#Nunes

2025-06-09

The PROBLEM in #America
and the reason you have a #Trump
is that...
Americans forget too easily
e.g. #Devin #Nunes
He invented investigations in #Ukraine
to support Trump"s propaganda
and protect #Putin
all false all BS
a REAL crime at #Congressional levels
....
today no one remembers him
(he should be in prison)
and there are MANY MAGAs like him
Americans MUST hold people who commit crimes >accountable<
to avoid other #Trumps.

Thế Giới Trong Tầm Tayvietworldnow
2025-04-23

Trận đấu kịch tính tại sân Etihad! Matheus Nunes ghi bàn thắng đẹp mắt ở phút 94, mang về chiến thắng 2-1 cho Man City trước Aston Villa. Chiến thắng quan trọng này giúp City vươn lên vị trí thứ ba với 61 điểm. ift.tt/mJErTV6

2025-02-25

Evoluzione dei partiti.

rizomatica.noblogs.org/2025/02

Le crisi della politica: sovranità, rappresentanza, leadership, organizzazione.

di M. Minetti

Il partito che manca
Concordo pienamente con il sociologo Lorenzo Viviani quando, nel suo sa

#Politica #Rizoma #Tecnopolitica #attivismo #CartelParty #CatchAll #ecosistema #gramsci #leadership #LorenzoViviani #nunes #OlismoPolitico #organizzazione #partiti #partito #piattaforme #sociologia

Sette mantra per l’olismo politico

Img generata da IA – dominio pubblico

di S. Robutti

Cinque anni fa ero alla mia prima esperienza da “organizer”, termine ombrello che nell’anglosfera si usa un po’ per chiunque si occupi di politica pratica: sindacalisti di professione e volontari, costruttori di movimenti politici, gestori di comunità politiche fisiche e digitali, facilitatori, coordinatori di collettivi, gruppi di studio, partiti, squat, gruppi paramilitari, società segrete. Se la vaghezza del termine in inglese crea confusione, in Italiano, col nostro consolidato odio per tutto ciò che è tecnica, neanche ce lo abbiamo un termine per mettere insieme chi ha la competenza di far procedere la politica.  Dicevamo, la mia prima esperienza da “organizer”: la sezione berlinese di Tech Workers Coalition era appena nata e io ero uno dei co-fondatori, insieme a Yonatan Miller. Non avevo idea di cosa stessi facendo né avevo particolare esperienza nella partecipazione attiva in organizzazioni politiche o sindacali, figuriamoci nell’avere una posizione di leadership. Ero interessato a condurre un gruppo di studio sulla tecno-politica e in funzione di ciò avevo accettato un ruolo di responsabilità nella sezione, pur non avendo interesse specifico nei processi di sindacalizzazione dei lavoratori tech. La situazione sarebbe presto sfuggita di mano.

Nel mentre, al lavoro, in una start-up che faceva algoritmi di compressione per auto a guida autonoma, la necessità di sabotare i processi interni per ricavarmi spazio per fare i pisolini pomeridiani e giocare ai videogiochi, mi aveva portato ad affiancare il CTO nel suo progetto di introdurre nei processi aziendali l’Holocracy, metodologia organizzativa basata sulla più nota Sociocrazia, ma che permette al CEO dell’azienda di tenere comunque i lavoratori al guinzaglio.

Il tema dell’organizzazione, della costruzione dei team, della gestione del cambiamento, del design di processo stavano in fretta diventando rilevanti nella mia vita di programmatore qualunque. Non avevo mai avuto particolare interesse per il tema, ma più andavo avanti, più ne capivo l’importanza sia per fare una politica efficace, sia per non veder minacciati dai manager i miei pisolini.

C’era tuttavia un forte senso di insoddisfazione rispetto a tutta una serie di attitudini, traumi, resistenze, posture, credenze, pregiudizi e rituali che caratterizzavano la politica “dal basso”, la politica “di movimento”, ma anche le strutture dei grandi sindacati e partiti. C’era una normalizzazione dell’inefficacia, dello spreco di energie, del conflitto, delle cose fatte a cazzo di cane, che non mi stava bene. Il controllo è sempre controllo oppressivo degli altri su di noi, non è mai pensato come strumento liberante, come controllo collettivo e democratico di noi su noi stessi.

Vedevo tuttavia un nuovo senso comune emergere, sia dagli ambienti americani che da alcune esperienze più europee, come eXtinction Rebellion o Ultima Generazione. “I principianti parlano di tattica, i professionisti studiano la logistica.” avrebbe detto Omar Bradley e di queste organizzazioni, pur non essendo pienamente convinto delle loro strategie e tattiche, osservavo la logistica, che in organizzazioni politiche significa processi, ruoli, strutture, pratiche di facilitazione, di organizzazione della conoscenza, di uso di strumenti digitali, di comunicazione pubblica.

Percepivo un senso di discontinuità con il passato che condividevo ma a cui non riuscivo a dare bene forma o a dare un nome. Non sapevo neanche dire se fosse una mia sensazione o qualcosa di condiviso da altre persone. Questo finché ad un certo punto, Daniel Gutierrez, ai tempi in European Alternatives e oggi nel sindacato tedesco dei servizi Ver.di, mi ha invitato ad un gruppo di studio su Neither Vertical Nor Horizontal, un libro di tale Rodrigo Nunes.

Daniel, statunitense di origine messicana, lo conoscevo poco, ma lo identificavo come una persona molto pratica, incisiva e concreta, nonostante un passato da accademico. In patria aveva sindacalizzato e vinto diversi scioperi coi lavoratori dell’università per cui lavorava e a Berlino era uno dei frontman delle attività di sindacalizzazione dei migranti in European Alternatives, oltre ad essere uno dei coordinatori di Deutsche Wohnen & co Enteignen, la campagna referendaria per l’esproprio degli appartamenti di Deutsche Wohnen che sarà vinto di lì a breve.

La lettura di Neither Vertical Nor Horizontal fu fulminante, così come le discussioni nel gruppo di studio popolato da un mix di “organizers”: americani e berlinesi, sindacalisti, progettisti di movimento (movement builders), organizzatori di professione ma anche gente di piccole realtà di quartiere.

Nel libro, così come in queste persone, avevo finalmente trovato condivisione politica della mia insoddisfazione. Per una persona che come me lotta da anni per tenere a bada il proprio egocentrismo e la propensione al paternalismo, è stato estremamente liberante sentirsi dire che se un sistema porta alla sconfitta politica va cambiato. Chi difende strategie, pratiche e rituali in maniera identitaria anche se non portano ad un impatto concreto sono parte del problema, a prescindere dall’anzianità delle tradizioni e delle identità che incarnano. Perdere per decenni, martirizzarsi per nulla, avere la superiorità morale non deve essere fonte di autorità su come la politica debba essere condotta, perché non genera competenza su come si possano ottenere vittorie politiche. E soprattutto mi son sentito dire: non c’è niente di male nel voler vincere e per vincere bisogna sporcarsi le mani.

Sono passati cinque anni, in cui il lavoro di Nunes mi ha aperto le porte ad una comprensione profondamente diversa dei processi politici, che oggi ho imparato a chiamare “Olismo politico”. Uno stato di coscienza alterata rispetto alla politica fatta di agenti razionali, di conflitti di idee, di volontarismo magico, di rappresentazione e testimonianza. Una psichedelia politica in cui tutto si tiene ma non tutto può essere conosciuto e tuttavia non si può ignorare niente se si vuole vincere.

In questo articolo voglio condividere con voi alcuni degli aspetti più importanti di questa transizione, raccontandola dal mio punto di vista soggettivo, che è l’unico che è ragionevole incarnare quando si fa politica. I soggetti sono dentro la storia e quindi la politica si può fare solo con una prospettiva interna, soggettiva. Il resto è delirio modernista.

Il tema delle organizzazioni è sia complicato che complesso. Siccome il protagonismo intellettuale mi ha sfrangiato le palle, non cercherò di dare una trattazione lineare e omnicomprensiva, obiettivo irrealistico per un singolo articolo e di una tracotanza che cerco di rifiutare.

Vi presenterò invece una serie di slogan e mantra pedagogici che negli anni sono emersi per condensare idee-perno fondamentali per emanciparsi dal senso comune corrente di cos’è la politica, come si dovrebbe fare e di come dovrebbe essere organizzata. Un modo per rosicchiare ai lati un ribaltamento di prospettiva che sarebbe indigeribile altrimenti.  Userò questi mantra come punti di entrata per spiegazioni di aspetti diversi e complementari dell’Olismo Politico: alcuni vengono direttamente dal libro di Nunes, altri sono riformulazioni di altri autori e alcuni sono semplicemente emersi come modi di dire nelle organizzazzioni in cui partecipo o nella stesura dei corsi e workshop che tengo.

Ultima nota prima di cominciare: il linguaggio dell’articolo è volutamente basso, concreto, anche sporco ma diretto. Il tema delle organizzazioni è già abbastanza impegnativo e astratto di suo, senza appesantirlo con un vocabolario oscuro, riferimenti a filosofi morti o giri di parole per flexare la cultura dello scrivente. Se non si scrive in un linguaggio comprensibile alle persone che si vuole coinvolgere, si è elitari. Se non si sanno esporre concetti complessi in un linguaggio semplice, ci si può trovare un’attività migliore che scrivere di pratica politica. Se le idee che presento qui sono valide e utili, sopravviveranno a un’esposizione violentemente semplice. Se non lo sono, moriranno su queste pagine e per buona ragione. Cominciamo.

Sapere le cose non cambia le cose

Partiamo con il mantra più difficile da digerire: sapere le cose non cambia le cose. Questo mantra sottolinea la necessità di contestualizzare sempre l’uso della conoscenza e dell’informazione per decidere se sono utili o dannose al nostro obiettivo politico. Questo, in molti spazi di sinistra, soprattutto quelli più intellettuali e accademici, viene fatto troppo di rado. La conoscenza, la consapevolezza, il dialogo, ma anche l’introspezione, l’educazione politica e il dibattito, invece che essere passi intermedi verso un obiettivo, diventano essi stessi l’obiettivo. Ci si ferma a metà del lavoro.

