge, ci culla nel vissuto quotidiano, parlando direttamente alla nostra anima. Dire che questo è soltanto un film sarebbe come dire che la Divina Commedia è soltanto un libro: l’esperienza umana sfiorata lungo le oltre due ore di film porta con sé la capacità di tramutare la visione cinematografica in un viaggio all’interno di noi stessi. La vita di una famiglia statunitense negli anni 50, con tre bambini educati sotto lo sguardo severo del padre Brad Pitt, ma anche secondo dettami di grazia e bontà trasmessi silenziosamente dalla madre Jessica Chastain. Un conflitto famigliare come pretesto per sussurrare il senso della vita: è questo che fa Malick, chiedendo allo spettatore lo sforzo di abbandonarsi alla sua opera, di lasciarsi guidare, e soprattutto di fidarsi di lui: è incredibile come questo film mi faccia sentire piccolo e inutile, ma allo stesso tempo migliore. Ma forse Malick è un extraterrestre: da anni ci osserva in silenzio, lentamente ha capito tutto dell’essere umano. E ora ha deciso di spiegarcelo, con una macchina da presa che danza morbida come se si trattasse della soggettiva del vento, di una foglia che cade, di una farfalla che vola o una tenda che si muove.
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SERIE TV: Due anni fa mi sono appassionato a The Last of Us (qui trovate la recensione completa del primo episodio) e, senza neanche pensarci un momento, ogni lunedì sto incollato alla tv per gustarmi i nuovi episodi di questa seconda stagione. Sapete che non amo molto le serie tv, normalmente le guardo solo se valgono davvero la pena di dedicarvi tutto quel tempo: questo dovrebbe già essere un buon indizio sulla qualità di questo prodotto. Il secondo episodio della seconda stagione ha già fatto epoca, per una svolta inaspettata nella trama (alla quale ovviamente non intendo fare il minimo accenno, a dispetto di alcuni malati di mente che gestiscono pagine social dedicate al cinema, tipo Indiewire, che recentemente si sono attirati addosso gli insulti di molti fan per aver piazzato lo spoiler in bella vista nelle timeline dei suoi follower). Ad ogni modo, questa seconda stagione sta confermando quanto di buono si è visto nella prima: azione, psicologia, ironia, resilienza, malinconia, giustizia, credibilità. Serie clamorosa.
#assassinioPerContratto #Cinema #conclave #consigli #daVedere #doveVedere #film #iSolitiSospetti #ilBacioDiMaryPickford #recensione #theLastOfUs2 #theTreeOfLife
Capitolo 405: Scorpacciata di Pasqua
Nelle ultime due settimane ho visto la bellezza di otto film. Dove normalmente aggiorno la rubrica dopo cinque o sei visioni, stavolta la mancanza di tempo mi ha costretto a procrastinare l’uscita di questo nuovo capitolo. Lo scotto è farvi leggere molti più film di quanti ve ne potreste aspettare, ma ne varrà la pena: c’è di tutto e, soprattutto, c’è tanta roba croccante, sorprese pasquali, chicche di cioccolata. O forse, semplicemente, c’è tanto cinema. Buona lettura.
Fuoco Cammina con Me (1992): La naturale conseguenza del rewatch delle prime due stagioni di Twin Peaks è il rewatch di questo prequel, ovviamente firmato da David Lynch. In questo caso, stranamente, la storia convince molto più quando non si svolge a Twin Peaks (ovvero la bellissima prima parte), rispetto ai luoghi e ai personaggi che abbiamo imparato a conoscere nella serie tv (la seconda parte, meno appassionante, anche perché sappiamo già tutto ciò che accadrà). Però anche qui ci sono talmente tante di quelle cose immortali che non si può fare a meno di trovarlo un prodotto eccellente: tra queste, un formidabile cameo di David Bowie.
•••½
Uomini e Topi (1992): Qualche mese fa ho letto il bellissimo libro omonimo di Steinbeck ed ero curioso di scoprire come l’avesse trasposto per lo schermo Gary Sinise, qui al suo secondo lavoro dietro la macchina da presa: non sorprende sapere che sarà anche l’ultimo. È la storia di due uomini: lo stesso Sinise è quello sveglio e ambizioso, John Malkovich è invece quello grande e grosso, ma anche disabile dal punto di vista intellettivo. I due vengono assunti in un campo per lavorare, con in testa il sogno di comprarsi una fattoria tutta loro. La storia ovviamente è bellissima, anche perché il materiale di riferimento è stato rispettato in ogni sfaccettatura, il problema è una regia da fiction Rai, senza idee, senza alcun guizzo, senza emozioni. A proposito di Twin Peaks, anche qui c’è Audrey (Sherilyn Fenn) che ama mettersi nei guai e, ovviamente, è stupenda. Non se ne esce. Il film non mi è piaciuto molto, ma se volete dargli una chance lo trovate su Prime Video.
••½
Ieri, Oggi, Domani (1963): Vittorio De Sica prende tre soggetti scritti da “due di passaggio” come Eduardo De Filippo e Cesare Zavattini e costruisce un film con tre episodi, tutti interpretati da Sophia Loren e Marcello Mastroianni. Il primo è senza dubbio il più bello, la storia di una venditrice abusiva di sigarette che, pur di evitare il carcere, si fa continuamente mettere incinta dal marito. Il secondo, il meno riuscito, racconta la tresca tra una ricca signora milanese e un uomo di condizioni più modeste, un rapporto messo alla prova da un banale incidente. Nel terzo, che forse è il più celebre (anche chi non l’ha visto conosce la scena cult dello striptease di Sophia Loren), mostra l’incontro tra una squillo d’alto bordo e un giovane seminarista. Premio Oscar come miglior film straniero, ha il merito di mostrarci una Piazza Navona meravigliosa quasi quanto la Loren, oltre a una serie di momenti di genialità che sono una della massime espressioni del cinema italiano. Se volete vederlo lo trovate su Mubi.
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No Other Land (2024): Un collettivo di registi israeliani e palestinesi racconta la violenza e la distruzione da parte dei coloni israeliani di una piccola comunità rurale della Cisgiordania, Masafer Yatta. Il rapporto tra un giornalista di Isreaele e un giovane attivista palestinese è uno dei tantissimi spunti di un film che, inevitabilmente, atterrisce lo spettatore con le tante crudeltà che mostra e che, al tempo stesso, commuove per l’enorme forza e la necessità di sopravvivere che mette in scena minuto dopo minuto. È complicato racchiudere in poche righe tutta l’impotenza che si prova durante la visione, ma anche la voglia di abbracciare i bambini che vengono fatti sfollare dalla scuola, prima che venga distrutta da una ruspa. Premio Oscar per il miglior documentario, una storia che fa male, ma che riesce anche a illuminare con la sua umanità. Lo trovate su Mubi (cliccate qui per vederlo gratis per 30 giorni).
••••½
Peeping Tom (1960): Noto anche con il titolo L’Occhio che Uccide, è forse l’ultimo grande successo di Michael Powell, uno dei massimi esponenti del cinema britannico. Un operatore cinematografico, perverso voyeur, nel tempo libero uccide donne riprendendole con la sua macchina da presa. Cult movie eccezionale, un thriller metacinematografico in cui il pubblico è un voyeur tanto quanto lo è il protagonista, poiché Powell ci mette in condizione di osservare le uccisioni dalla soggettiva dell’uomo che osserva la paura attraverso la sua macchina da presa. Freudiano fino al midollo, è un film sul quale si potrebbero scrivere intere tesi di laurea (e sono certo che siano già state scritte). Da non perdere, lo trovate su Prime Video.
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Love Lies Bleeding (2024): Curiosamente avevo visto questo film lo scorso dicembre, pochi giorni aver visto un altro film di Michael Powell, Scarpette Rosse. L’ho rivisto per mostrarlo alla mia dolce metà e posso confermare tutto ciò che di buono avevo scritto allora: che bella sorpresa quest’opera seconda della giovane regista londinese Rose Glass! Ad Albuquerque, nella palestra gestita da Kristen Stewart, una sera piomba una culturista fuggita di casa per prepararsi a un festival di body building. Le due ragazze si innamorano, ma la situazione ben presto precipita. Ci sono echi di Thelma e Louise, con un vago richiamo al cinema dei Coen, c’è una dose di violenza potente ma non eccessiva, ci sono steroidi, c’è un Ed Harris viscido e inquietante: il tutto è messo insieme così bene dalla regista, che quando il film finisce sei davvero soddisfatto per come hai speso gli ultimi 100 minuti. Certo che tra questo e l’universo di Breaking Bad, Albuquerque deve essere proprio un cavolo di posto pericoloso. Da recuperare.
