Massimo Ridolfi (Teramo, 1973), che si occupa di letteratura come studioso indipendente dal 1995, con la sua opera ha visitato tutti i generi e le forme della letteratura. Nei suoi lavori si ritrovano, infatti, poesia, romanzo, racconto, drammaturgia, saggistica, traduzione e anche sceneggiatura per il cinema. Per la poesia ha pubblicato Abiura di una nazione (2019), Mediterraneo (2019), Padre Nostro (2020), Un incontro impossibile (2021), Le Lamentazioni di Kiev (2022) e Palestina (2024); per la narrativa i romanzi L’Uomo Invisibile (2019), Onde di Colore (2020) e Lungo il Miglio (2021); per la forma racconto ha pubblicato 49 racconti della solitudine (2020), Pinocchio e l’uovo di Pasqua (2022) e I DUE RACCONTI (2022); mentre per il teatro le opere Mulieri Michele di Innocenzo (2019), Il Pensiero delle Nuvole (2019), EVANGELIUM (2020), il CAPITALE (2021) e CHET SPEAKS (2022); come americanista, curatore e traduttore ha pubblicato Il Profeta di Venice, Into a Life: Stuart Z. Perkoff, Poesie 1956 – 1973 (2020), Il Contadino della Nuova Inghilterra, Into a Life: Robert Frost,The Five Books & Twilight, volume primo (2022), Il Medico di Ninive, Into a Life: Ahmed Mohamed Ramadan, Feno Meno Logia, Poesie 2018-2021 (2023) e North of Boston, Il Contadino della Nuova Inghilterra, Into a Life: Robert Frost,The Five Books & Twilight, volume secondo (2024); e poi per la saggistica ha pubblicato la collezione critica Personal Essays (2020) e GLIIGNAVI (2022). Per il cinema ha pubblicato una sceneggiatura e un soggetto nel volume Cinematek (2020). Entro il 2024 vedrà la luce la collana Corale di voci altre, a cura di Massimo Ridolfi, dedicata alla poesia italiana contemporanea. Ha collaborato e collabora con diverse riviste di settore, on-line e cartacee: di particolare rilievo sono le rubriche concepite e dirette per il quotidiano on-line Certa Stampa, CORALE: SETTIMANALE DI RICERCA SULLA POESIA ITALIANA CONTEPORANEA e SEGUIRE LE IMMAGINI: SETTIMANALE DI RICERCA SULLA TRADUZIONE DI POESIA, e per il mensile cartaceo Navuss, Il Foglio Bianco: rubrica mensile dedicata al racconto breve. Nel giugno del 2019 ha ideato il progetto editoriale Letterature Indipendenti, unicum nell’editoria internazionale, con il quale cura l’edizione di tutta la sua opera letteraria, riservandosi in questo modo la piena autonomia di forme e contenuti delle proprie pubblicazioni: tutta la sua opera, per l’alto valore letterario e scientifico, è acquisita e conservata presso la Library of Congress, Washington D.C.
Glossa di Giorgio Linguaglossa
«L’ontologia non è null’altro che interpretazione della nostra condizione o situazione, giacché l’essere non è nulla al di fuori del suo “evento”, che accade nel suo e nostro storicizzarsi».1]
Ho citato Gianni Vattimo per escludere una nostra definizione di ciò che possiamo intendere con il termine «ontologia». Parlare di «nuova ontologia estetica», forse è già una contraddizione in sé, implica pur sempre una accentuazione del sostantivo; si sostantivizza il sostantivo, quando invece è la modalità che è centrale, il modo con il quale le parole si consegnano a noi che è significativo. Abbiamo parlato in questi ultimi anni di una «nuova ontologia estetica», ma avremmo dovuto declinare la frase al plurale, il fatto è che ci sono tante ontologie estetiche quanti sono gli abitanti del pianeta terra, con il che si mettono in discussione tutte le categorie della antica e nobile ontologia estetica del novecento. Rimetterle in discussione non si esaurisce in una semplice «dis-propriazione» di ciò che un tempo ci è appartenuto, questo sarebbe un atteggiamento diminutivo del nostro argomentare, non si risolve il problema rimettendo in discussione le categorie su cui si reggeva l’ontologia novecentesca, ma occorre far luce sulle nuove categorie sulle quali si regge la poiesis di oggi.