Al posto del cambiamento che si vuole produrre, si mettono al centro le nostre opinioni, le nostre idee, i nostri sentimenti su un dato tema, un dato problema o una data soluzione, come se cambiare le nostre idee in merito fosse sufficiente a creare cambiamento. Si delega a qualcuno o qualcosa di imprecisato il compito di trasformare tale sostrato informativo ed emotivo in cambiamento sociale e politico. Ovviamente, spesso e volentieri ciò non succede.

In casi estremi, come il collasso climatico, risalta la disconnessione profonda tra l’opinione comune descritta dai sondaggi, dai gesti estremi di alcuni, dalla cultura del nostro tempo, e le scelte che stiamo compiendo come società. Perché? Perché esistono concentrazioni di potere per cui gli interessi di poche persone (potestas) vengono posti in contrapposizione al desiderio di cambiamento, spinto da insufficiente capitale politico (potentia).  Persone e organizzazioni con raffinatissime comprensioni delle strutture di potere in cui siamo immersi sanno tranquillamente spiegare questo fenomeno. In alcuni ambienti, quella che ho appena detto è un’ovvietà. Tuttavia da questa comprensione del potere strutturale non sanno trarre nessuna conclusione utile su come cambiare le proprie pratiche. Di nuovo, si delega a qualcun altro la responsabilità di eseguire. Si punta il dito e poi ci si ferma.

Una delle premesse del sistema liberale è che l’agire politico, il conflitto, avvenga in primo luogo nel dibattito, nello scambio di opinioni tra agenti razionali e informati, e da questo riallineamento delle opinioni si generi la pulsione ad agire. Si è visto come sta funzionando. Spazi che rifiutano a parole questa premessa, oppure che ne rifiutano l’espressione nell’atto del voto, si comportano comunque come se la circolazione di informazioni fosse strumento sufficiente di cambiamento, rispecchiando in una forma diversa il sistema che criticano.

Come si cura questa patologia? In primis, ridando la dimensione di strumento alle opinioni, al dibattito e al confronto. Il cambiamento non avviene quando tutta la popolazione è d’accordo su qualcosa. Quando il Civil Rights Act fu approvato negli Stati Uniti, l’85% degli Americani era contrario. Gli altri però avevano un potere di mobilitazione elevato, comprovato dalla Million Man March. Gli altri avevano anche milizie armate sparse sul territorio e con grande supporto della popolazione nera. All’interno di essa, il dibattito e la costruzione di consenso erano assolutamente importanti, vista anche la diversità di vedute su ciò che era opportuno fare, ma era finalizzata ad un cambiamento concreto.  Parlando di marce e presenza in strada, uno degli aspetti più eclatanti del cortocircuito descritto poco sopra è l’idea che manifestare in strada sia un risultato politico. La marcia in strada, di per sé, non cambia nessun equilibrio politico. La marcia in strada, al massimo, rende questi equilibri visibili, trasparenti e quando sono sfavorevoli, questa visibilità è più un danno che un beneficio.

Un sindacato forte mostra i muscoli portando centinaia di migliaia di lavoratori in strada. Una campagna, un movimento, un’organizzazione si contano e si validano nell’incontrarsi per strada. Il problema è che spesso questi conti sono penalizzanti. Sono una questione di prospettiva. Portare in strada 100 persone interessate ad un tema specifico può essere percepito come un grande risultato da un lato, ma dimostra a chi sta dall’altra parte o è neutrale che l’interesse per un dato tema è estremamente marginale. Gli equilibri si sono manifestati, ma forse era meglio rimanessero nascosti.

Il nostro mantra, “Sapere le cose non cambia le cose”, ci invita ad essere critici rispetto a queste credenze, a questi rituali, nati in un mondo diverso e ormai metabolizzati dallo status quo. Tuttavia sapere le cose, seppur non sufficiente, è necessario: gruppi di studio, comunicazione di massa, sportelli e soprattutto formazione pratica sono mezzi volti a sviluppare specifiche competenze, a liberare specifiche energie e a sviluppare risorse da spendere per perseguire il proprio obiettivo. Queste attività però vanno sempre subordinate all’obiettivo stesso e giustificate in funzione di ciò che si vuole cambiare.

Le parole non cambiano il mondo. Le parole, al più, cambiano le persone che se vorranno e saranno nelle condizioni di farlo, cambieranno il mondo.

Force over Form

Questo mantra viene direttamente da Nunes, anche se esiste in altri spazi in versioni simli, come “function over form”. Nunes nel suo libro cerca di curare quello che lui chiama il “Doppio Trauma della Sinistra”, ovvero la trasformazione dell’Unione Sovietica in stato totalitario e successivamente il fallimento del ‘68 e più in generale dell’approccio orizzontalista.

Facciamo una piccola deviazione e parliamo del trauma che ci portiamo dietro.

In breve, lui sostiene che questi due fallimenti storici, le brutture annesse e connesse, hanno negli anni coltivato una cultura identitaria dell’organizzazione, creando spaccature e contrapposizioni senza vero contenuto politico. In parole semplici: autoritari e libertari, verticalisti e orizzontalisti, movimentisti e partitisti, comunisti e anarchici sono tutte contrapposizioni che si sono progressivamente svuotate della differenza politica per diventare forme di tifo basate su identità.

  • Io sono meglio di te perché faccio l’assemblea.
  • No, io sono meglio di te perché abbiamo le squadre in uniforme che vanno a fare volantinaggio.
  • No, tu sei un fascista perché durante le riunioni tieni i tempi degli interventi.
  • E tu non combinerai mai niente perché discutete per ore se usare l’asterisco o la schwa.

Il modo in cui si fa politica diventa l’identità politica stessa. Gli obiettivi passano in secondo piano. La terapia nunesiana è tanto semplice quanto profonda: mettere al centro il cambiamento che si vuole creare, capire che strategia adottare e solo successivamente ragionare su quale sia la forma organizzativa più adatta. La forma organizzativa passa da identità a strumento. Torniamo quindi a noi.

La forma organizzativa va scelta in funzione degli obiettivi. Essa deve essere in grado di gestire la complessità informativa, cognitiva e logistica delle sfide che si propone. Questo va fatto tramite un approccio competente e intenzionale alle organizzazioni, tramite le discipline che se ne occupano: progettazione organizzativa, progettazione di sistema, progettazione di processo, psicologia organizzativa, teoria dei sistemi, “movement building” e via discorrendo.

Non mi dilungherò su questi aspetti perché si era detto che avrei parlato semplice quindi mi limito a farvi un invito. Volete fare una politica più efficace? Leggetevi un libro di sociocrazia, di facilitazione, fatevi un corso di design di processo o di sviluppo no-code. Il libro di approfondimento da 700 pagine sulla situazione nel Nagorno-Karabakh può aspettare.

Siccome io, tanto per un impulso politico quanto per un gusto personale, ho iniziato a studiare questi temi e a portarli attivamente negli spazi politici e sindacali, vi posso dire che ve n’è un’estrema necessità e appena avrete un briciolo di competenza per poter aiutare chi vi sta intorno in maniera efficace, verrete accolti a braccia aperte. Il malessere creato da forme organizzative inadatte, sia burocratiche e verticali, sia orizzontali e sbrodolate, è reale e sentito, anche da chi non ha le parole per metterne a fuoco le cause.

Inoltre va combattuto in qualsiasi maniera lo spontaneismo, sia nella sua forma più ovvia, ovvero l’idea che se c’è un malessere diffuso nella società, prima o poi questo porterà all’azione che a sua volta porterà al cambiamento, sia nella sua forma più subdola, ovvero l’idea che comprendendo un fenomeno politico, un problema, una questione, allora si abbiano anche gli strumenti per cambiarlo. Costruire organizzazioni politiche è una disciplina a sé, che prescinde dalla competenza politica: avere competenza sulla crisi abitativa non vi darà strumenti per vincere un referendum sull’esproprio dei palazzinari, come quello menzionato nell’introduzione. Il referendum è stato vinto con un approccio estremamente sistematico al reclutamento di volontari per scalare la raccolta firme e la promozione delle idee dietro al referendum: nuclei di quartiere con interfacce chiare verso l’organizzazione centrale, materiale promozionale sviluppato ad hoc per diverse demografie, identità visuale originale e riconoscibile, protocolli e briefing dei volontari chiari ed efficaci, reclutamento in fasce di età diverse, attività sistematica porta a porta ma anche in spazi urbani insoliti: io, per esempio, ho firmato alle 10 di sera mentre ero seduto sul prato davanti alla Volksbühne, un contesto in cui non ho mai visto nessuno raccogliere firme.

Questa tipo di competenza poi, prescinde anche dai valori: organizzazioni che vogliono creare un mondo che per noi sarebbe orribile, hanno probabilmente un sacco di ottime pratiche che possiamo copiare, ripulire dalla lordura ideologica e riutlizzare. Il modo di operare delle SS, per esempio, era estremamente decentralizzato e basato su autonomia decisionale, molto più simile a quello di un’organizzazione di anarchici piuttosto che ad un esercito. L’ecosistema trumpiano è altrettanto decentralizzato, con una galassia di organizzazioni, 110 quelle che hanno firmato Project 2025, più centinaia di altre a contorno, ognuna con posizioni, valori e progettualità completamente diverse: dai neomonarchici agli insurrezionalisti, dagli oligarchi tech agli evangelici, da gruppi che credono ai rettiliani a milizie e gruppi paramilitari. Il coordinamento avviene nell’unico punto in comune: il supporto alla candidatura di Trump e ad un vago progetto di riorganizzazione della società americana in senso reazionario.

Non si può fare scacco matto alla prima mossa

Il terzo mantra si sofferma sempre sullo stesso, inevitabile punto: si deve mettere al centro del ragionamento politico l’obiettivo e il cambiamento che si vuole creare, il resto seguirà. C’è un problema però: porsi un obiettivo è facile, capire come raggiungerlo molto meno.