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Draft Day (2014): Mi piacciono molto i film che mostrano i dietro le quinte del mondo sportivo (da Jerry Maguire a Ogni Maledetta Domenica, fino allo splendido Moneyball), inoltre provo una stima infinita per Ivan Reitman, padre degli acchiappafantasmi (qui al suo ultimo film), e Kevin Costner è un attore che non sbaglia molti film. Gli elementi per vedere qualcosa di davvero interessante c’erano quindi tutti e, a suo modo, le premesse non sono male: il film infatti racconta il giorno del draft, che è la cosa più vicina al calciomercato che esista negli sport statunitensi, in questo caso il football. Kevin Costner è il manager della squadra di Cleveland e, durante tutto il film, cercherà di fidarsi del suo istinto per costruire una squadra competitiva. La prima parte si basa probabilmente su troppi tecnicismi e un regolamento non del tutto familiare al pubblico italiano (me compreso, nonostante qualcosa la sappia), che è anche una delle ragioni per cui si fa fatica a entrare nella storia. Piano piano, quando diventa più chiaro ciò che sta accadendo, il film è senza dubbio più coinvolgente, con un terzo atto costruito in maniera impeccabile. Se vi piace il genere può valere la pena buttarci un occhio, lo trovate su Prime Video.
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Bowfinger (1999): C’era un mio amico del liceo, il buon Gigi, che ai tempi era un fanatico di questo film di Frank Oz, scritto, diretto e interpretato da Steve Martin. Nonostante il suo entusiasmo non avevo mai avuto modo di vederlo fino ad oggi: errore mio, perché il film è veramente uno spasso. Steve Martin è un produttore cinematografico che, dopo aver letto una sceneggiatura di fantascienza, decide di girare un film nonostante non abbia un soldo e, quel che peggio, il rifiuto di una star che è una garanzia al box office, Eddie Murphy. Dopo aver messo insieme una troupe di scappati di casa (letteralmente), il nostro deciderà di girare il film a insaputa dell’attore, che verrà ripreso nella vita di tutti i giorni, costretto a interagire con gli attori del film, a loro volta ignari dell’estraneità della star al progetto. Ci sono momenti in cui si ride veramente di pancia, a cui si aggiunge un cast pieno di talenti (Heather Graham e Robert Downey Jr, tra gli altri). La cosa più assurda è che la storia è ispirata a un fatto davvero accaduto, quando nel 1927 una diva del cinema muto, in visita in Unione Sovietica, diventò l’ignara protagonista del film Il Bacio di Mary Pickford.
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Capitolo 404: Queer e Ora
Prima di parlare del qui e ora, un passo indietro: marzo si è chiuso con 21 film all’attivo, di cui ovviamente abbiamo ampiamente parlato. In tutto il 2025 (esclusi questi primi giorni di aprile) mi trovo dunque con un totale di 62 film, 10 in meno rispetto all’anno scorso, che è stato il mio anno dei record. Il motivo di questo ritardo non è causato da un’impennata della mia vita sociale, figuratevi, ma va più probabilmente ricercato nelle tante serate dedicate al rewatch di Twin Peaks, ormai agli sgoccioli. Alla lista qui di seguito manca Zodiac, trovato anche quest’anno in tv e inevitabilmente rivisto, ma ne ho già parlato così tanto in passato che, per questa volta, ho pensato di ometterlo (tanto cosa devo dirvi ancora, è un capolavoro).
Queer (2024): Avevo discrete aspettative su questo nuovo film di Luca Guadagnino, anche perché le sue opere precedenti mi sono piaciute praticamente tutte (niente che mi facesse strappare i capelli, anche perché stanno cadendo da soli, ma comunque lo ritengo un autore più che apprezzabile). Qui invece non funziona quasi nulla, se non gli ottimi interpreti (Jason Schwartzman è fantastico) e alcune sequenze oniriche (specie nella prima parte) che omaggiano David Lynch e lo fanno anche bene. Daniel Craig è un tossico espatriato in Messico, dove fa il viveur tra un locale gay e l’altro. In uno di questi incontra un ragazzo che gli farà perdere la testa, ridefinendo il suo concetto di dipendenza. Decisamente meglio nella prima parte, quando si attiene al romanzo omonimo di Burroughs, cala drasticamente nel terzo atto, tra trip allucinati e ricerca dell’ayahuasca come fosse il Santo Graal. La colonna sonora con i Nirvana poi, mi è sembrata totalmente fuori luogo, così come alcune scenografie, talmente finte che mi sono sembrate ricostruite con l’AI, ma spero di sbagliarmi. Delusione.
••½
Possession (1981): Il polacco Andrzej Żuławski, oltre ad essere stato assistente di Wajda e uomo più invidiato del mondo nei 17 anni in cui è stato insieme a Sophie Marceau, è anche il regista di questo straordinario e assurdo film. Citare la trama senza rivelare troppo sarà un’impresa: nella Berlino divisa dal muro, Sam Neill e Isabelle Adjani sono una coppia in crisi. Non si amano più e per questo lei decide di portarsi via il figlioletto e lasciare il marito. In realtà la donna sta vivendo una sorta di doppia vita in cui nasconde un segreto che è meglio non conoscere. Probabilmente ho già detto troppo, ma sarebbe stato complicato far capire il livello di ansia, mistero e orrore che avvolge ogni scena, con una macchina da presa che gira di qua e di là, in alcune delle carrellate più audaci (e bellissime!) che abbia mai visto in un film. Un cult per cui David Lynch nel 2006 spese parole importanti, definendola “la pellicola più completa degli ultimi 30 anni”. Palma d’Oro a Cannes per la migliore interpretazione femminile, il modo in cui il regista riesce a rendere la stessa Berlino protagonista è strepitoso, con l’angoscia dei personaggi che viene amplificata dalla presenza, a due passi, del muro, dei soldati, del filo spinato. Cultissimo.
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Seven (1995): In un tranquillo sabato sera, dopo che hai visto la partita della Roma, fai zapping in tv e trovi questo capolavoro di Fincher appena iniziato, che fai? Cambi canale? Non credo proprio. Ed è così che ti rivedi Brad Pitt e Morgan Freeman alle prese con un assassino che sceglie le sue vittime in base ai sette peccati capitali. Ed è così che rivivi tutta la claustrofobia di una città cupa, perennemente piovosa, fredda, fino a quel clamoroso e assolato finale, uno dei più incredibili della storia del cinema. Ricordo perfettamente quando a 14 anni vedevo il trailer in tv e la felicità, un anno dopo, quando venne messo in programmazione su Telepiù, dove lo vidi e rividi fino a farmelo uscire dalle orecchie. Immenso.
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Voglia di Vincere (1985): Se ci si ferma a pensare è incredibile quanto eravamo felici negli anni 80, senza saperlo. Quando la sera in tv passavano un film con Michael J. Fox e tu te ne stavi là a guardarlo, magari sperando un giorno di diventare simpatico e gagliardo come lui. Il nostro qui è uno studente di liceo, nonché titolare nella sfigatissima squadra di basket della scuola, celebre per prendere scoppole a destra e a manca. Un giorno il ragazzo scopre di aver ereditato la licantropia, ciò che non può ancora sapere è che la sua versione da lupo farà impazzire le ragazze, lo renderà un fenomeno a basket e, di conseguenza, il ragazzo più popolare della scuola. Ma non è tutto oro ciò che luccica… Ammetto che sia invecchiato maluccio (o forse sono invecchiato male io), i miei ricordi di questo film erano molto più felici e positivi rispetto a questo rewatch avvenuto una trentina d’anni dopo l’ultima volta. Ennesima dimostrazione che i film restano sempre uguali, sono i nostri occhi che cambiano, maturano, forse peggiorano. Diamine però quanto si stava meglio, in quei fottuti anni 80. Il film è in streaming su Prime Video.