In un mondo in cui il progresso diventa un fatto tecnico e la stessa categoria del «nuovo» è utilizzata in toto dalla tecnica, appare chiaro che la strada da seguire sarà quella non della «appropriazione» del «nuovo» o della «riappropriazione» del mondo un tempo antico e bello, quanto della dis-propriazione di quel mondo, con la presa d’atto che si è definitivamente chiusa l’epoca del «pathos dell’autenticità» e del «pathos dell’originario» da cui provengono l’elegia e la «sartoria teatrale» di montaliana memoria. La poesia più matura di oggi si è liberata del «pathos dell’autenticità» e della allegria di naufragi, nonché dell’allegria dell’inautenticità. Quello che resta è l’allergia per i linguaggi consunti. Non v’è di che discettare sulla autenticità o non autenticità poiché non v’è più da tempo un «originario» a cui attenersi come ad un corrimano nel bus che corre verso il futuro come quelli che transitano per le strade sgangherate di Roma.
Nella poesia di Massimo Ridolfi ci avvediamo subito che non c’è alcun «pathos dell’autenticità», presente invece in larga misura nella poesia del novecento e di questi ultimi due lustri epigonici. I suoi testi sono «ibridi» (tra il racconto breve e la post-poesia) di una autenticità che si è dissolta; «la poesia non è mica del morbillo una forma particolare», ci dice Ridolfi, e nemmeno la si può alimentare per via «parenterale», «tanto meno si può farne una questione solamente amicale»; le istituzioni stilistiche ontologiche del novecento sono rovinate nella polvere, oggi il poeta è costretto a sottrarre le parole dal futuro piuttosto che dal passato, è diventato un ladro di parole che nasconde la refurtiva nella bisaccia piena di buche a perdere. Le parole sono diventate parole a perdere.
Con le parole di Marcuse: «È probabile che il secondo periodo di barbarie coinciderà con l’epoca della civiltà ininterrotta».
Allora, non resta che infrangere retrospettivamente ciò che resta della «tradizione», della riforma gradualistica del traliccio stilistico e linguistico sereniano. È proprio questo il problema della poesia contemporanea, penso. Un esempio: come sistemare nel secondo novecento pre-sperimentale un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come Alfredo de Palchi con La buia danza di scorpione (1945-1951) e (che in Italia apparirà soltanto nel 2001), Sessioni con l’analista (1967)? Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è: l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo orfico-sperimentale per approdare ad una sorta di poesia pre-sperimentale e post-sperimentale, una sorta di terra di nessuno?; ciò che appariva prossimo alla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo La bufera (1951) – (in verità, con Satura – 1971 – Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile narrativo intellettuale alto-borghese), vivrà una seconda vita ma come un fantasma che passeggia con il bordone nella nuova società dei frigoriferi e dei televisori a buon mercato.
Se consideriamo le opere di un poeta di stampo modernista, Angelo Maria Ripellino degli anni Settanta – da Non un giorno ma adesso (1960), all’ultima opera Autunnale barocco (1978), passando per le tre raccolte intermedie apparse con Einaudi, Notizie dal diluvio (1969), Sinfonietta (1972) e Lo splendido violino verde (1976) – dovremmo ammettere che nella linea centrale del secondo Novecento ci sono anche i poeti modernisti. Come negare che opere come Il conte di Kevenhüller (1985) di Giorgio Caproni non abbiano una matrice modernista? La migliore produzione della poesia di Alda Merini la possiamo situare a metà degli anni Cinquanta, con una lunga interruzione che durerà fino alla metà degli anni Settanta: La presenza di Orfeo è del 1953, la seconda raccolta di versi, intitolata Paura di Dio con le poesie che vanno dal 1947 al 1953, esce nel 1955, alla quale fa seguito Nozze romane; nel 1976 il suo capolavoro: La Terra Santa. Ragionamento analogo dovremo fare per la poesia di una Amelia Rosselli, da Variazioni belliche (1964) fino a La libellula (1985). La poesia di Helle Busacca (1915-1996), con la fulminante trilogia degli anni Settanta: I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974), Niente poesia da Babele (1980), è un’operazione di stampo schiettamente modernista.
Ad esempio, il piemontese Roberto Bertoldo si muoverà in direzione di una poesia che si situa al di qua del post-simbolismo, la sua resta una poesia di stampo modernista con opere come Il calvario delle gru (2000) e L’archivio delle bestemmie (2006). Nell’ambito del genere della poesia-confessione già dalla metà degli anni ottanta emergono Sigillo (1989) di Giovanna Sicari, Stige (1992) di Maria Rosaria Madonna (1940-2022); in questi ultimi decenni emergono profili importanti: Anna Ventura, Anonimo romano (1944-2005), Giorgia Stecher (1936-1996), Mario Lunetta (1936-2017), tutti questi poeti adottano una post-poesia che si nutre di post-verità, che si lascia il modernismo alle spalle, con testi che sfrigolano e stridono per l’impossibilità di fare una poesia lirica dopo l’ingresso nell’età post-lirica.