In una prospettiva olistica, e nello specifico cibernetica, è inevitabile giungere alla conclusione che non si avrà mai informazione sufficiente per sviluppare una strategia politica che porti al risultato sperato con certezza assoluta.  Per usare una parola difficile, Nunes parla di “approccio teleologico”, ovvero l’idea che gli sviluppi sociali e storici seguano dinamiche precise e conoscibili in maniera scientifica e che compiendo certe scelte, le conseguenze siano determinate e inevitabili. Conoscendo tali dinamiche, si potrebbe quindi sviluppare una pianificazione della propria azione politica da implementare poi nel mondo reale. Se la critica ad una visione teleologica della storia sono state abbondante digerite e siamo collettivamente passati oltre, molti spazi politici sembrano ancora operare con suggestioni ottocentesche. Guardano la storia con occhio analitico, seduti sulla loro poltrona, che di solito in realtà è una sedia di plastica sghemba in uno scantinato di un circolo politico di provincia. Dichiarano di conseguenza quella che per loro è la linea da seguire. Linea che inevitabilmente porta alla sconfitta.

Questo succede in buona parte perché si trasforma l’ideologia in scienza: si mischia il mondo che vorremmo col mondo che abbiamo e si perde il contatto con la realtà. Questo non vuol dire che l’ideologia in sé sia da abbandonare, perché non è possibile, né che vada ignorata nella propria pratica politica. Tuttavia le ideologie che abbiamo oggi, chiaramente, non sono più adatte al mondo che abbiamo. Le cose che faccio, il modus operandi di chi mi circonda, questo stesso articolo, contribuiscono a costuire nuove ideologie, più adatte ai nostri obiettivi, e a dare strumenti per abbandonare quelle vecchie e inadatte. Che forma avrà la politica del 2050 non ci è dato sapere, ma spero vivamente che non assomigli a quella di oggi.

La politica si gioca con tutto il mazzo di carte

Se la politica è una questione di porsi obiettivi e raggiungerli, se si deve sviluppare una strategia attuabile, se ci si deve confrontare con ciò che ci circonda, allora bisogna compiere scelte precise: come agire, che percorsi seguire, che strumenti, pratiche, tattiche, messaggi, estetiche, forme organizzative, linguaggi, rituali, identità adottare. Nulla va escluso a priori, ma solo in funzione della nostra valutazione su quanto possa essere costoso o rischioso. Nulla è troppo “di destra”. Nulla è “una cosa da capitalisti”. Il fine giustifica i mezzi. Concedersi di essere inefficaci è un privilegio da smantellare. Fare gli schizzinosi nella scelta degli interlocutori, i massimalisti, i puristi è il lusso di chi fa politica per fede e non per necessità.

Questa cosa, negli ultimi anni, sta venendo ripetuta fino allo sfinimento, con risultati a mio parere ancora insoddisfacenti. Dirlo è facile, ma fare appelli e costruire argomentazioni razionali per l’unità o per il compromesso è la strada sbagliata.

Spesso dietro il purismo si nascondono dinamiche psicologiche di difesa individuali e collettive, di gestione della propria impotenza. Di fronte all’enormità delle sfide politiche del presente, magari ingigantite dallo studio, dall’analisi, dallo sviluppo di coscienza, è molto più facile arrendersi che combattere. QuestI meccanismi spesso non sono altro che un modo per porsi in una posizione senza rischi, ma negando a sé stessi e agli altri la propria resa. “Le condizioni materiali non sono adatte”, “I centristi ci hanno manipolato”, “La rappresentanza sindacale fa schifo perché in quell’azienda son tutti di destra” sono tutti modi di giustificare la propria sconfitta cercando di salvare il senso di dignità. Può farci sentire meglio, ma ci immobilizza. Ci mantiene integri, ma impotenti. Se la dinamica è psicologica, se è dettata da trauma, un appello all’unità suona come invitare un depresso ad andare a fare una passeggiata nel bosco. Si può anche essere d’accordo che una passeggiata può essere una buona distrazione temporanea, ma non è passeggiando che si risolvono le cause della depressione.

La terapia verso questo meccanismo di difesa deve quindi passare per altre vie. Bisogna recuperare la libertà di agire e vedere un risultato. “Empowerment” direbbero gli americani. Empowerment che deve essere prima di tutto psicologico, emotivo, spirituale. Se questo non si può fare con grandi vittorie epocali, che chiaramente non arriveranno a breve, lo si deve fare con obiettivi meno ambiziosi, più circostanziati. Vincere uno sciopero dopo mesi di lotta, per chi vi partecipa, non è probabilmente un’esperienza troppo diversa in termini di euforia di chi ha fatto una rivoluzione. Un’altra via per affrontare questi traumi, è mitigare gli effetti delle sue espressioni più aggressive: bisogna creare spazi in cui il confronto con chi ha idee diverse porta a risultati positivi per entrambi. Non è una questione di sapere, ma di esperire, praticare. Mettere da parte l’ambizione del dialogo, ovvero il confronto tra chi ha una visione del mondo condivisa, in favore di una meno ambiziosa diplomazia, ovvero il confronto con chi non condivide la nostra prospettiva. La politica come mediazione tra opposti inconciliabili, fino a dissolvere l’opposizione. La costante tessitura di piccole e grandi forze per aggregarle. Questo deve essere non solo principio, ma pratica. Pratica quotidiana, quasi ascetica: ogni giorno dite qualcosa in cui non credete, supportate qualcuno con cui non siete pienamente d’accordo, usate una parola che non vi piace, ponetevi nei panni di chi vi odia. Dite: “sì e…” quando vorreste dire: “no, ma…”. Solo così potrete espandere il vostro mazzo di carte e avere una chance di vincere.

Patti chiari, amicizia lunga

Questo detto popolare italiano racchiude un principio fondamentale per costruire qualsiasi relazione sana e virtuosa: l’esplicitazione degli accordi, l’accesso trasparente all’informazione, la disambiguazione della comunicazione portano a strutture più stabili. Questo è vero per le amicizie, le relazioni sentimentali, le organizzazioni politiche di piccolo e grande calibro. La fiducia richiede comunicazione chiara. Questo ce lo sentiamo dire dallo psicologo, nei corsi di comunicazione non-violenta, ma non ce lo sentiamo dire abbastanza quando si parla di organizzazione politica.

Nell’ambiguità si annida potenziale per il conflitto, perché l’ambiguità lascia spazio ad interpretazioni divergenti.  Chiarire significa trasformare il potenziale per un conflitto futuro di larga portata in un concreto conflitto presente di piccola portata. Significa anticipare reazioni emotive future come il senso di tradimento, la mancanza di rispetto, la mancanza di fiducia, la paura di ulteriori conflitti e dargli spazio in discussioni presenti, volte a chiarire il significato degli accordi presi, di ciò che ci si aspetta che l’altra parte faccia. Chi prende seriamente questo tema, sia nel mondo del lavoro che nella politica, ha creato un’infinità di strumenti e pratiche per combattere e minimizzare l’ambiguità, che è costante e inevitabile nell’interazione umana. Tecniche di facilitazione e mediazione, di strutturazione della conoscenza, di stesura di documenti, di progettazione dei processi. Non serve tuttavia lanciarsi subito sulle pratiche più avanzate per avere dei risultati concreti. Si può partire da principi semplici, e già questi potrebbero richiedere in certi casi una trasformazione profonda e faticosa.

Ne elenco alcuni che a mio parere danno grandi risultati:

  • Mettere per iscritto e tracciare ciò che richiede comportamenti specifici: regole interne, assegnazione di compiti e funzioni, accordi tra più organizzazioni. Se non è scritto, non conta. Verba volant, scripta manent. Questo significa anche non generare conflitto se qualcosa è stato detto ma non è stato trascritto: la responsabilità di produrre chiarezza è condivisa da entrambe le parti e la confusione generata da una dimenticanza va gestita con pazienza ed empatia verso l’altra parte, la stessa che vorremmo fosse applicata verso di noi.

  • Standardizzare i processi più comuni tramite documenti dedicati: se c’è una serie di pratiche e di aspettative nel modo in cui, ad esempio, gli eventi vengono preparati nella vostra organizzazione e volete includere una persona nuova dandogli la responsabilità di organizzare il prossimo evento, questa persona idealmente dovrebbe ricevere una guida in cui sono esplicitati tutti i passi che deve fare, con chi deve interfacciarsi, quali sono le linee guida per promuovere l’evento e via di questo passo. Se la persona nuova fa un errore per mancanza di specifiche, la responsabilità è della parte dell’organizzazione che ha creato il documento di processo, non di chi l’ha utilizzato.

  • Separare chiaramente le informazioni importanti e vincolanti da quelle superflue. Esempio più comune sono le organizzazioni che prendono minute dettagliatissime o registrano tutte le riunioni e assemblee. Informazioni rilevanti messe in un flusso di note di una dozzina di pagine, o un accordo preso a voce infilato in un video di 2 ore sono informazioni che, di fatto, sono inaccessibili. Richiedere a chi non ha partecipato, o a chi a mesi di distanza vuole ricostruire gli accordi presi in una data riunione, di macinare pagine di note o ore di video è da considerarsi alla pari di un tentativo attivo di occultare tali informazioni. Nei vostri spazi digitali o cartacei, deve esserci una separazione chiara tra ciò che sarà rilevante a lungo termine e ciò che viene tracciato per completezza. Un eccesso di informazione non genera conoscenza, ma la limita.

Questi problemi sono mortali per organizzazioni piccole e con poche risorse, perché introducono frizioni sufficienti ad esaurire le energie a disposizione. Un fuoco di paglia che si traduce in un niente e si conclude con un lungo comunicato retrospettivo che di solito contiene una qualche variante della frase: “La politica è imparare a perdere meglio” o qualche altra stronzata consolatoria dello stesso calibro.