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Il Cavaliere della Valle Solitaria (1953): Due anni prima di girare Il Gigante, noto anche come l’ultimo film di James Dean, il regista George Stevens gira questo western atipico, una sorta di Lo Chiamavano Trinità senza fagioli (ma con le scazzottate!). Il protagonista Shane, che già conoscevo per essere stato citato più volte nel bel thriller Il Negoziatore, è un pistolero dal cuore d’oro che, di passaggio in una vallata, decide di fermarsi per rifarsi una vita come contadino e, al tempo stesso, difendere gli altri contadini da un proprietario terriero avido che vuole tutte le loro terre per sé. Con le splendide montagne del Wyoming a far da sfondo alla valle solitaria del titolo italiano, le due fazioni si provocano, si pizzicano, si menano e, inevitabilmente, si sparano per gran parte del film. Al di là della semplicità della storia, è appassionante, coinvolgente, si fa il tifo per i buoni come se fosse una partita dell’Italia ai Mondiali e ora capisco perfettamente perché i ragazzini dell’epoca fossero in fissa con Shane. 6 candidature agli Oscar (compreso film e regia) e la statuetta per la migliore fotografia. Bello!
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Il Colore del Melograno (1969): Considerato un film più unico che raro nella storia del cinema, il film dell’armeno Sergej Iosifovič Paradžanov racconta la vita del poeta errante Sayat Nova, dall’infanzia alla corte del principe, fino al ritiro in convento e quindi la morte. Le immagini, dei tableaux vivants a inquadratura fissa, sono tutte ispirate alle opere del poeta, tra allegorie, nature morte, fantasie oniriche e surrealismo, dove spicca il colore del melograno, che richiama subito al sangue versato dal popolo armeno. Un film inafferrabile, enigmatico, ipnotico, ma anche affascinante a non finire: bisogna scendere a patti con il suo simbolismo, il suo linguaggio cinematografico totalmente diverso da ciò a cui siamo abituati, ma se si riesce a entrare in contatto con quella poesia, è difficile non restarne abbagliati. Inoltre, cosa non da poco, dura meno di 80 minuti. Scelto come film preferito per il progetto Film People (qui anche in versione video!), se avete voglia di avventurarvi nella vita di questo bardo armeno del Settecento, potete farlo su Rai Play (dove lo trovate sotto il titolo Sayat Nova).
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Capitolo 403: Un Sogno Chiamato Primavera
La primavera alla fine non ha tardato tanto ad arrivare, ci siamo dentro e con essa è arrivato un capitolo pieno di film bellissimi, che inizia da un paio di rewatch necessari e prosegue con tre visioni (per me) inedite che sono state un crescendo di bellezza, culminate con un grande ritorno al cinema. In questi ultimi dieci giorni ho anche visto l’opera seconda di Valerio Mastandrea, Nonostante, ma come al solito non la troverete tra i film di questo capitolo perché gli ho già dedicato una recensione completa. Prima di venir tacciato di eccessivo nerdismo, ci tengo a sottolineare che il fatto di aver visto un film che ha la parola “primavera” nel titolo proprio questa settimana in cui è iniziata la stagione in questione è stato assolutamente e puramente casuale.
Hong Kong Express (1994): Probabilmente il mio film preferito di Wong Kar Wai, costruito su due episodi ben distinti: nel primo un poliziotto, dopo esser stato lasciato dalla sua ragazza, decide di aspettare un mese per vedere se c’è la possibilità che lei cambi idea. Nel frattempo incontra in un bar una donna misteriosa, dalla parrucca bionda, che ha a che fare con la malavita locale. Nella seconda storia c’è un altro poliziotto che, dopo una storia d’amore finita male, viene avvicinato dalla giovane commessa di un chiosco, segretamente innamorata di lui. La ragazza, senza farsi notare, apporta dei miglioramenti alla vita di lui per rallegrarlo e farlo aprire nuovamente all’amore. Il film, specialmente la seconda parte, è di una bellezza rara, tra echi della futura Amelie di Jeunet e le atmosfere cupe di un certo cinema di genere tipico di Hong Kong. Impossibile non perdere la testa per la splendida Faye Wong (che tra l’altro è una celebre cantante pop cinese, nel film è proprio lei infatti a cantare la cover di Dreams dei Cranberries). Una curiosità: fu Quentin Tarantino a distribuire questo film negli Stati Uniti, dopo averlo scoperto al Festival di Stoccolma dove si era recato per presentare il suo Pulp Fiction. Che filmone.
••••½
Un Sogno Chiamato Florida (2017): Il mio film preferito di Sean Baker, quando ancora era un quasi perfetto sconosciuto (tranne per noi, ovviamente!). A Orlando, nella Florida del titolo, a due passi dalle luci e dai dollari fruscianti di Disneyland, ci sono diversi motel di basso ordine, dove famiglie, ragazze madri e personaggi di ogni genere cercano di sbarcare il lunario. Mentre gli adulti si divincolano tra lavoretti e sotterfugi, i bambini, sotto gli occhi del manager del motel Willem Dafoe, fanno ciò che sanno fare meglio: giocano. Un film sull’innocenza perduta, ma anche sul magico potere dell’infanzia, che protegge e abbraccia con il suo qui e ora, mentre il futuro non esiste e il mondo degli adulti, inevitabilmente, cade a pezzi. Straordinaria interpretazione della piccola Brooklynn Prince e uno dei finali più belli di questo secolo di cinema. Film stupendo, lo trovate su Mubi.
••••½
Hoard (2023): A volte le strade che ti portano a scoprire un film sono davvero curiose. Negli ultimi mesi sono andato in fissa con la band irlandese Fontaines D.C. e, guardando il bellissimo videoclip di una loro canzone del 2024 (In The Modern World) ho scoperto che la regista aveva fatto il suo debutto cinematografico con questo film dell’anno precedente. Comincia con una madre e una bambina che vivono in condizioni disagiate e ho pensato: “Cavolo, sarà una copia di Un Sogno Chiamato Florida?”. La madre è un accumulatrice seriale, ogni sera si carica di spazzatura e oggetti trovati per strada e se li porta a casa, dove le due sono costrette a vivere sopra montagne di detriti. Questo però è solo il primo atto, poi c’è un salto di dieci anni e la bambina di prima è ora adolescente, vive con una donna che ne ha preso l’affidamento e fa le cose che farebbe una normale ragazza della sua età, finché non succedono un paio di cose: Eddie di Stranger Things viene ospitato per qualche giorno a casa loro e, soprattutto, riceve un pacco con le ceneri di sua madre. Il cortocircuito è che a un certo punto la protagonista (la bravissima esordiente Saura Lightfoot-Leon) dice “That’s what she said”, indimenticabile tormentone di The Office, nonostante la storia sia ambientata negli anni 90. Mi sono chiuso su questa cosa e non ne esco. Ad ogni modo è un film molto bello, diretto magnificamente da una regista under 30, in uno stile che ricorda molto il cinema di Andrea Arnold, ma in qualche modo anche qualcosa di Charlotte Wells. Una nota personale sulla colonna sonora: quanto avrei amato ascoltare Trash degli Suede in questo film!
•••½
Tarda Primavera (1949): Vedere un film di Ozu è come contemplare un’opera d’arte in un museo. Osservi, ammiri, contempli ed esci da lì sentendoti arricchito. Anche in questo caso, ma giuro che è una coincidenza, ci troviamo di fronte a una storia di genitori e figli: una ragazza di 27 anni vive felicemente con il padre vedovo, con cui trascorre giornate bellissime che le mantengono costantemente vivo il sorriso (pure troppo, forse). Incalzata da una zia petulante e scassapalle, che vorrebbe combinare un matrimonio alla nipote prima che diventi troppo adulta per sposarsi, il mondo felice della ragazza si sgretola lentamente, a tal punto da costringere il padre a fare una scelta. Impensabile vedere un film di Ozu senza innamorarsi delle sue inquadrature fisse, delle sue prospettive, di come bilancia un’immagine con un oggetto in primo piano, magari fuori fuoco, incorniciando poi i personaggi all’interno di porte, finestre e continui frames, lungo vie di fuga che sembrano non finire mai. Quando occhi e cuore trovano il punto d’incontro, si può parlare di grandissimo film. Certo, la trama in sé non è magari la mia tazza di tè (anzi, di sakè!), ma quanta bellezza in questi 90 minuti. Lo trovate su RaiPlay all’interno di una bellissima rassegna di film dedicati al regista giapponese: approfittatene!