È noto che nei micrologisti epigonici che verranno, la riforma ottica inaugurata dalla poesia di Magrelli, diventerà adeguamento linguistico ai movimenti micro-tellurici del «quotidiano». Avviene che negli anni ottanta la grande distribuzione e gli uffici stampa degli editori a maggior diffusione nazionale opteranno per i poeti che si ritirano nel piano cronachistico e personologico. Il questo quadro culturale è agibile intuire come tra il minimalismo romano e quello milanese si istituisca una alleanza di fatto, una coincidenza di interessi e di orientamenti «politici». Il fatto è che la micrologia convive e collima qui con il solipsismo più asettico e aproblematico; la poesia come narrazione del quotidiano, buca l’utopia del quotidiano rendendo palese l’antinomia di base di una impostazione culturalmente acrilica.
Il post-sperimentalismo e il post-orfismo hanno sempre considerato i linguaggi come neutrali, fungibili e manipolabili; incorrendo così in un macroscopico errore filosofico. Inciampando in questo zoccolo filosofico, cade tutta la costruzione estetica della scuola sperimentale, dai suoi maestri: Edoardo Sanguineti e Andrea Zanzotto, fino agli ultimi epigoni: Giancarlo Majorino e Luigi Ballerini. Per contro, le poetiche «magiche», ovvero, «orfiche», o comunque tutte quelle posizioni che tradiscono una attesa estatica dell’accadimento del linguaggio, inciampano nello pseudo concetto di una numinosità magica cui il linguaggio poetico supinamente si offrirebbe. Ma anche questa posizione teologica rivoltata inciampa nella medesima aporia: che mentre lo sperimentalismo presuppone un iperattivismo del soggetto, la scuola «magica» presuppone invece una «latenza».
Scriveva Franco Fortini nei suoi «appunti di poetica» nel 1962:
«Spostare il centro di gravità del moto dialettico dai rapporti predicativi (aggettivali) a quelli operativi, da quelli grammaticali a quelli sintattici, da quelli ritmici a quelli metrici (…) Ridurre gli elementi espressivi. La poesia deve proporsi la raffigurazione di oggetti (condizioni rapporti) non quella dei sentimenti. Quanto maggiore è il consenso sui fondamenti della commozione tanto più l’atto lirico è confermativo del sistema».
Le parole di Fortini colgono il nocciolo della questione. Ed ecco qui Massimo Ridolfi che sposta il centro di gravità del moto dialettico dai rapporti predicativi a quelli operativi, che va per via di rastremazione progressiva del discorso poetico, lo prosciuga, lo asciuga e giunge ad un dettato essenziale, prosastico che coniuga versi brevissimi con altri lunghi e lunghissimi, lui che nutre una completa sfiducia nei tropi retorici del novecento adesso avverte con chiarezza che tutta una intera tradizione è affondata come una navicella «versicolori»; ciò è avvenuto senza alcun trauma, ma con un fruscio. Ridolfi sa bene la massima di Pound: «nessuna buona poesia può essere scritta con uno stile di venti anni prima», e ne trae le conseguenze. Ma è che in quei venti anni nella poesia italiana ci sono state battaglie che non è possibile ignorare. La «nuova poesia» non può che passare attraverso la nuova ontologia estetica di autori come Anna Ventura, Maria Rosaria Madonna, Mario Lunetta e Anonimo romano per avere una idea della posta in gioco. A mio avviso, non vi può essere una resa dei conti stilistica senza mettere in conto quei fattori stilistici e linguistici.
1] Gianni Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, 1985, p. 11.
(opera digitale di Lucio Mayoor Tosi, 2024)
Alla maniera di Franz Anton Mesmer
I
Tommaso, metti la tua mano
nel mio costato.
Rinuncia ai tuoi occhi.
Fidati della tua mano.
II
Tommaso, metti la tua mano
ti ho detto nel mio costato.
Rinuncia ai tuoi occhi
sciocchi.
Fidati della tua mano
che mai di tanto
io mi allontano.
.
del Morbillo
a Franco Buffoni
la poesia non è mica del morbillo una forma particolare
vale a dire che non è mai lo sfogo di una condizione patologica
e nemmeno la si può alimentare forzatamente per via parenterale
e tanto meno si può farne una questione solamente amicale
altrimenti poi segue lo scoppio delle risa alla assai più sorvegliabile noia
che non è mai nostro malgrado una espressione per l’appunto di gioia.