Per le organizzazioni più grandi e consolidate, con accesso a più risorse, spesso nate in tempi in cui si faceva tutto con carta e penna, queste frizioni tendono ad assorbire tutto il surplus di risorse. Partiti o sindacati sono gli esempi più lampanti. Spesso questi incarnano il peggio della disorganizzazione: funzioni strategiche centralizzate che portano a rigidità sul territorio e lentezza nell’evolversi, ma poi sezioni locali costrette a reinventarsi la ruota per ogni processo o attività. Non è un caso che molte persone, affacciandosi su queste realtà per iniziare la propria vita lavorativa, scelgano sempre meno spesso di rimanervi e si muovano verso ambiti in cui c’è più spazio di manovra: società civile, think tank, gruppi di ricerca indipendenti, gruppi di advocacy, scuole di movimento e via di questo passo. Nessuno vuole più rimanere invischiato in queste dinamiche e chi ha le competenze per capirle, scappa. Attenzione però a non diventare manichei in questo senso: il fatto che queste strutture siano limitate, difficili da riformare, inefficaci, non vuol dire che siano attivamente un problema da smantellare o che diventino “il nemico”. Altrimenti si rischia di riprodurre il trauma in una nuova forma: partiti cattivi, assemblee buone. Sindacati cattivi, collettivi buoni. Non è questo il punto. La presa di coscienza dei limiti di certe forme organizzative deve informare le nostre strategie, ma non deve né diventare una questione morale o di principio, né darci una giustificazione per ignorarli. Grosse strutture e in generale organizzazioni radicate sono parte dell’ecosistema con cui dobbiamo interagire e dobbiamo farlo con la consapevolezza dei loro limiti. Riconoscerne le dinamiche problematiche, le rigidità, i problemi, deve insegnarci a non riprodurli nelle nostre organizzazioni e a immaginare nuovi modi di fare.

La gestione della trasformazione di questi mastodonti è un lavoro lungo e complesso, ma non sembra esserci interesse nel riformare il modus operandi. Si estigueranno come si sono estinti i dinosauri. Dalla finestra che ho sui processi interni ad esempio dei nuovi sindacati americani, c’è un abisso rispetto a quelli italiani. Non perché siano più furbi o abbiano più risorse, ma perché l’efficacia organizzativa è un valore, è una disciplina che ci si aspetta che un sindacalista sappia coltivare lungo tutto il suo percorso. Dove in Italia c’è un’attenzione, ad esempio, all’abilità argomentativa, per conquistare i cuori dei lavoratori con i discorsi giusti, in USA c’è un’attenzione alla metodologia, ai numeri, alla riproducibilità delle pratiche, all’automazione, alla scalabilità che permette di mobilitare in maniera sistematica centinaia di lavoratori in un’azienda per conquistare migliaia di voti e avendo a disposizione magari non più di una manciata di sindacalisti full-time. Prima ancora di imparare a fare una conversazione 1 a 1, ti viene insegnato il Bullseye method.  Alla lunga, fa la differenza.

La politica col soggetto dentro

Questo è uno degli slogan meno efficaci, perché decisamente astratto. Tuttavia rimarca un punto chiave dell’olismo politico: noi, soggetti che facciamo politica, possiamo solo starci dentro. Non c’è un fuori. Siamo parte dei fenomeni che vogliamo analizzare, studiare, alterare, interrompere. Non siamo osservatori esterni ma osservatori interni. Se c’è un esterno, mostratecelo. Dov’è? Chi, in un mondo globalizzato, è libero dal flusso della Storia? Chi è svincolato dalle dinamiche sociali?

Siamo navi che galleggiano sull’acqua e sono spinte dal vento. Navighiamo osservando il mare: le mappe descrivono ciò che abbiamo intorno, ma non sono il mare, non sono la terra.  Questo prospettiva manda in cortocircuito tutta una serie di ideologie, pratiche e posture che rispondono ad un bisogno psicologico di autonomia, di difesa dal sistema sociale in cui si è immersi, ma che nascondono le strutture di potere, le dinamiche politiche e spesso anche organizzative. Qui autonomia è intensa in una maniera specifica: non nel suo significato letterale di “darsi le leggi da soli”, che può essere fatto, almeno in parte. Per autonomia qui si intende l’emancipazione dalle logiche del sistema sociale che ci circonda, come se fosse possibile schermarsi anche solo temporaneamente dalle sue logiche che hanno condizionato il nostro passato, determinano le possibilità di azione nel presente e il risultato che queste azioni potranno avere nel futuro.

Non esiste contro-cultura: esiste un unico sistema culturale, densamente connesso o meno a seconda del periodo storico, in cui alcuni agenti hanno tante risorse e sono egemonici mentre altri attori hanno meno risorse e si devono accontentare delle nicchie.

Non esistono zone temporaneamente autonome (T.A.Z.): esistono zone dove puoi fare quello che ti pare finché non arriva la polizia o finché non è lunedì e devi tornare in ufficio. Qualunque progetto politico immaginato o praticato all’interno di queste zone, come i festival, i rave o contesti più direttamente politici si deve prima o poi scontrare con l’ecosistema di poteri in cui è immerso.

Queste esperienze sono utili per liberare, in parte, l’immaginazione delle persone, ma solo quello. Come una piantina che viene seminata in alveolo a Febbraio perché nel campo fa troppo freddo, ma che prima o poi nel campo ci deve andare per crescere: se il terreno non è adatto, o le temperature sono troppo fredde, la piantina morirà comunque. L’alveolo è un supporto, ma non è il fattore determinante e la pianta prima o poi va travasata. Allo stesso modo, ispirare altri funziona solo se questi possono imitarti: l’ispirazione data dalla cosidetta “politica prefigurativa” non cambiano la posizione delle pedine sulla scacchiera, ma possono al massimo suggerirti la tua prossima mossa.

Non sussiste inoltre l’idea, sempre più di moda in tempi recenti, di fuga dalla società: anche la comune più isolata e indipendente deve fare i conti col sistema produttivo industriale e vede le sue chance di sopravvivenza minacciate da fenomeni come il cambiamento climatico, il collasso della biosfera o le microplastiche il cui effetto copre l’intera superficie del globo. Il cottagecore è una fantasia fascista.

A livello più concettuale: il dover andare a vivere in un casale in mezzo alle colline e passare le serate a discutere se l’acquisto della carta igienica comporta o meno una dipendenza dal sistema capitalista è una situazione in cui nessuno si infilerebbe volontariamente se non fosse per dinamiche intrinseche allo stesso sistema capitalista da cui si vuole fuggire. In Matrix 2 e 3, la città ribelle di Zion è sempre parte della simulazione costruita dalle macchine per intrappolare gli umani. Non è quella la via d’uscita.

Un altro “fuori”, meno ovvio, è quello pensato da chi, rivoluzionario o riformista, crede che prendere controllo dello Stato sia un punto di arrivo e non un punto di partenza. Il giorno dopo la Rivoluzione, il mondo è pressoché uguale al giorno prima. Va abbandonata l’idea che ci possa essere una rottura netta, per vie elettorali o militari, una tabula rasa della società e un nuovo inizio, una liberazione dalle catene del presente e un “fuori” lindo e perfetto da costruire dalle fondamenta.

Non esistono infine organizzazioni o gruppi di ricerca che possono dirsi esterni ai fenomeni sociali. Postura adottata da chi chiama “scienza” la propria analisi politica e ambisce ad un qualche grado di oggettività. La scelta non è tra essere dentro o fuori, ma tra essere consapevoli di essere dentro o convincersi di non esserlo. Ovviamente, per l’efficacia della pratica politica una delle due opzioni porta a risultati migliori. Lasciamo al/alla discente il compito di decidere quale delle due è preferibile.

Oggi il nemico è Netflix

L’ultimo mantra ci ricorda che le persone che vogliamo attivare politicamente sono esseri umani. Non eterei agenti razionali da convincere con raffinate costruzioni politiche, ma animali fatti di ossa, sangue e carne, ormoni, batteri, e nervi che vogliono stare bene ed essere felici.

Il modello di consumo di contenuti audiovisivi di Netflix ha successo perché risponde a bisogni ben precisi: bisogno di distrarsi, poca energia per scegliere cosa guardare o ancora peggio ricercare attivamente film o serie di qualità, quantità di materiale pressoché illimitato. Questo porta ad un sovraconsumo che, tra le varie conseguenza, drena il tempo personale e lo trasforma in dati e profitto per la piattaforma. Accendi Netflix quando arrivi a casa e si ferma quando ti sei addormentato col computer sul petto.

Io non guardo film o serie in linea di massima, ma una relazione simile ce l’ho coi videogiochi. Relazione che mi ha richiesto anni per mettere dei paletti sani e recuperare il tempo personale riempiendolo di attività significative. Mi considero un privilegiato per esserci riuscito.

Altri questo problema ce l’hanno con forme più tradizionali di intrattenimento come la TV, o con quelle più recenti come TikTok. La sostanza rimane la stessa.

Buona parte delle pratiche politiche diffuse è incompatibile e indifesa davanti alla trasformazione del tempo personale avvenuta negli ultimi decenni, davanti all’economia dell’attenzione, davanti al disingaggio politico dovuto non alla mancanza di valori o convinzioni, ma disingaggio dovuto alla mancanza di energia.

Troppi spazi politici utilizzano pratiche vecchie, evolutesi in un contesto in cui l’attenzione era tanta e il tempo personale non era preda di multinazionali voraci ma minacciato al più dalla stanchezza della giornata lavorativa, finiscono con l’includere e motivare solo chi ha un tempo personale già ragionevolmente libero. Questo tempo magari è già occupato da attività politica, dalla partecipazione a comunità o ad altre forme sociali che riempiono il tempo personale, vuoi perché per vicissitudini individuali esistono barriere o disciplina intenzionale verso la gestione del proprio tempo. Questo ormai è un privilegio di una frazione sempre più piccola della popolazione, soprattutto quella sotto i 50 anni.

Tornando al concreto: il nemico è Netflix perché l’ingaggio politico e lo streaming di film competono per le stesse risorse e ad oggi Netflix, e il sistema che rappresenta, vincono e stravincono. In questo sistema è incluso anche l’attivismo da tastiera fatto di consumo passivo di content politico, reshare e like.

Come si fa quindi a competere? Beh, la partecipazione alle vostre iniziative deve essere più divertente, interessante, rilassante, coinvolgente, emozionante, soddisfacente, convincente di Netflix. Se fate leva solo sul senso del dovere, se rendete la partecipazione una questione di sacrificio, avrete un’organizzazioni di soli martiri. Che può anche andare bene se volete fare un attentato kamikaze, meno bene se state facendo una campagna referendaria e volete coinvolgere decine di migliaia di volontari.