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Amadeus (1984): Qualche mese fa, quando ho scoperto che questo film di Milos Forman è il preferito di Julie Delpy (e anche di Darren Aronofski!) e che aveva vinto la bellezza di 8 premi Oscar, ho pensato che vederlo subito fosse un obbligo cinefilo. Poi però ho scoperto che sarebbe uscito al cinema per il suo quarantennale e ho deciso di aspettare pazientemente la primavera per poterlo vedere su grande schermo. La storia, in alcun modo attinente alla realtà, racconta l’invidia e l’astio provato dal compositore italiano Antonio Salieri nei confronti del prodigioso e geniale quanto infantile e sregolato Wolfgang Amadeus Mozart. Ogni scena mette in mostra la straordinaria capacità del genio di Salisburgo (anche attraverso tantissime sue opere, dal Don Giovanni, a Le Nozze di Figaro, al Flauto Magico, per citarne alcune) e il clamoroso complesso di inferiorità dell’italiano, interpretato da un F. Murray Abraham in stato di grazia (inevitabilmente premiato con l’Oscar). Un inno alla mediocrità, con una scena iniziale perfetta e un grande finale, il tutto costellato da una serie di sequenze e trovate straordinarie come la festa di Carnevale, l’inettitudine del ridicolo imperatore Jeffrey Jones o l’irritante risata di Tom Hulce (che fino ad allora era celebre solo per il suo ruolo in Animal House di John Landis e che ottenne la parte ai danni dei più quotati Mel Gibson e Mark Hamill). Nonostante le vicende raccontate nel film siano completamente inventate, è tutto così geniale e machiavellico da renderlo vero come solo la finzione sa essere. Vederlo al cinema, su grande schermo, è stata decisamente una buona idea.
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SERIE TV: Quasi per caso mi sono ritrovato una sera a riguardarmi l’episodio pilota de I Segreti di Twin Peaks. Inutile dire che mi sono messo poi a rivedermelo tutto: ora sono a metà della seconda stagione, si è già scoperto chi è stato ad uccidere Laura Palmer e, niente, pensare che una cosa del genere sia andata in onda nei primi anni 90 in prima serata su Canale 5 mi fa uscire matto. Chi ha avuto la fortuna di vedere questa serie negli anni in cui si chiamavano telefilm è stato testimone di una svolta storica nella tv e nella serialità, il momento in cui il cinema e il genio di un regista immenso come David Lynch è entrato nelle case di milioni di ignari telespettatori, cambiandone per sempre il modo in cui avrebbero poi fruito del mezzo televisivo. Perché solo un visionario come Lynch poteva pensare di mettere dentro una tv un nano che parla al rovescio, un gigante profetico, un uomo senza un braccio, una donna che parla con un ceppo, un agente dell’FBI che utilizza il sogno e la meditazione tibetana per risolvere i casi e tantissime altre cose di questo genere (oltre a una collezione di ragazze stupende, in una cittadina di 50mila anime che ha probabilmente la più grande concentrazione di bellezza mai vista in un prodotto televisivo!). Ah, come dimenticare poi la colonna sonora pazzesca e onnipresente di Angelo Badalamenti? Non vedevo Twin Peaks da otto anni e ho amato moltissimo tornarci. Vorrei quasi non potermene più andare, anche se Bob fa davvero paurissima.
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Capitolo 398: Gennaio è Servito
Ridendo e scherzando ci stiamo avvicinando a grandi falcate al capitolo numero 400, un bel numero, soprattutto perché richiama un certo film a cui sono appena appena legato. Ma di questo parleremo a tempo debito, perché oggi c’è davvero tanta carne sulla brace, generi molto diversi tra loro, cinema di ogni tipo. Ad ogni modo è stato un buon inizio, per quanto riguarda il 2025: se anche stasera guarderò un film (e non vedo come ciò non possa succedere), anche quest’anno, così come l’anno scorso, avrò visto 26 film a gennaio. Restiamo in media.
Mississippi Burning (1988): Buonissimo film di Alan Parker (regista di Fuga di Mezzanotte, Pink Floyd The Wall e The Commitments, per citarne alcuni) ispirato ad una storia realmente accaduta. Siamo negli anni 60 e tre giovani attivisti per i diritti civili degli afroamericani spariscono nel nulla dopo essersi recati in una cittadina del Mississippi. L’FBI manda il cazzuto ma ligio alle regole Willem Dafoe e il più anziano, ma ancor più cazzuto, Gene Hackman per indagare su quanto accaduto, scoperchiando un pozzo di odio, razzismo, omertà. C’è un po’ troppo manicheismo, non a caso i personaggi più interessanti sono quelli che presentano zone grigie (lo stesso Hackman e Frances McDormand, bravissima). Bel film, ti fa indignare per bene, ti fa sbattere i pugni e, a tratti, ti gratifica, anche se forse il finale avrebbe avuto bisogno di una scena più memorabile. Ad ogni modo, molto contento di averlo recuperato. Lo trovate su Prime Video.
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Walk The Line (2005): La sera stessa dopo aver visto A Complete Unknown (cliccate sul titolo per leggere la recensione completa) ero talmente in brodo di giuggiole da sentire il bisogno di rivedere per la decima (?) volta il precedente biopic musicale di James Mangold, incentrato su Johnny Cash e sul tormentato corteggiamento di June Carter. Si tratta di un film che amo molto, che ha sicuramente segnato i miei anni universitari, i ricordi più belli (ma qui Johnny Cash ha avuto decisamente il suo peso) e ci sono davvero molto affezionato. Come si fa a non fare il tifo per Joaquin Phoenix, quando chiede ripetutamente a Reese Witherspoon di sposarlo? Come si fa a non emozionarsi quando quei due meravigliosi protagonisti cantano It Ain’t Me Babe di Bob Dylan guardandosi in quegli occhi che sprigionano amore (rendendo ironiche quelle stesse parole che stanno cantando)? Sono talmente legato a questo titolo che ogni parola sarebbe superflua: non posso essere obiettivo. Viva Johnny Cash.
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Signori, il Delitto è Servito (1985): Esordio alla regia di Jonathan Lynn (celebre più che altro per l’esilarante commedia Mio Cugino Vincenzo, del 1992), che insieme a John Landis adatta per il cinema il celebre gioco da tavola Cluedo. Sei persone vengono invitate a cena in un’enorme villa nella campagna del New England. Un omicidio sconvolgerà la serata, con gli avventori che, insieme al maggiordomo Tim Curry, tenteranno di scoprire l’identità del colpevole. Classico whodunit leggero, si ridacchia qua e là, ma galleggia tutto sulla superficie, senza grandi idee registiche o narrative. Va segnalato però un buon cast, con il già citato Tim Curry, oltre a Christopher Lloyd, Madeline Kahn (la ricorderete in Frankenstein Junior) e Michael McKean (il fratello di Jimmy in Better Call Saul!), tra gli altri. Carino ma tra pochi giorni lo avrò già dimenticato.
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Treni Strettamente Sorvegliati (1966): Premio Oscar per il miglior film straniero, un biglietto da visita niente male per questo film cecoslovacco diretto dall’esordiente Jiri Menzel e ambientato quasi esclusivamente all’interno di una stazione ferroviaria di provincia. Durante l’occupazione nazista, un giovane ferroviere cerca di imparare il mestiere e al tempo stesso di dimostrare alla sua ragazza di essere un “vero uomo”. La sua inadeguatezza sessuale lo spinge sull’orlo della depressione, mentre intorno a lui succede un po’ di tutto, almeno fin quando la guerra non irrompe nella quotidianità della stazione. C’è follia e tenerezza, è come se lontani parenti di Wes Anderson e Aki Kaurismaki avessero deciso di fare un film insieme. Bellissimo, lo trovate su Prime Video.
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Bread and Roses (2000): Un film minore di Ken Loach è pur sempre un film di Ken Loach. In questo caso il regista britannico gira per la prima volta negli Stati Uniti, realizzando il tipico film di denuncia sulla precarietà del lavoro e lo sfruttamento capitalista, inserito in questo caso nel contesto dell’immigrazione clandestina. Una ragazza messicana passa la frontiera per raggiungere sua sorella, che vive già da tempo a Los Angeles. Riesce a farsi assumere come addetta alle pulizie in un prestigioso grattacielo, dove però le condizioni di lavoro sono pietose: qui entrerà in gioco il simpatico sindacalista Adrien Brody, che la convincerà a lottare per i suoi diritti. Ciò che vediamo fa talmente tanta rabbia che se si pensa per un momento che tutto questo accade veramente (e 25 anni dopo la situazione è pure peggiorata), puoi davvero cascare malato: per fortuna Loach riesce a ripiegare spesso su qualche spunto da commedia e porta a casa un lavoro più che interessante, magari non uno dei suoi migliori titoli, ma pur sempre un film di Ken Loach al 100%. Lo potete vedere su Mubi.