Cecità:
a Bruno Di Pietro; per Lucio Piccolo
dire poesie può solo arricchire.
dire l’eredità del poeta, ascolta, può solo arricchire.
dire povero poeta steso nelle mute carte: degli eredi soffre le inutili ire
a impoverire.
dire salva la carta e il poeta, che non cadrà a impoverire.
Così dentro la tua stessa morte1
«Schopenhauer says “defunctus” is
a beautiful word – as long as one does not suicide»2
SAMUEL BECKETT (1906 – 1989)
in memoria di Vitaliano Trevisan (1960 – 2022)
fuori dalla stucchevole retorica che precede il tuo funerale
e non quello loro
dopo aver buttato, tu, parole
a casaccio su Hemingway e Malaparte
dentro questa morte
scontata e senza sconti
ci sei solo tu
come ci sei solo tu
dentro la tua scrittura
solipsistica ossessiva compulsiva
tutto chiuso dentro questo compiaciuto
tutto tuo sbrodolarti pisciarti cacarti addosso vita
alieno
*
(tutto chiuso dentro quel tuo presuntuoso
saputo avvitato arrotato rileggerti sorreggerti
intarsiato dal tutto tuo stupido inglese
le tue infantili corse in motocicletta:
scrivi come un adolescente che si vuole
fare il figo
hai lavorato, bravo!
è quello che tutti fanno, banalmente
per vivere, certo, ma che bella scoperta)
*
come non c’è letteratura
nei tuoi libri
che non sanno nulla dell’esorcismo
del dolore di cui è capace
un vero artista se ci si scansa
se ci si dedica solo a questa
non credere a chi piange
i tuoi romanzi le tue drammaturgie
i tuoi racconti in qualche modo
*
solipsistico ossessivo compulsivo
perché di questi non ne hai
scritti e non ne scriverai ora
non eri un grande scrittore
ma solo uno che scriveva
a se stesso delle lunghe
lettere di malattia
e quel nostro litigio ora
ti sembrerà così stupido
*
che è quello
che cercavo di dirti
inascoltato:
«6 impotente anche tu? e
Malaparte sarebbe un “scrittorino della
domenica “? stai zitto stupido»1
così ossessionato dai soldi
come solo chi crede
di non averne avuti mai abbastanza
*
bisogna saper stare al proprio posto
bisogna imparare a stare al proprio posto vita
alieno senza recitare
respirare ogni respiro
oppure recitando
pregando ogni respiro
così fermo
freddo
dentro il tuo gesto.
1. vedi «De “La vita è un fatto” o “I materiali di una poesia”».
2. medesima epigrafe che riporta Vitaliano Trevisan nel libro Tristissimi giardini al capitolo “L’autore a chi legge”, Editore Laterza, Roma-Bari, 2010 (eBook 2013): «Schopenhuaer dice che “defunctus” è una parola meravigliosa – fino a quando uno non si suicida.», versione in lingua italiana dello stesso Massimo Ridolfi, ndr.
.
La vita è un corpo
“io sono lo stare di quell’uomo bagnato dalla pioggia”
Pierluigi Cappello (1967-2017)
I
La vita è un corpo e ognuno di noi ha
diritto di decidere cosa farne di
questo corpo, se ritenesse non
essere più aderente alla vita.
La vita è un corpo e ognuno di noi ha
diritto di decidere cosa farne di
questo corpo, se ritenesse
essere altra forma la vita.
II
Danil ha buttato via tutto dov’è tutto
irrimediabilmente sbagliato.
Non butto via quasi niente per
vedere dov’è che ho sbagliato.
È nato
per Elso
è nato, profugo, in fuga
uomo eppure straordinario;
partorito di donna
attraversa, escluso
le nostre strade
ogni giorno
e in acqua riappare
e scompare, che non
la sa camminare, né nuotare
povero donato ai poveri, specchio
Luce improvvisa, nel buio
cuore cavo dell’uomo
l’Uomo più innamorato
lasciato a questo approdo, fiato
soffio su questa isola dell’universo, l’amato
da lontano
il suo avvento
è stato annunciato
dentro antichi testi
da uomo a uomo
l’hanno raccontato
anticipata, stretta, scesa
giuntura a quel Cielo
mai prima tanto sperato, vero
è nato, e con le mani
si aggrappa all’acqua
cerca in superficie il fiato
tenta con lo sguardo
la compattezza della terra
ferma; sogna la regolarità
del respiro, e il fluire libero dell’aria.
Marie Laure Colasson, présence, acrilico, 70×70, 2024
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