Se volete un’organizzazione in grado di crescere, di mobilitare e organizzare un grande numero di persone, di aggregare in maniera sistematica, dovete creare un percorso in cui le persone escono rigenerate e non consumate, altrimenti non è sostenibile. Questo ovviamente non deve ridurre la pratica politica ad intrattenimento o a spazi di mutuo supporto. Sono elementi utili in un ecosistema politico, ma da soli non generano cambiamento.

Inoltre il punto chiave non è cosa fate, ma come lo fate. Una riunione, un gruppo di studio, la pulizia di uno spazio fisico possono tutte essere occasioni, se non rigenerative, perlomeno piacevoli abbastanza da volerle ripetere senza fare appello alla propria autodisciplina.

Ci sono tante piccole cose che si possono fare per iniziare. Prima fra tutte, portare da mangiare. L’idea di aggregare esseri umani senza mangiare insieme è una follia che ha da finire. Ci siamo dimenticati le basi. I techoligarchi hanno costruito un’egemonia culturale sulla frutta e le pizze gratis in ufficio e ai meetup. Siamo scimmie che han perso il pelo: chi ci dà da mangiare diventa automaticamente un amico.  Mangiare poi significa mangiare bene: non deve essere un pranzo di da ristorante stellato con ingredienti costosi, ma la pasta scotta con pomodori e fagioli che non sa di niente fa più danno che beneficio.

Un altro elemento importante è la gestione emotiva dei gruppi e degli spazi: per paura di prevaricare, spesso e volentieri si lascia spazio alla peggior tossicità, che filtra le persone più conflittuali. Queste rimangono e quelle più sensibili o banalmente con standard più sani se ne vanno correndo. Guardate in faccia le persone che partecipano ai vostri eventi, guardatele in faccia durante le riunioni. Se vi sembrano a disagio, impaurite, timorose, nervose, abbiate l’audacia emotiva di investigare le motivazioni e capire cosa deve cambiare.

Tornando al tema dell’attenzione, riducete la complessità informativa delle attività che richiedete ai vostri membri. Sessioni da più di 60 minuti senza pause sono insostenibili. La lettura di documenti lunghi e mal scritti, la revisione di minute disorganizzate, processi poco chiari o assenti sono tutti esempi di spreco di risorse cognitive. Ogni persona è responsabile di minimizzare il carico che richiede al cervello altrui.

La chiarezza è un atto di cura verso il prossimo.

In conclusione: imparate a rispettare il tempo e l’attenzione, sia altrui che vostri. Iniziate le attività in orario e finitele in orario. Proiettatevi nei panni altrui per capire cosa state pretendendo quando fate una domanda, una proposta, pianificate un incontro.

Ho voluto raccontarvi in maniera molto disordinata, forse prolissa, ma sincera e con poco filtro ciò che mi gira per la testa ogni giorno, ma anche ciò che credo abbia portato risultati positivi nelle organizzazioni a cui ho preso parte.

Io sono incredibilmente pigro. Ciò che mi dà più fastidio al mondo è fare fatica. La seconda cosa che mi dà più fastidio in assoluto è vedere gli altri far fatica: empatizzo e mi affatico pure io. L’unica fatica che tollero è quella che mi permette di fare meno fatica domani, o che mi libera dal vedere gli altri faticare. C’è un motivo se sono diventato informatico. Questo spirito ha animato la stesura dell’articolo, nella speranza di liberarvi dalle energie sprecate, dallo stress, dal malesse della politica non perché vi voglia particolarmente bene o mi animi un irrefrenabile fervore, ma principalmente perché mi fastidia guardare chi gira in tondo con gran frenesia e combina poco o nulla.

Fare meglio per fare meno.

#efficacia #formazione #nèOrizzontale_ #nèVerticale #nunes #olismoPolitico #organizzazione #potenza #Robutti #strategia

2025-02-25

Sette mantra per l’olismo politico

rizomatica.noblogs.org/2025/02

di S. Robutti
Cinque anni fa ero alla mia prima esperienza da “organizer”, termine ombrello che nell’anglosfera si usa un po’ per chiunque si occupi di politica pratica: sindacalisti di professione e volontari, costru

#Politica #Rizoma #Strumenti #Tecnopolitica #efficacia #formazione #NOrizzontale #NVerticale #nunes #OlismoPolitico #organizzazione #potenza #Robutti #strategia

Evoluzione dei partiti.

Le crisi della politica: sovranità, rappresentanza, leadership, organizzazione.

img generata da IA – dominio pubblico

di M. Minetti

Il partito che manca

Concordo pienamente con il sociologo Lorenzo Viviani quando, nel suo saggio Sociologia dei partiti (Carocci 2015), afferma che i partiti sono tutt’altro che superati come istituzioni, ma devono evolversi.

“Nel dibattito attuale, troppo spesso il superamento dei modelli tradizionali di partecipazione e di organizzazione della politica è fatto coincidere con l’epitaffio del partito come attore della democrazia “ [… in cui ] la politica rischia -pensiamo alla dimensione sovranazionale europea -di essere commissariata dalla tecnocrazia, subordinata alla dimensione finanziaria, e in parallelo consegnata a forze che la agitano, ma non ne fanno uno strumento di trasformazione della società.” (Viviani 2015, pp. 12-13)

Difatti, osserva lo stesso Viviani, la mancanza di una progettualità trasformativa esplicita ha trasformato i partiti in fazioni. Se vogliamo recuperare la funzione democratica del partito come corpo intermedio fra cittadini e governo per una trasformazione sociale dobbiamo innanzitutto figurarci questa trasformazione partendo dai nostri bisogni attuali, calandoli nella realtà e non in un mondo dei sogni. La tendenza rivendicativa comune a forze politiche che non hanno nessuna prospettiva di conquistare il potere è infatti quella di appropriarsi di una lista infinita di diritti “umani” o “universali”, senza alcuna contropartita, pensando che le istituzioni attuali, con gli attuali rappresentanti, dovrebbero garantirli (in quanto scritti in quei preamboli delle dichiarazioni delle costituzioni e dei principi dell’ONU). La tentazione poi, ereditata dal marketing della filantropia in cui le chiese hanno fatto scuola, è quella di individuare obiettivi che riguardano minoranze “altre”, indubbiamente svantaggiate, evitando di occuparsi delle maggioranze meno svantaggiate i cui bisogni diffusi richiederebbero interventi strutturali (intaccare la conservazione del potere e gli interessi delle èlite) per essere soddisfatti. L’azione comunicativa di questi politici è semplicemente enunciativa, puro marketing politico da influencer (Pisicchio 2022, p. 8). Come se bastasse dire cosa si vuole per ottenerlo e come se ai diritti non corrispondessero doveri che l’istituzione politica deve essere in grado di far rispettare. Fornire servizi migliori alla cittadinanza significa far pagare più tasse ai ricchi, dare abitazione a tutti significa penalizzare chi ha molte case, far lavorare i disoccupati significa ridurre il tempo di lavoro degli occupati e aumentare le paghe orarie. Invece a quel populismo di facciata si è accompagnato un estremo conservatorismo nell’applicare le ricette di austerità, flessibilità del lavoro ed entrata dei privati nei settori strategici delle infrastrutture e dei servizi pubblici, imposte dalla Troika (Revelli 2015, p.150) e utili a estendere i profitti privati.

Un partito che mira alla trasformazione, oltre a dire cosa vuole ottenere deve anche predisporre gli strumenti necessari, costruendo la propria forza per affrontare quel percorso. L’aspetto elettorale è sicuramente importante ma non è fondamentale. Prima ancora viene la capacità di visualizzare il cambiamento atteso e la condivisione di questa visione attraverso la conquista di spazi di espressione culturale, in cui anticipare la trasformazione che si vuole attuare: giornali, internet, case editrici, radio e TV.

Spesso il gruppo sociale egemone funziona da esempio per mostrare le possibilità di vita e lo sviluppo maggiore delle facoltà umane superiori, resi praticabili dal progresso tecnologico-produttivo raggiunto. Il che non significa che il lusso consumistico del 10% neo-aristocratico debba essere generalizzato dalla mobilità sociale (come la narrazione neoliberista insinua con la favola meritocratica del sogno americano) ma che, grazie all’abbondanza raggiunta, è ora possibile la diffusione di quella libertà nuova di agire senza il condizionamento del bisogno, “di cui l’umanità ha già avuto un assaggio, ma riservato a degustatori privilegiati.[..] La novità rivoluzionaria, sta nel fatto che ora quella libertà può e deve generalizzarsi” (Mazzetti 2017, p.63).

L’attuale potere della minoranza sulla proprietà privata (termine che significa sottratta al comune) risulta un limite allo stesso sviluppo delle forze produttive, che vanno sprecate nell’inutilizzo o nella distruzione idiota e criminale di guerre, appositamente provocate per eliminare l’eccesso di merci invendute e manodopera inoccupata. Se questa è evidentemente una barbarie, perchè impedisce alla maggioranza delle persone di vivere una vita adeguata alle possibilità che le condizioni socio-economiche permetterebbero, bisognerebbe rendersene conto e capire che occorre una trasformazione socialista nell’ambito sovranazionale, perlomeno europeo. L’Unione Europea, per la sua estensione, potrebbe sostenere dei sistemi produttivi integrati, co-gestiti dai lavoratori e non diretti esclusivamente al profitto immediato di una ristretta minoranza di azionisti finanziari. La differenza fra liberalismo e socialismo è infatti, da sempre, che il secondo intende sottomettere l’economia ai bisogni delle comunità, conquistando la libertà positiva (Mazzetti 1992, p 216), ovvero l’eguaglianza sostanziale, di opportunità e di accesso allo sviluppo completo della personalità, mentre non include la proprietà privata fra le libertà fondamentali, perchè quella può essere limitata dall’azione di governo se contrasta con l’utilità sociale (Art.42 della costituzione italiana).