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The Girl With the Needle (2024): Il candidato danese ai prossimi Oscar, nominato come Miglior Film Internazionale e già in concorso allo scorso Festival di Cannes, è davvero un’opera notevole. Diretto da Magnus Von Horn, è ispirato a un fatto davvero accaduto, ma per il vostro bene eviterò di accennare troppo alla trama. Vi basti sapere che al centro della storia, ambientata nel primo dopoguerra, c’è una giovane operaia, Karoline. Rimasta incinta, la ragazza viene licenziata e, per questo, resta sola al mondo. L’incontro con una donna più anziana, che aiuta giovani madri indigenti a dare una vita migliore ai loro bambini, cambierà le carte in tavola, almeno finché Karoline non decide di saperne di più. Girato in un bianco e nero esteticamente sublime, il film di Van Horn riesce a cambiare direzione ogni dieci minuti, permettendo all’angoscia di insinuarsi sotto la pelle dello spettatore, fino a un climax eccezionale, che lascia senza parole. Un grande film europeo, assolutamente da vedere, nonostante sia davvero angosciante. Ma come diceva il saggio: “Non si può mica campare di sole commedie”. Lo trovate su Mubi (se volete provarlo gratis per un mese, cliccate qui).
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Tootsie (1982): Non avevo mai visto questo film di Sidney Pollack ed è strano, visto che Dustin Hoffman (qui strepitoso) è uno dei miei attori preferiti della sua generazione. Stavolta il nostro Dustin è un attore di talento che, a causa del suo carattere pignolo e piuttosto fastidioso, viene respinto a ogni audizione e per questo non può mai sperare di staccarsi dal lavoro di cameriere, che condivide con il suo coinquilino Bill Murray (che coppia, avrei voluto vederli di più insieme!). Stanco di essere rifiutato, Dustin Hoffman decide di presentarsi a un’audizione per il ruolo di una donna tutta d’un pezzo, nuovo personaggio di una soap di successo. Ottenuta la parte, per l’attore cominciano i veri guai, gli equivoci e, fortunatamente per noi, parecchie risate. Dieci nomination agli Oscar (e solo una statuetta, a Jessica Lange come migliore attrice non protagonista), una commedia sfrontata, bizzarra ma decisamente divertente, moderna, che tende a ridicolizzare la società maschiocentrica (nel 1982!) e dove Bill Murray sembra l’unico personaggio veramente normale (e ho detto tutto): “arrostirai all’inferno per quello che stai facendo”, “io non credo nell’inferno, credo nella disoccupazione”. Bello, mi sono proprio divertito.
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Capitolo 397: Quella Mezza Dozzina
Lo so, il capitolo precedente l’ho pubblicato appena quattro giorni fa e molti di voi penseranno: “Davvero ti sei visto sei film in quattro giorni?”. Beh, che volete farci, succede, soprattutto a gennaio, quando fuori fa freddo, una brutta tosse ti obbliga a restare al caldo e la domenica ti metti a vedere un film dietro l’altro. Qualche piccola novità: nella home del sito, in basso, ho inserito un bel banner che rimanda al mio account su Letterboxd, il mio social preferito, che ha davvero migliorato tutto ciò che riguarda la condivisione e la scoperta di nuovi titoli. Se non sapete ancora di cosa si tratta, ve ne parlo qui. È stato inoltre annunciato il programma della prossima Berlinale, dove spicca l’ultima fatica di Linklater (Blue Moon, ovviamente con Ethan Hawke) e Mickey 17, attesissimo film di fantascienza di Bong Joon-ho. Per il resto andiamo velocemente ai film di questo capitolo, ché c’è una mezza dozzina di titoli di cui parlarvi.
Emilia Perez (2024): Domani escono le nomination agli Oscar e immagino che questo film straordinario di Audiard ne riceverà parecchie. Rispetto alla prima volta in cui l’ho visto (ottobre scorso) manca ovviamente l’effetto sorpresa, anche perché lo vidi senza sapere assolutamente nulla della trama e questo devo dire che ha funzionato parecchio, visto che parliamo di un film che ha dentro di sé mille film diversi: musical, gangster, dramma sociale, sentimento, famiglia, identità, redenzione. Un’idea quasi grottesca, a pensarci, che nella sua straordinaria messa in scena non perde un solo grammo di credibilità. Inoltre le attrici, Zoe Saldana in primis, sono tutte straordinarie. L’ho amato la prima volta, l’ho amato durante questo rewatch. Uno dei film dell’anno, senza dubbio.
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Quella Sporca Dozzina (1967): Quand’ero bambino passavano spesso in tv questo film, che credo piacesse molto a mio padre, perché lo avrò visto tantissime volte. Lo scorso weekend è nuovamente passato in tv, appena cominciato, ed è stata una bella occasione per ritrovare un film bellissimo, con un ottimo cast (Charles Bronson, John Cassavetes, Donald Sutherland, Ernest Brognine, Lee Marvin, Terry Savalas…) e una storia appassionante: durante la Seconda Guerra Mondiale, un Maggiore dell’esercito statunitense, piuttosto restio alle regole e scomodo per lo Stato Maggiore, è incaricato di mettere insieme una squadra di ergastolani, per addestrarli, abituarli alle regole militari e conquistare una postazione tedesca nella Francia occupata. Ci sono momenti di grande cinema (che tra l’altro hanno ispirato anche Tarantino per Bastardi Senza Gloria, scusate se è poco), ma soprattutto Aldrich ha il merito di aver amalgamato perfettamente il cast, misurando bene ogni scena (e dando il via alla carriera di Sutherland, che inizialmente doveva avere una sola battuta).
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Un’Ottima Annata (2006): Ai tempi dell’uscita in sala (e successivamente) avevo così tanto bisogno di un po’ di freschezza, del sole della Provenza, di Marion Cotillard in bicicletta e di tutti i cliché possibili sulla bellezza della Francia meridionale, da lasciarmi volontariamente sedurre da questo film di Ridley Scott, che vede Russell Crowe, algido broker londinese, ereditare un vigneto in Provenza. Recatosi sul posto per vendere la proprietà, il nostro si innamora di tutto ciò che potete immaginare possa esserci in una cartolina della Provenza. Le scene di Londra, con la pioggia e la fotografia dai toni ghiacciati, sono talmente didascaliche da creare quasi tenerezza. È sempre brutto rivedere un film che hai amato da ragazzo ora che sei un adulto più cinico, meno disposto ad andare in brodo di giuggiole per l’accento francese di Marion Cotillard (per quanto…) o per la lenta vita di campagna. Un buon guilty pleasure, ma del bel film che ricordavo è rimasto ben poco. Sufficienza di stima, per sottolineare quanto sia comunque confortevole addentrarsi in una cartolina da favola.
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My Old Ass (2024): Sono iscritto a una newsletter curata nientepopodimeno che da Nick Hornby il quale, in una delle sue ultime email, parlava molto bene di questo film. Siccome Hornby, quando parla di musica, cinema e letteratura è qualcuno di cui ci si può davvero fidare (anche perché è grazie a lui se è nata questa rubrica e forse lo stesso blog), ho sfidato i miei dubbi e ho guardato l’opera seconda di Megan Park, presentata al Sundance, in cui una diciottenne entra in contatto con se stessa a 39 anni, la quale le intima di non frequentare assolutamente un ragazzo di nome Chad. Che strana cosa da dire a te stessa più giovane, non trovate? La premessa è quindi intrigante, incuriosisce, soprattutto perché il Chad in questione è davvero un pezzo di pane. Non dirò altro se non che lo script è davvero ottimo, ma la regia, la fotografia, il montaggio e, tiè, pure la colonna sonora, sono talmente televisivi, tipo “film da pomeriggio su TV8”, da smorzare ogni entusiasmo sull’efficacia della storia, che è molto bella. Ecco, mi sarebbe piaciuto davvero tanto se un film del genere fosse stato girato da una regista come Charlotte Wells (quella di Aftersun, per intenderci). Ad ogni modo è un film valido, lo trovate su Prime Video e, parola di Nick Hornby, merita una chance.
