#giornalismocensurato

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2025-12-01

@AgenziaAnsa @politica-AgenziaAnsa ma il ministro #Giuli da quale fumetto è uscito?
L'eversione per aver occupato La Stampa c'è se lo fanno gli altri. Avere la stampa compiacente o zittire o cercare di intimidire i giornalisti che fanno il loro lavoro (scomodo) no (ogni riferimento a #Ranucci è chiaramente voluto)
#stampa #giornalisti #giornalismo #giornalismocensurato
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2025-11-18

Alfredo Facchini

L’INDUSTRIA DEL SILENZIO

Farah Abu Ayash ha ventiquattro anni, un microfono rosso tra le mani e la schiena dritta di chi racconta ciò che vede. Da settimane è rinchiusa senza accuse, isolata nel carcere di Damon, in Israele, picchiata, trascinata, lasciata in una cella dove il freddo e gli insetti fanno parte della procedura. La sua storia avrebbe dovuto scuotere la categoria che vive di notizie. Zero.

Non serve più neanche la censura. Basta l’indifferenza. È questo il vero miracolo dell’informazione contemporanea: far sparire il dolore dal campo visivo senza doverlo negare.

La detenzione di una giovane cronista palestinese non è riuscita a rompere il muro. Il giornalismo internazionale, quello che ama proclamarsi libero, si è voltato dall’altra parte, come se il destino di una collega non fosse degno del loro feed.

E lo stesso vale per i reporter uccisi a Gaza. Professionisti con telecamera e taccuino, colpiti mentre lavoravano, mentre documentavano ciò che altri preferiscono oscurare. Decine e decine di nomi cancellati in poche righe, quando va bene. Nessun editoriale, nessun dibattito etico, nessun cordoglio degno di questo nome. Una strage di giornalisti assimilata a rumore di fondo. La loro morte, liquidata, archiviata, metabolizzata come inevitabile.

La categoria, un tempo ossessionata dalla verità, oggi sembra affezionata soltanto alla sua caricatura: il brivido effimero della notizia-lampo, l’adrenalina tossica del dramma purché filmabile. Se non c’è un video, non esiste.

Il silenzio dei colleghi non è un errore: è una scelta. Una scelta dettata da un settore che non vuole più testimoni, ma intrattenitori. O meglio: funzionari di un apparato che filtra, pulisce, sterilizza tutto ciò che potrebbe incrinare la narrazione dei forti.

Basta affamare la professione, precarizzare, strangolare i piccoli media, far dipendere la sopravvivenza economica da pubblicità e algoritmi. Il resto segue da solo: un’intera categoria che si autocensura per paura di scomparire. Scompare comunque, ma lentamente, senza uno scatto d’orgoglio.

Qualcuno dice che l’informazione è in crisi. No: l’informazione non è in crisi. È in vendita. E il compratore è sempre lo stesso.

Nel frattempo Farah aspetta che qualcuno, da qualche redazione climatizzata, rompa l’inerzia, rischi la scomunica. Il punto è che quasi nessuno è più disposto a rischiare. E allora resta il silenzio. Un silenzio educato, professionale, da conferenza stampa.

Eppure basterebbe poco per ribaltare la scena: una voce che esce dal coro, un titolo che non si piega, una storia che pretende di essere raccontata fino in fondo. Una voce che, almeno per un attimo, rimetta la verità al centro.

Fino a quel momento, continueremo a digerire notizie lampo e a dimenticare volti reali, mentre l’industria del silenzio funziona alla perfezione. Produce invisibilità. Produce assuefazione. Produce impunità.

E questo è esattamente ciò che i padroni dell’informazione desiderano.

Alfredo Facchini

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Farah Abu Ayash

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