Questo non significa eliminare la ricchezza che le persone possono raggiungere e accumulare individualmente. Anche nelle costituzioni socialiste viene sempre tutelata la proprietà individuale (Mazzetti 1992, p. 205), che è quella di cui la persona può godere personalmente, come la casa, l’automobile, il giardino, la barca, il cavallo o l’orto. La proprietà privata, invece, fornisce un plusvalore o una rendita in base al solo possesso legale, come accade con i grandi patrimoni, latifondi, navi, palazzi, industrie, aziende, azioni, banche, brevetti, etc…

Ora, se il 90% della popolazione è soddisfatto dell’attuale sistema politico e legislativo che garantisce il privilegio aristocratico del 10% più ricco, la precarietà, la disoccupazione o lo sfruttamento della maggioranza e la persecuzione di minoranze scelte di volta in volta come capri espiatori, non deve fare altro che continuare a sostenere le diverse fazioni dell’attuale Partito unico di governo. In questo caso non c’è necessità di nessun nuovo partito, o di un diverso ruolo per gli attuali. Si può scegliere la propria fazione in base agli interessi contingenti o al grado di simpatia per la retorica di centro-destra o di centro-sinistra. Come abbiamo potuto sperimentare negli ultimi trenta anni, la struttura sociale rimane perfettamente invariata alla loro alternanza, accentuandosi soltanto le diseguaglianze tra i due estremi della piramide sociale.

Se invece dovesse emergere, in quel 90% di popolazione esclusa dal godimento delle ricchezze che ha contribuito a produrre con un duro lavoro per otto ore al giorno, costantemente impoverita e declassata, privata della effettiva libertà di esprimere le proprie potenzialità, il bisogno di trasformare la presente forma delle relazioni (Ventura 2021, p.362) verso una maggiore eguaglianza effettiva e libertà sostanziale (Romano 2019, p. 296), allora di certo servirebbe un partito di sinistra in grado di attuare collettivamente questa trasformazione.

La crisi di finalità

Nella definizione che ne dà Max Weber, un partito è una organizzazione che si pone come obiettivo la conquista del potere per realizzare uno scopo comune espresso, ma osserviamo ormai da anni la trasformazione dei partiti in fazioni. La fazione è invece una organizzazione che si pone come obiettivo la conquista del potere con il solo scopo di occuparlo, traendone vantaggio, ma senza un progetto trasformativo.

Tipico dei partiti conservatori è il voler mantenere il sistema di relazioni sociali esistenti, rafforzandolo, e installandosi in tutti i gradi esecutivi del potere. Per questo da sempre possono fare a meno delle ideologie e si ispirano ad un cinico realismo. Oggi questa è la cifra di tutti i partiti definiti catch all, che il sociologo Kirchheimer definì nel 1966 in cinque punti: 1. riduzione del bagaglio ideologico, 2. rafforzamento del vertice, 3. diminuzione dell’importanza/numero degli iscritti, 4. superamento della classe di riferimento, 5. attenzione rivolta a più gruppi di interesse, anche in contrasto. (Ignazi 2004, p.327)

Negli anni ’90 del secolo scorso abbiamo assistito ad una vera conversione entusiasta di quasi tutti i partiti socialisti, socialdemocratici, liberali e cristiano popolari, ai principi neoliberisti e ordoliberisti: flessibilità del lavoro, privatizzazioni, liberalizzazioni, dismissione dello stato sociale e sussidiarietà nei servizi ai cittadini, decentramento amministrativo e terziarizzazione dell’economia (Marsili-Varoufakis 2017, p. 23). Dai primi anni 2000, ottenuto tutto ciò che “volevano” e che, curiosamente rispecchiava il programma politico della loggia massonica P2 e le condizioni per entrare nel sistema monetario europeo, definite a Maastricht nel 1992, il sistema politico è entrato in una grave crisi di rappresentanza (van Reybrouck 2015, p.42) presentandosi nella forma bipolare delle fazioni elettorali opposte.

L’adesione all’Unione Europea, presentata come la soluzione a tutti gli atavici problemi di arretratezza sociale ed economica del nostro paese, si è rivelata come una gabbia rigidissima che ha aggravato le disparità tra le diverse economie europee e tra i territori degli stessi stati aderenti, come nella crisi post-unitaria ottocentesca si era aggravata la questione meridionale in Italia (Gramsci 2008 p.22). La crisi del debito greco è stata esemplare, come la sua soluzione che ha portato di fatto alla scomparsa di questa nazione come entità in grado di esprimere una politica autonoma. L’Italia a causa del suo altissimo debito pubblico, moltiplicatosi grazie a meccanismi predatori come le aste a rialzo dei Buoni del Tesoro (BOT)(Ferrero 2014, p. 23), ha dovuto accettare ricette di austerità dai costi sociali molto alti (Marsili-Varoufakis 2017, p.29), che comunque garantiscono a chi detiene il debito pubblico italiano, (per il 72% sono investitori Italiani) profitti che oscillano fra gli 80 e i 100 miliardi di euro l’anno. La crescita del debito non è stata neppure fermata dal Quantitative Easing, che comunque andava a finanziare le istituzioni bancarie, tanto meno dalla revisione del MES del 2020 che sposta l’indebitamento verso la BCE, limitando i rischi di default ma aumentando il potere direttivo delle istituzioni centrali europee.

Con la ricchezza finanziaria, concentrata per il 43% nelle mani di soli 411.000 cittadini italiani milionari, fra cui le banche e i loro azionisti hanno un peso importante, acquisire testate giornalistiche, agenzie di informazione, case editrici, università private, reti televisive e finanziare indirettamente i partiti politici attraverso le loro strutture sociali periferiche, come associazioni, ONG e fondazioni, non è certo un problema. Grazie alla proprietà privata delle “fabbriche del senso”(Chomsky 2023, Bellucci 2021), ovvero l’industria culturale e dei media, gli investitori finanziari, che per lo più drenano denaro pubblico e dei cittadini lavoratori-consumatori, sono sovra-rappresentati dai politici e dagli organi di informazione, mentre coloro che poi realmente producono la ricchezza consumata da tutti sono sotto-rappresentati, non sapendo neppure quali rivendicazioni avanzare a proprio vantaggio.

La maggior parte degli elettori si riconoscono oggi nei programmi della destra che cavalca il tema della sicurezza e della immigrazione irregolare (ma l’odio è rivolto anche a quella regolare, ovviamene), vuole meno tasse per i più ricchi (la famosa flat tax al 15% sbandierata da Salvini in campagna elettorale o l’abolizione dell’ICI e la riduzione delle tasse di successione al 4% eccedente 1 milione di euro di Berlusconi, attuate nel 2006 e mai più abrogate dai governi successivi) e più tolleranza per l’evasione fiscale (innalzamento del tetto per pagamenti in contante a 5.000 euro del 2022 per il governo Meloni).

L’unico partito di sinistra presente nel parlamento italiano con sei deputati, Sinistra Italiana, che vuole la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario, maggiori tasse per i ricchi e l’istituzione di una timida patrimoniale, non arriva da solo al 4% di sbarramento e deve allearsi con i Verdi, che non condividono queste misure di sinistra “estrema” esposte nelle pagine 23 e 28 delle 75 del programma elettorale.

Sembra che il ceto politico, soprattutto a sinistra, abbia perso il contatto con la base elettorale, con i bisogni delle persone in cerca di un miglioramento nella propria condizione di vita. D’altronde la massa della cittadinanza è pienamente integrata in un flusso di informazione che ne cattura l’attenzione attorno agli interessi delle èlite che possono essere sintetizzati in: vendere, ingigantire problemi(emergenze), fornire(vendere) soluzioni. E’ impressionante riflettere su quanto tempo un numero enorme di persone impiega nel fruire contenuti audiovisivi e interattivi, che comprendono anche i videogiochi e i messaggi dei social network come Instagram, X, Whatsapp o Telegram, formattati secondo i criteri delle principali multinazionali del settore intrattenimento. I canoni estetici, di comportamento, i desideri più intimi e la rappresentazione del Sé vengono plasmati sulle necessità del mercato globalizzato presente e futuro, contemplando tutti gli aspetti della vita, dalla culla alla tomba. Il carattere totalitario di questo continuo e onnipervasivo condizionamento viene reso più accettabile dalla sua ramificazione in variopinte scelte di colore, marca, modello, stile di vita a cui aderire. Ai vecchi ruoli tradizionali rigidi, territorializzati e stratificati si sovrappongono nuovi ruoli fluidi, formattati dal mercato globale delle merci e dell’informazione. Non c’è nulla di apocalittico in questo ma non si riesce a nascondere il diffuso trauma personale della perdita di una identità rassicurante (anche politica) e la fragilità della nuova identità ancora molto incerta (di autonomo individuo consumatore) e legata alla capacità di spesa. La possibilità di costruire una contro-narrazione basata su valori differenti dalla totale libertà di profitto e spesa è attualmente impraticabile se non mobilitando anche militarmente le masse contro pericoli esterni che minacciano queste nostre “libertà”.

La crisi dei metodi

La diffusione di internet aveva già modificato le forme della comunicazione politica mettendo in crisi il format del partito televisivo degli anni 90-2000 (Gerbaudo 2022, p.45), quando la diffusione degli smartphone e dei social network, intorno al 2010, ha del tutto rivoluzionato il rapporto tra i politici e la loro base di simpatizzanti/elettori. Il medium, con la sua possibilità di interazione, ha portato ad una semplificazione e polarizzazione dei messaggi politici miranti esclusivamente alla costruzione di identità contrapposte sul modello Schmittiano. Ho scritto un articolo su questo tema specifico intitolato Cavalcare il Nemico e pubblicato su NOT durante la campagna elettorale del 2022.

Malgrado siano cambiate le forme di comunicazione, i leader e i messaggi veicolati all’elettorato in cerca di rappresentanza, i partiti e movimenti politici più istituzionali non sono poi cambiati molto, mantenendo una solida direzione centralizzata nella segreteria, a volte denominata “Cerchio magico” per le sue caratteristiche di insindacabile selezione personale del leader, assenza di trasparenza e assoluto potere sulle scelte strategiche. Questa forma è osservabile sia in partiti di destra, che di centro, che di estrema sinistra ma anche nei partiti di tipo nuovo, come il Movimento 5 Stelle. Quest’ultimo, a fianco dell’apparato di mobilitazione e partecipazione a tutte le fasi decisionali da parte degli aderenti, mediante la comunicazione social e la piattaforma consultiva Rousseau, manteneva in capo a un Direttorio, validato da un plebiscito, le decisioni strategiche e l’uso della stessa piattaforma decisionale.