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Bianca (1984): Girato tre anni dopo Sogni d’oro, nel quarto film di Nanni Moretti è possibile ritrovare i tipici elementi del suo cinema, drammi psicologici, sentimentalismo, il protagonista al centro di ogni scena e, ovviamente, ottime scelte musicali. Il nostro è un professore di matematica ossessionato dalla vita di coppia, che scruta, osserva, idealizza in un idillio di pura felicità, che ovviamente non può corrispondere al vero: è proprio nelle rotture, nelle crepe di questo matematico 1+1 ideale che il suo personaggio va in crisi, mostrando comportamenti e reazioni sempre più eccessive. L’idea di base non mi è dispiaciuta, la messa in scena però lascia talvolta a desiderare e Moretti, sia in passato che in futuro, ci ha mostrato cose molto più belle, girate molto meglio e senza dubbio meno forzate. Però come fai a non amarlo? Ci sono davvero tante scene cult, dalla descrizione delle scarpe delle donne alla foto di Dino Zoff appesa in classe al posto di quella del Presidente Pertini, la lezione su Gino Paoli, Scalo a Grado di Battiato (immancabile!) e l’uso di Insieme a te non ci sto più di Caterina Caselli, che lo stesso Moretti renderà immortale quasi due decenni dopo nella Palma d’Oro La Stanza del Figlio. Sorprendente invece l’utilizzo di In the Middle of All That Trouble Again di Micalizzi, tema portante di Nati con la Camicia con Bud Spencer e Terence Hill, uscito in sala l’anno prima. Al di là della digressione musicale, il film è uno sguardo interessante sul cinema italiano anni 80, Laura Morante è magnifica e Moretti è sempre esilarante, a suo modo. Lo potete vedere su Mubi.
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St Elmo’s Fire (1985): Joel Schumacher ci presenta un normalissimo gruppo di amici degli anni 80, tra cui uno stalker, un alcolizzato, una cocainomane e un repubblicano (ma hanno anche dei difetti!), facendoli passare per i migliori amici che potremmo desiderare, faccia a faccia con la vita dopo l’università, la presa di coscienza di un mondo adulto che non offre più la vita felice e giocosa di un tempo. Insomma, tutti argomenti che mi stanno a cuore e riuscire a rendere piacevole la visione di una serie di personaggi così tossici e negativi è un mezzo miracolo, anche se alcune cose sono davvero troppo eccessive (soprattutto Emilio Estevez, che non solo stalkera Andie MacDowell in maniera inquietante, ma lei ne è pure lusingata!). Una sorta di seguito ideale di Breakfast Club (c’è dentro mezzo cast), con in più qualche droga, risse e alcol. Se si va oltre la tossicità dei personaggi maschili si può godere della nostalgia di un periodo pressoché magico, con in più qualche bel dialogo qua e là (l’amarezza di “I always thought we’d be friends forever, but forever got a lot shorter all of a sudden” o la meravigliosa serietà con cui Judd Nelson urla “No Springsteen is leaving this house!”, mentre la sua ex sceglie alcuni vinili da portare via di casa). Insomma, il film è pieno di cose sbagliate, tanto sbagliate, eppure mi è piaciuto molto (tra l’altro è anche uno dei film preferiti di Amy Adams): che belli gli anni 80 eh? “Non so se ucciderli o innamorarmi di loro”.
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#bianca #Cinema #daVedere #doveVedere #emiliaPerez #film #myOldAss #quellaSporcaDozzina #recensione #spiegazione #stElmoSFire #storia #unOttimaAnnata
Apriamo questo capitolo di fine maggio con un po’ di belle notizie: Megalopolis, il nuovo film di Francis Coppola, ha finalmente trovato una distribuzione italiana e quindi uscirà in sala anche da noi. Sean Baker ha vinto Cannes con Anora, sono molto felice perché si tratta di un cineasta meraviglioso, autore di tre film stupendi (Tangerine, Un Sogno Chiamato Florida e Red Rocket). David Lynch ieri ha detto che il 5 giugno succederà qualcosa da vedere e da sentire, una comunicazione che ha tutta l’aria di essere una mega supercazzola, ma ovviamente aspettiamo e speriamo. Meno sibilline invece le parole di Hayao Miyazaki, che proprio oggi ha detto di essere al lavoro su un nuovo progetto di azione/avventura, nostalgico, che ricorderà i vecchi tempi. Andiamo ora a scoprire i film visti nelle ultime due settimane, dove curiosamente spiccano nei titoli diversi nomi femminili.
Il Camaleonte (1989): Unica opera in carriera per Wendell B. Harris Jr., che scrive, dirige e interpreta un film che respira echi di Spike Lee e Cassavetes. Come da titolo, la storia racconta la vita di un uomo capace di spacciarsi, tra le altre cose, per reporter, avvocato, chirurgo, senza (quasi) mai farsi beccare. La presenza scenica del regista-attore è magnetica: non sarà un film perfetto ed è senza dubbio un filo logorroico, ma il modo in cui riesce ad essere caustico, morboso e svitato vale senz’altro la visione. Titoli di coda bellissimi, con attori e comparse che si alternano nel raccontare la favola della rana e dello scorpione, che poi è la chiave per leggere le azioni del protagonista. Premio della giuria al Sundance, lo trovate su Mubi.
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Tatjana (1994): Ancora un film di Aki Kaurismaki, ancora un film sulla solitudine dei suoi personaggi, sull’incomunicabilità. Due uomini escono in macchina per provare il motore, appena riparato: finiranno per dare un passaggio a due donne straniere, con cui riescono a stento a parlare. I protagonisti si dimostrano duri con gli uomini e fragili con le donne, ma in queste opere del cineasta finlandese c’è una dignità e una tenerezza davvero rare da trovare in altri film. Mi sarebbe piaciuto vedere le foto scattate da una delle protagoniste con quella splendida macchina fotografica analogica. Il film lo trovate, ovviamente, su Mubi.
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Murina (2021): Che bella sorpresa! L’esordio dietro la macchina da presa della regista croata Antoneta Alamat Kusijanovic è un coming of age originale, capace di permettersi delle incursioni nel thriller mantenendo sempre a pelo d’acqua il filo della tensione. In un’isola della Croazia un’adolescente, cresciuta in un contesto tanto incantevole quanto asfissiante, sogna una vita lontana da quella splendida prigione d’acqua che circonda la proprietà di famiglia. Quando giunge da loro un affabile e facoltoso amico del padre, nonché vecchia fiamma della madre (di cui è ancora invaghito), la ragazza pensa che sia arrivata l’occasione giusta per realizzare i suoi propositi. Camera d’Or a Cannes (premio assegnato alla migliore opera prima presente al Festival): fate girare altri film a questa regista! Anche questo, neanche a dirlo, lo trovate su Mubi.
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Furiosa (2024): Cinque capitoli per raccontare una vendetta lunga quasi due decenni. George Miller torna sulla Fury Road che aveva magnificamente percorso nove anni fa e ritrova il caos orgiastico del film precedente, nel quale cerca inevitabilmente di inserire una trama (leggasi pretesto) più narrativa, con ritmi a tratti più compassati. Il risultato è che questo prequel funziona molto meglio quando cerca di imitare Fury Road rispetto a quando vive di vita propria. Pur vero però che quando si splende del riflesso di qualcosa di molto vicino al capolavoro, la luce che arriva è comunque accecante, viva, luminosa: si tratta ad ogni modo di un film meno intenso, meno potente, meno incredibile del precedente.
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Che Fine Ha Fatto Baby Jane? (1962): Se Norman Bates di Psyco e Annie Wilkes di Misery avessero una figlia, questa sarebbe Baby Jane Hudson (anche se per motivi cronologici, forse sarebbe Annie la loro figlia, ma ci siamo capiti). Incredibile recuperare soltanto ora un film così bello, diretto splendidamente da Robert Aldrich e intrepretato divinamente dalle rivali Bette Davis e Joan Crawford, che qui interpretano due sorelle rimaste orfane: la prima folle aguzzina, infantile nella crudeltà e nei modi, l’altra costretta sulla sedia a rotelle, relegata in una stanza senza la possibilità di avere contatti con l’esterno. Cinque nomination agli Oscar e l’immortalità della storia del cinema.
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Un Sogno Lungo Un Giorno (1981): Il più grande flop della carriera di Francis Ford Coppola, ma avercene di fiaschi girati così bene, illuminati dalla luce pazzesca di Vittorio Storaro. A Las Vegas, durante i festeggiamenti per il 4 luglio, Frederic Forrest e Teri Garr (la bionda Inga di Frankenstein Junior), si lasciano in seguito a un brutto litigio. Ognuno cercherà di spegnere i dispiaceri tra le braccia, rispettivamente, della ballerina circense Natassja Kinski e del cameriere sognatore Raul Julia, incrociandosi e, in alcuni momenti, inseguendosi. 26 milioni di dollari spesi e soltanto 600.000 incassati: un disastro incredibile, ma che splendido disastro, così pieno di vita, di bisogno di amare ed essere amati, di soffusa malinconia. Lo trovate su Mubi.