La forma organizzativa a piramide schiacciata, mutuata dalla organizzazione aziendale dei servizi, in cui i livelli gerarchici vengono limitati al massimo, si struttura in quattro o cinque livelli, in cui ad ogni livello vengono individuate figure singole di responsabili di funzione o di territorio.

  • Leader (Amministratore)
  • Segreteria (consiglio di Amministrazione)
  • Responsabili di settore o territoriali (Dirigenti, Manager, Funzionari..)
  • Responsabili di gruppo operativo (Capi progetto)
  • Semplici aderenti (Dipendenti, funzioni esecutive)

In una organizzazione produttiva, sia essa pubblica o privata, questa forma organizzativa è sufficiente, in quanto la motivazione a obbedire alla linea di comando è costituita principalmente dal denaro corrisposto come salario e la valutazione dell’operato viene dall’alto, dalla direzione, in base agli obiettivi che erano stati fissati, fondamentalmente la quantità di vendite o erogazione di servizi per cui si è ottenuto il budget.

In una organizzazione politica, e spesso anche l’azienda ha dei connotati politici, subentrano problematiche più complesse che implicano cicli di feedback poco prevedibili e non governabili solo economicamente. Nel formare i dirigenti politici, soprattutto bisogna capire se “si vuole che ci siano sempre governati e governanti oppure si vogliono creare le condizioni in cui la necessità dell’esistenza di questa divisione sparisca” (Gramsci 1971, p.34). Per Gramsci il dirigente politico non è solo un anello della catena di comando ma un leader riflessivo che condivide con il gruppo la responsabilità delle decisioni perchè deve formare nei militanti la capacità critica e la possibilità di ricambio della funzione direttiva: il buon leader va a formare altri leader, non si contorna di gregari yes-men.

Spesso invece non è chiaro e condiviso quali siano le finalità dell’organizzazione e quindi in base a quali parametri l’operato di coloro che la compongono può essere giudicato adeguato o meno e da chi. Se la finalità è l’aumento degli associati o la conquista di voti, e di solito un partito che si presenta alle elezioni ha queste finalità, il risultato andrà a misurare l’adeguatezza dei processi organizzativi, ma l’eventuale successo o insuccesso a chi devono essere imputati? I dirigenti dovrebbero valutare se stessi come inefficaci e farsi sostituire da persone maggiormente competenti, cambiando strategia. Ma questi nuovi potenziali leader esistono nella organizzazione? Sono stati nel frattempo formati o avvicinati? Sono disposti a svolgere quel ruolo? Domande retoriche.

La misura della quantità (di voti, iscritti, denaro raccolto, seggi conquistati) non è poi affidabile come indicatore anche se attualmente è un criterio cardine della visibilità e redditività sulla rete. Ottenere un successo numerico, in termini di voti e iscritti, può risultare effimero perchè conseguito inseguendo l’elettorato su un sentimento temporaneo dovuto alla congiuntura e a una campagna mediatica ben condotta, magari cavalcando “la pancia” dell’opinione pubblica. Il problema della volatilità del supporto elettorale è oggi molto percepito dai professionisti. La fiducia dura il tempo di una campagna elettorale, che a volte viene organizzata in tutta fretta per non perdere l’infatuazione del personaggio “nuovo”, talvolta bruciato appena dopo eletto con piccoli scandali e la macchina del fango. Qualcuno ha più sentito parlare l’onorevole Soumahoro eletto con AVS nel 2022?

In politica, poi, la conquista dei voti dovrebbe essere solo funzionale alla espressione di un potere che permetta di ottenere le trasformazioni sociali che ci si era prefissi come programma politico. Se, come spesso accade, la conquista di alcuni seggi in parlamento, solitamente all’opposizione, non producono alcuna trasformazione sociale auspicata, questo va letto come un fallimento dell’organizzazione o meno? Sta agli elettori deciderlo, rinnovando la fiducia nell’incarico dei rappresentanti o scegliendo un altro partito, magari meno aderente ai propri bisogni ma più forte e quindi in grado di ottenere almeno parziali conquiste, fino a votare “turandosi il naso” per un partito che fa schifo, considerandolo il male minore. Rappresentare il male minore (e questa è la retorica dell’antifascismo del PD) può essere considerato un successo dell’organizzazione politica? Certo, accontentandosi molto. Ci sono partiti che hanno fatto del menopeggismo la loro cifra politica rimanendo al governo per molti anni e sfruttando l’odio per l’antagonista (la DC, I comunisti, Berlusconi, Trump, Le Pen, Meloni).

Se le modalità di partecipazione alla vita politica tipiche dei pariti di massa, con le loro ramificate strutture periferiche territoriali, non sono più praticabili da almeno quaranta anni (Pisicchio 2022 p. 26), anche la passiva fruizione della comunicazione social o televisiva dei leader politici e la mobilitazione esclusivamente elettorale, per legittimarne le scelte calate dall’alto, non soddisfano i bisogni di integrazione della cittadinanza nella dimensione politica collettiva. Cadendo quella ritualità, che costituiva il corpo collettivo degli organismi di intermediazione, in grado di selezionare anche dalle classi subalterne dirigenti e amministratori pubblici, il corpo politico dei partiti viene percepito come estraneo ed elitario. Un gruppo di carrieristi incapaci e ambiziosi che si mettono al servizio di interessi economici in grado di finanziarli e che lottano fra loro per accaparrarsi voti e cariche pubbliche. Manca nella cittadinanza la percezione che il proprio coinvolgimento e l’attività del partito in generale possa in qualche modo influire sulla trasformazione della società in un senso che si vuole raggiungere. Lo storico olandese van Reybrouck suggerisce che l’equivalenza tra democrazia ed elezioni non sia più valida (van Reybrouck 2015, p. 33) come non lo è stata per secoli, dalla sua nascita nelle polis greche alle rivoluzioni borghesi e fino alla conquista del suffragio universale nella prima metà del ‘900. Bisogna trovare altre forme di partecipazione popolare al governo senza assolutizzare la rappresentanza elettiva. Non sono soluzioni alla crisi della democrazia né la tecnocrazia, né il populismo, che in un precedente articolo (Aristocrazia e tecnocrazia diretta) ho indicato come tendenze emergenti, seguendo l’economista e politico greco Yanis Varoufakis in: Il terzo spazio (1917) e Tecnofeudalesimo (2023).

Cos’è la destra, cos’è la sinistra?”

La celebre domanda della canzone di Giorgio Gaber non ha ovviamente una risposta univoca e si presta a moltissime risposte superficiali ed estetiche, visto che quelli che per qualcuno sono valori, per altri sono disvalori.

Uno dei criteri per definire questo concetto relativo è legato alla sua nascita nella assemblea legislativa della Francia rivoluzionaria, i conservatori e i monarchici sedevano a destra mentre sempre più a sinistra i liberali fino ai Giacobini, repubblicani e protosocialisti. Il criterio era, e può essere anche oggi (tant’è che molti parlamenti sono ancora così suddivisi) tra conservatori e progressisti ma a volte gruppi parlamentari siedono a sinistra solamente perchè la destra è già tutta occupata, indipendentemente dai valori fondanti il partito.

Questa divisione aveva senso fino a un secolo fa, quando i conservatori erano tradizionalisti e monarchici e la destra espressione dell’alta borghesia imprenditoriale e agraria, mentre la sinistra incarnava valori repubblicani, socialisti e di cattolicesimo sociale, rappresentando le istanze delle masse popolari. Il fascismo in Italia ha sovvertito questa divisione eliminando le opposizioni e mobilitando le masse popolari con elementi di socialismo, tradizionalismo, futurismo e nazionalismo militarista, integrando la conservazione del potere aristocratico (destra) con la partecipazione di massa alla politica, lo stato sociale, gli ideali repubblicani mazziniani, la partecipazioni pubbliche nell’economia (sinistra), nella dittatura del partito unico interclassista. Il comunismo sovietico di Lenin aveva un simile obiettivo di superamento della democrazia parlamentare borghese (van Reybrouck 2015, p. 29), percepita come strumento della classe dei capitalisti.

Oggi che le attuali forze politiche non si pongono più come alternative al sistema di governo, rappresentato dalla repubblica parlamentare democratica, inserita finanziariamente nella cornice ordoliberale della Unione Europea e militarmente nel Patto Atlantico, cosa si intende per conservatore e progressista? O agli estremi, per reazionario e rivoluzionario?

Non troviamo certo una forza politica organizzata che auspica il ritorno della monarchia sabauda o borbonica o la restaurazione del potere temporale del papato. Quindi possiamo affermare che il fronte reazionario è decaduto. Allo stesso modo nessun partito, anche nell’estrema sinistra, si pone come obiettivo la conquista dello Stato con una insurrezione violenta e l’instaurazione della dittatura del proletariato, con conseguente progressiva eliminazione della proprietà privata delle terre e dei mezzi di produzione, o una qualsiasi altra forma di radicale sovversione dei rapporti sociali esistenti. Possiamo quindi affermare che anche il fronte rivoluzionario è decaduto. Tutte le forze esistenti dell’arco costituzionale possono allora essere considerate conservatrici degli attuali rapporti o progressiste se mirano ad una loro evoluzione, limitata ad alcuni aspetti di riduzione delle diseguaglianze economiche e dei fattori di esclusione sociale, nonché alla trasformazione del sistema produttivo nella direzione di una minore impronta ecologica. Questo è il programma espresso dagli organismi di governo nazionali e sovranazionali con l’agenda 2030, quindi i progressisti sono già al governo (Vineis – Carra – Cingolani 2020) e diventano conservatori della loro posizione a tutela di quelle riforme di transizione, in una cornice liberale e liberista condivisa con le opposizioni.

Questa differenziazione fra liberali di destra e liberali di sinistra, più che una contrapposizione fra progetti alternativi e non conciliabili di struttura sociale, appare soltanto come una forma di contrapposizione ideologica mirante alla occupazione del governo tramite le elezioni. Staremmo in questo caso assistendo alla trasformazione dei partiti in fazioni che si contendono il potere in un identico orizzonte di valori condivisi e non negoziabili, quella fine della storia osservata da Fukuyama (Viviani 2015, p. 66).