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Tempesta di Ghiaccio (1997): Due anni dopo Ragione e Sentimento e tre prima de La Tigre e il Dragone, Ang Lee raduna in Connecticut un mix di giovani talenti (Christina Ricci, Tobey Maguire, Elijah Wood, Katie Holmes) e interpreti affermati (Kevin Kline, Sigourney Weaver, Joan Allen), per girare un dramma piuttosto algido sull’insoddisfazione di due famiglie, negli Stati Uniti da poco colpiti dallo scandalo Watergate. Non sono un fan sfegatato dei film corali (beh, a meno che non siano girati da Altman!) e questo non fa eccezione, pur essendo un’opera più che valida. Probabilmente l’ho visto nel momento sbagliato: troppo vecchio per entrare in empatia con i dubbi maturi degli adolescenti, troppo giovane per sentire miei gli infantili comportamenti degli adulti. Se però vi siete incuriositi, trovate anche questo su Mubi.
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I Delinquenti (2023): Sono tanti anni ormai che tengo d’occhio, con grande attenzione, il cinema argentino. Ora sembra che stia attraversando una fase di grande rinnovamento, con film come lo splendido Trenque Lauquen di Laura Citarella o questo di Rodrigo Moreno. Un impiegato di banca ruba dal caveau un’ingente somma di denaro, abbastanza per vivere di rendita, e obbliga un collega a nascondere il bottino, mentre lui si costituirà per scontare la sua pena. “Meglio tre anni e mezzo in carcere, che venticinque dentro la banca”, si ripete l’uomo, pronto a recuperare metà del malloppo una volta scontata la pena. Moreno sfrutta questo MacGuffin della rapina in banca per raccontare la vita di due uomini alle prese con la libertà, l’amore, la propria rinascita. Come il film della Citarella, anche questo si prende il tempo di raccontare le cose a modo suo (dura tre ore) e lo fa bene, saltando dal crime al poliziesco, dal sentimentale al prison movie, senza perdere mai un grammo di credibilità. Una scena che ho amato: gli sguardi attraverso il finestrino del pullman, nel viaggio notturno da Cordoba a Buenos Aires. Bellissimo film, sapete dove potete vederlo? Già, su Mubi.
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https://unavitadacinefilo.com/2024/05/28/capitolo-377-tempesta-di-film/
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Il sorprendente film di Cord Jefferson, irresistibile satira tragicomica sulla desolante mercificazione della cultura afroamericana, si apre con il volto di Jeffrey Wright e la n-word scritta sulla lavagna di un’aula scolastica. Una studentessa (bianca) si lamenta di dover avere quella parola davanti tutto il tempo e il protagonista, il professore (nero), le dice: “Se l’ho superata io, puoi farcela anche tu”. Lo stacco successivo è sulla ragazza che esce dall’aula in lacrime. Sono passati circa 60 secondi e siamo già conquistati dal Thelonious “Monk” Ellison interpretato da Wright. Monk è un misantropo, troppo intellettuale per scendere a compromessi e devastato dal modo in cui la narrativa afroamericana “alta” sia rigettata dal pubblico bianco, che sembra capace di apprezzare solo se messo di fronte a storie crude, drammatiche, piene di cliché, ancor meglio se l’autore è un fuggitivo ricercato dall’FBI.
Allontanato dal suo liceo californiano dopo una serie di problemi con gli studenti, Monk si riaffaccia a Boston, dove è cresciuto e dove risiede la sua famiglia. Il fratello e la sorella, entrambi medici, stanno rimettendo insieme i pezzi dopo i rispettivi divorzi, il padre è morto da tempo e la madre non è più in grado di essere autosufficiente a causa di una malattia. Servono soldi per le cure, urgentemente. Una sera Monk, arcistufo nel vedersi rifiutato il suo ultimo romanzo e, soprattutto, di trovare storie zeppe di cliché nella classifica dei best seller, scrive quasi per gioco un nuovo libro, una storia di strada, di droga, di omicidi, dove i neri sono esattamente come i bianchi si aspettano che siano. Il capriccio di Monk, nato per scherzo, si trasforma in un caso nazionale e ora lo scrittore deve trovare un equilibrio tra l’ego, l’anonimato, il bisogno di denaro e il senso di colpa per aver contribuito all’involuzione della narrativa afroamericana contemporanea.
Il dramma familiare sembra uscito dalla penna di Alexander Payne ed è senza dubbio il motore emotivo di quest’ottima opera prima di Jefferson, che riesce a condire il suo film con una satira pungente seppur, a tratti, un po’ troppo calcata. Jeffrey Wright, grazie anche al supporto fondamentale di Erika Alexander e Sterling K. Brown, si carica la pellicola sulle spalle e se la porta appresso fino ai titoli di coda, nonostante un finale che manca decisamente di coraggio, preferendo andare sul sicuro invece di tentare una via magari più rischiosa, ma meno indulgente con il suo pubblico. Cord Jefferson tuttavia ha una scrittura sopraffina, un’ironia fuori dal comune e ottime idee: il passaggio dal piccolo al grande schermo lo ha portato a conquistare cinque nomination agli Oscar (tra cui Miglior Film) e questo successo, statene certi, non è stato casuale.
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In questo assolato e primaverile febbraio, una beatitudine che temo pagheremo a caro prezzo tra qualche mese, siamo già a quota 11 film visti (fonte Letterboxd). Se di 2 abbiamo già parlato nel precedente Capitolo 369 di Una Vita da Cinefilo, gli altri 9 vi aspettano nelle righe che seguono, tra nuove uscite, rewatch, esordi e roba buona trovata in tv (un’abitudine che avevo perso e che è stato bello ritrovare). Andiamo a scoprire le ultime cose che ho visto, magari ci trovate qualcosa che vi potrà interessare. Come dice sempre il saggio: “Le persone che vi fanno conoscere nuovi film sono importanti”. Tenetevele strette, perché i bei film sono la migliore medicina per la malinconia.
Medicine for Melancholy (2008): Nelle ultime settimane la piattaforma Mubi ha inserito i film d’esordio di molti registi di successo, come Robert Ostlund, Justine Triet e altri, tra cui Barry Jenkins, che con questo lavoro del 2008, a neanche trent’annni, gira un’opera prima forse un po’ acerba, ma decisamente promettente. Un ragazzo e una ragazza, entrambi afroamericani, si incontrano a una festa in casa di amici e passano la notte insieme. Il mattino dopo, in hangover, si allontanano dall’abitazione e lui farà di tutto per riuscire a conoscere meglio la ragazza. Un mumblecore in piena regola, camera a mano come se non ci fosse un domani, un discorso molto coinvolgente sull’identità afroamericana, osservata da due punti di vista diversi, ma anche un accenno più che interessante sulla gentrificazione di San Francisco. I classici film che piacciono a me, incentrati su persone comuni che fanno vite comuni e che tentano, disperatamente, di rendere un po’ più speciali le loro giornate. Bello.
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Past Lives (2023): Un’altra opera prima, il clamoroso e sconvolgente esordio di Celine Song, che propone una vicenda autobiografica condensando la trilogia dei Before di Linklater in un unico film, quasi. A Seul, due amici d’infanzia dodicenni si separano quando la famiglia di lei lascia la Corea per trasferirsi in Canada. Più di vent’anni dopo si ritroveranno a New York, dove si confronteranno con le scelte della vita, il destino, il passato, ma anche sul bisogno di ridare forma a un ricordo, o all’idealizzazione di esso. Per approfondire vi rimando alla recensione, per il resto posso dire soltanto una cosa: se questo mese avete tempo di andare al cinema per vedere solo un film, fate che sia questo. Meraviglioso.
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We Are The World (2024): Io sono nato nel 1981 e, come per tanti bambini della mia generazione, uno dei ricordi musicali più potenti dell’infanzia è senza dubbio il ritornello della canzone We Are The World, un progetto ideato da Harry Belafonte e messo in piedi da Lionel Richie, grazie alla fondamentale collaborazione di Michael Jackson, Quincy Jones e 45 tra i più famosi cantanti statunitensi del periodo, allo scopo di incidere un pezzo che possa sensibilizzare sulla piaga della fame nel mondo ma, soprattutto, raccogliere fondi per i bambini africani. Come si fanno a riunire 45 artisti, impegnatissimi, con le date stracolme di tour e appuntamenti, in un solo luogo, per fargli incidere un pezzo in un solo giorno (anzi, una sola notte)? Ce lo racconta questo interessante documentario di Bao Nguyen, tra strabilianti immagini d’archivio e, un po’ meno interessanti, interviste da servizio televisivo realizzate ai giorni nostri. Lasciate fuori il vostro ego, ammoniva il produttore Quincy Jones con un cartello alla Ted Lasso, appeso sopra la porta della sala di registrazione. Il 28 gennaio 1985 si consumava dunque un piccolo grande miracolo musicale, con gente come Stevie Wonder, Michael Jackson o Cyndi Lauper, gomito a gomito con Bob Dylan, Bruce Springsteen, Paul Simon e tanti altri. Devo dire che è stato strano, una volta finito il documentario, girare su Sanremo e passare da Ray Charles e Tina Turner a La Sad e Geolier. Ad ogni modo, il documentario di Nguyen, presentato il mese scorso al Sundance, lo trovate ora su Netflix.
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Vizio di Forma (2014): Qualche sera fa in tv hanno passato quella meraviglia di Licorice Pizza, di Paul Thomas Anderson. Ho rivisto l’ultima mezzora e ho pensato a quanto mi mancavano le atmosfere di Inherent Vice, che non guardavo da troppo tempo. Figuratevi se riesco a tenere a bada un desiderio così facilmente realizzabile: poche sere dopo rieccomi sul divano a ritrovare la bellezza di questo film con Joaquin Phoenix, che avevo visto e amato al cinema ormai dieci anni fa. Un meraviglioso e grottesco noir moderno, con un investigatore privato decisamente sopra le righe, intento a indagare sulla sparizione della sua ex, mai realmente dimenticata. Da un romanzo altrettanto pazzo (ma bellissimo) di Pynchon, un film che mette nel frullatore Pulp di Bukowski, la Los Angeles hippie de Il Grande Lebowski, un intreccio ingarbugliato come ne Il Grande Sonno, oltre al magnifico stile visivo di Anderson. Un trip allucinato, condito da una grande colonna sonora, da vedere e rivedere.
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Il Laureato (1967): Mentre fai zapping in tv e ti trovi davanti i titoli di testa di questo capolavoro di Mike Nichols, come fai a cambiare canale? Semplice: non lo fai. Presenza fissa nella Top10 dei miei film della vita, il Benjamin Braddock di Dustin Hoffman è senza dubbio uno di quei personaggi che hanno modellato la mia personalità, hanno avuto una seria influenza sul mio modo di essere. Non che sia mai andato a letto con amiche dei miei genitori, per carità, e neanche ho mai fatto irruzione in una chiesa per impedire un matrimonio, ma l’irrequietezza, l’indolenza, la ribellione di fronte alle imposizioni della società, sono tutti tratti che ho sentito miei sin dalla prima visione. Tra l’altro ho un ricordo preciso della prima volta in cui ho visto questo film: avevo 22 anni, quasi 23, quando presi in prestito il dvd del film dalla biblioteca comunale. Lo guardai a casa un pomeriggio e, tanto mi piacque, che una volta finito l’ho rivisto immediatamente, da capo! Alla fine della seconda visione ho poi messo sulla Rai, stava cominciando Italia-Norvegia, valida per le qualificazioni al Mondiale 2006 (il giorno in cui Daniele De Rossi esordì in nazionale, segnando un gol dopo pochi minuti, ma questa è un’altra storia). Inutile aggiungere altro, un capolavoro.
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I Giorni del Vino e delle Rose (1962): Come dicevo in apertura, le persone che vi fanno conoscere nuovi film sono importanti, per questo ringrazio chi, ogni giovedì, partecipa alla mia richiesta social (in particolare sulle storie di instagram) in cui vi chiedo il titolo del film più bello che avete visto negli ultimi giorni. Su twitter, Giovanni mi ha consigliato questo film di Blake Edwards e non ho perso tempo a inserirlo in watchlist. Jack Lemmon si innamora della segretaria del suo capo, la corteggia, la sposa, fanno una bambina, ma ben presto la coppia precipita nel tunnel dell’alcolismo. Vedendo la leggerezza con cui comincia la storia, oltre alla presenza di Lemmon, celebre soprattutto per i suoi ruoli comici, non mi aspettavo assolutamente la drammaticità degli ultimi due atti del film, che mi hanno davvero fatto soffrire. Attori straordinari (nomination agli Oscar sia per Jack Lemmon che per Lee Remick), il film che non ti aspetti, con una sequenza finale splendida, tra l’altro un rarissimo caso di riprese girate in ordine cronologico, come a voler coinvolgere ancor di più gli attori nell’incubo in cui finiscono i loro personaggi. Non è esattamente la mia tazza di tè, ma è senza dubbio un film splendido, forse uno dei migliori in assoluto nel raccontare cosa sia e quanto male faccia una dipendenza così grave.
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Festen (1998): Se avessi bevuto uno shot per ogni momento in cui succede qualcosa di imbarazzante, alla fine del film sarei stato ubriaco. Questo per far capire il caos generato da una delle riunioni di famiglia più celebri della storia del cinema, opera seconda di Thomas Vinterberg, che nei decenni successivi si sarebbe imposto a livello internazionale grazie a film del calibro de Il Sospetto o Un Altro Giro (Premio Oscar per il miglior film straniero). In occasione del suo sessantesimo compleanno, un magnate dell’acciaio riunisce in un’enorme villa parenti e amici, tra cui i tre figli. Durante la serata però il primogenito farà un brindisi agghiacciante, che stravolgerà totalmente la situazione. Primo film (insieme al bizzarro Idioti di Von Trier) ad aderire al manifesto del movimento Dogma 95, è un giro sulle montagne russe dell’imbarazzo e delle problematiche relazioni tra famigliari. Un classico imperdibile, lo trovate su Mubi.
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La Fiammiferaia (1990): Il Kaurismaki che non ti aspetti. Se Jeanne Dielmann fosse nata in Finlandia forse si chiamerebbe Iris, come la protagonista di questo film. Impiegata in una fabbrica di fiammiferi (che spettacolo la sequenza d’apertura!), la giovane Iris mantiene con il suo stipendio la madre e il patrigno, tuttavia è l’unica a non trovare mai un cavaliere quando va in discoteca, a differenza delle altre donne che sono sempre invitate a ballare. Un giorno acquista un vestito più sgargiante, attirando su di sé gli insulti del marito della madre, ma riuscendo anche a ricevere l’attenzione desiderata di un uomo, che però non corrisponde esattamente all’amore tanto agognato. Difficile commentare quest’opera del regista finnico senza spoilerare l’ultimo atto, possiamo però parlare di come il lavoro in fabbrica riesca a svestire di umanità chi vi è impiegato, di come i gesti più estremi, nonostante le conseguenze, riescano a risultare così liberatori e autodeterminanti, per usare un termine molto frequente in questi mesi. Ecco, diciamo che questo sarebbe stato un film molto attuale nelle ultime annate cinematografiche, invece è un film del 1990. Questo dovrebbe bastare a far comprendere il suo valore. Per il resto, solita messa in scena minimalista, essenziale e, ovviamente, splendida. Lo trovate su Mubi.
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Mission: Impossible (1996): Quasi trent’anni fa vedevo e rivedevo questo film su TelePiù, ammaliato dalla bellezza di Emmanuelle Béart, certo, ma anche rapito dalla messa in scena di Brian De Palma. Come molti di voi sanno bene, i film d’azione non sono proprio il mio pane quotidiano, ma questo è un perfetto esempio che a fare il cinema sono gli autori, più che il genere cinematografico. Se prendi un film basato su un inseguimento pressoché infinito nel deserto e lo fai dirigere a George Miller, quel film diventa Mad Max Fury Road, così come se prendi un film di spionaggio con furti di dati al di fuori di ogni possibile credibilità e lo fai girare a De Palma, quel film diventa questo film, per l’appunto, cioè un classico. Girato tre anni dopo Carlito’s Way, è l’ennesima prova che Brian De Palma è uno dei nomi più sottovalutati della New Hollywood degli anni 70. In tutto questo, va segnalato un cast di tutto rispetto: oltre a Emmannuelle Béart e ovviamente a Tom Cruise, ci sono, tra gli altri, Jon Voight, Ving Rhames, Jean Reno, Kristin Scott Thomas, Vanessa Redgrave ed Emilio Estevez. Bello.
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