Se oggi la diade destra-sinistra ha ancora un senso, è proprio nel persistere dei conflitti anche nelle nostre società opulente e in una diversa accezione del concetto di uguaglianza, se formale o sostanziale (Bobbio 1994, pp. 80 e 99) in cui si distinguono i valori liberali da quelli socialisti. Per la sinistra socialista solo lo Stato può garantire dei diritti sociali ai cittadini, con buona pace dei liberali e degli anarchici idealisti e positivisti, perchè al contrario della loro visione idealista e naturalistica per cui “gli esseri umani nascono liberi”(ONU 1948), “non c’è libertà effettiva ed oggettiva senza organizzazione”(della Volpe 1964, p.144) perchè senza struttura sociale non esiste neppure l’individuo (Romano 2019, p. 145). Non sono quindi le naturali inclinazioni umane (Kropotkin 1950, p. 6) che possono garantire i diritti sociali, ma soltanto le istituzioni politiche e giuridiche che gli uomini si danno storicamente per definirli e tutelarli, limitando il potere di chi controlla la produzione e la distribuzione della ricchezza, delle informazioni e dei valori etici, sviluppando il potenziale economico, culturale e morale di ogni persona.

La governamentalità algoritmica del partito unico (diviso in fazioni)

Malgrado molte forze politiche ed economiche cerchino oggi di presentarsi come prive di una ideologia, sostenitrici di quella tecnica politica che si trasforma in scienza dell’amministrazione e del governo, che da Weber in poi caratterizza sempre di più l’auto-rappresentazione del ceto tecno-politico (Vineis – Carra – Cingolani 2020), anche il realismo politico è una ideologia. Quel “realismo capitalista”(Fisher 2018) che rende invisibile e pertanto immutabile il contesto onnipresente in cui ci si muove, assume la libertà degli agenti economici nel mercato come legge naturale, nascondendo che quella libertà viene declinata di volta in volta da sistemi normativi, approvati dalle istituzioni parlamentari e applicati dalle burocrazie, assumendo i connotati di una ideologia politica, chiamata dai suoi oppositori “neoliberismo” (D’Eramo 2020).

Gli economisti, cercando di appoggiarsi alla matematica finanziaria, nascondono il fatto che la scelta delle variabili da includere nelle equazioni non è affatto neutra. Anche la descrizione della ricchezza attraverso il denaro (e bisogna scegliere una moneta di riferimento per farlo) è una astrazione e non è neutra. Il concetto di valore in economia è sempre una scelta politica, tant’è che si parlava di economia politica (Mazzucato 2018, p. 98), prima di frazionare e neutralizzare il termine in Macroeconomia e Microeconomia.

Passare dal concetto di valore non monetizzabile della terra (fisiocratici) al capitale monetario e al valore-lavoro dell’economia classica ha corrisposto al cambio di paradigma politico dall’Ancien Regime alla società borghese. Con il passaggio al valore-relazione (marginalisti) il neoliberismo ha sganciato il concetto di valore dagli elementi materiali della sua produzione, limitandolo alla descrizione quantitativa della dinamica dei prezzi, governata da domanda e offerta, in una ideale condizione di mercato perfetto. Per mercato perfetto si intende la mancanza di “attrito” fra domanda e offerta, ovvero la libera concorrenza (perfetta anche quella) in cui merci e acquirenti sono liberi di spostarsi ovunque sui mercati. Se questo in particolari condizioni di pace, costruite politicamente con i trattati di libero scambio, la cosiddetta globalizzazione, può avvenire nel mercato finanziario globale, di certo non può avvenire con le infrastrutture produttive e nella vita delle persone comuni che, ponendosi come “agenti economici razionali” nel fornire manodopera, dovrebbero continuamente riqualificarsi e spostarsi emigrando verso mercati del lavoro in espansione, ignorando le relazioni sociali, la lingua e la cultura in cui sono radicate e affrontando la sofferenza che comporta il loro stravolgimento.

Ecco quindi che l’immigrazione-emigrazione è un correlato della globalizzazione dei mercati finanziari e delle merci e l’integrazione culturale, sociale ed economica di tutti i popoli nel liberalismo occidentale è il suo valore ideologico. I lavoratori cognitivi devono parlare inglese per poter essere ricollocati sul mercato internazionale del lavoro sulla base delle richieste delle aziende. L’idea che si possa migliorare la condizione di una popolazione senza costringerla alla emigrazione, in quanto contraria alle dinamiche “spontanee” dei mercati, viene vista come negativa e stigmatizzata con i termini di protezionismo, sovranismo, socialismo, intervento statale in economia, assistenzialismo. Infatti “il capitale è soggetto automatico che tende alla sua autovalorizzazione” (Marx 1980, p. 187), non a soddisfare i bisogni umani presenti, senza profitti possibili. I bisogni umani vanno a piegarsi al capitale materiale-immateriale e alle sue statistiche.

Tra proteggere la vita delle persone e proteggere la profittabilità dei mercati, gran parte del mondo ha scelto la seconda opzione, in quanto il livello di ricchezza accumulata dalle élite era già molto alto e si sono verificate pericolose crisi (bolle) di sovraccumulazione di capitale (Mazzetti 2016 p.24) in cerca di sbocchi. Le politiche antiinflazionistiche di austerity della UE, dalla sua istituzione fino alle crisi del 2008, tendevano proprio a preservare il valore dei grandi capitali accumulati che agiscono come predatori sui mercati globali in una guerra senza idea di futuro (Cacciari 2023).

Chiarito che c’è quindi una ideologia della finanza (intesa come insieme di persone che dalle rendite finanziarie traggono elevati profitti), c’è anche un partito di riferimento per la tutela dei suoi interessi, ed è quello che si trova al governo ovunque, alternandosi nelle sue fazioni di destra o di sinistra ,”il partito unico”(Marsili-Varoufakis 2017, p. 28) dell’establishment.

La modalità di questo governo è tecnocratica, ovvero burocratica e tecnoscientifica, si appoggia su istituti di misurazione delle variabili che gli interessano e apporta, con meccanismi automatici, correzioni agli indici di spesa nei settori che, in base ai modelli matematici di previsione, vanno potenziati. L’obiettivo esplicito è la stabilità e lo sviluppo del sistema stesso, i pericoli da evitare sono le crisi finanziarie e di insolvibilità dei crediti che potrebbero volatilizzare nel giro di poche ore asset da miliardi. Il filosofo Bernard Stiegler, in alcuni suoi libri ha chiamato questa forma politica governamentalità algoritmica (Stiegler 2019), perchè nasconde il potere della classe dirigente dietro opachi meccanismi automatici regolati da sistemi di feedback retroattivi, in cui anche i governanti vengono deresponsabilizzati dalle loro azioni. La relazione politica viene incorporata negli strumenti tecnici, integrati in tutti i livelli della amministrazione della sfera pubblica, e plasma le scelte politiche a valle della sua adozione.

Per fare un esempio a noi vicino, pensiamo al sistema dei varchi elettronici delle ZTL cittadine che si sono diffusi ora anche nei piccoli centri urbani di provincia, la cosiddetta smart city. Il sistema di lettura automatica delle targhe basato su IA permette la rilevazione immediata delle infrazioni (con un flusso di cassa per contravvenzioni indipendente dal numero di controlli effettuati di persona) e la possibilità di offrire permessi di ingresso a pagamento per residenti, turisti e non residenti (ulteriore flusso di cassa). Il sistema, inoltre, monitora e registra gli ingressi nel centro urbano di persone ricercate, sotto indagine, o comunque consente di identificare il proprietario dell’automobile o ciclomotore in transito, i suoi percorsi abituali, il suo stato assicurativo, tributario, ottemperanza delle revisioni, classe di emissioni. Questa modalità di gestione del traffico veicolare cambia quindi anche le forme della relazione nel centro abitato verso una forma più controllata, selezionata dal potere di spesa, continuamente monitorata e registrata. E’ di destra? E’ di sinistra? Nessuno dei due. E’ del partito unico che rappresenta fondamentalmente chi vende e gestisce queste tecnologie. Prima venivano assunti dei vigili urbani per regolare il traffico e sanzionare i trasgressori, ora viene appaltato tutto il servizio ad una società privata di consulenza informatica che fornisce solo i dati in tempo reale. Il vigile diventa il supervisore umano del sistema automatico e a quello si adegua. Gli amministratori politici avranno un flusso di dati dettagliati su cui inizieranno a svolgere correttivi: numero di ingressi, periodizzazione, entrate economiche per permessi o per multe, risparmio in stipendi, costi in consulenze e servizi. L’oggetto dell’amministrazione cessa di essere la mobilità cittadina e diventa la gestione delle variabili fornite dal sistema automatico di misurazione, considerate esse stesse come la realtà, misurata e quindi scientificamente oggettiva. Questa distorsione è comune al livello micro come al livello macro, internazionale, quando le variabili assumono il valore di aspettativa di vita, PIL, reddito, livello di istruzione, numero di figli, contratto di lavoro, precedenti penali, spese mediche, tasse pagate, insolvenza debitoria, soddisfazione per l’attività di governo, patrimoni posseduti, etc…

Come nascono i partiti

Il sociologo della politica Lorenzo Viviani presenta due macro aree di formazione dei partiti intorno a due tipi di fratture (Viviani 2015, p.29). Una primitiva e costituente identificata dal territorio e dalla cultura di appartenenza, che si trova alla base delle identità etniche, religiose e nazionali. Successivamente si identificano dei partiti sulla base di fratture sociali e movimenti collettivi che derivano da quelle (possidenti-salariati, aristocratici-plebei, cittadini-rurali, poveri-ricchi, progressisti-conservatori, militaristi-pacifisti, liberali-autoritari, ecologisti-consumisti, materialisti-idealisti).

In base a queste fratture è molto importante capire come si collocano i partiti esistenti ed eventuali forze che tendono a nascere. Se la destra tende ad appropriarsi delle fratture territoriali e culturali più vicine alle comunità, la sinistra tende a coltivare le fratture sociali nelle sue biforcazioni maggiormente progressiste e democratiche, quando non si appoggia sul sostrato cristiano e identitario.

Le identità territoriali e culturali non fanno parte delle scelte di opinione ma riguardano la forma in cui l’individuo è stato socializzato, principalmente dalla famiglia di provenienza ma anche dall’ambiente prossimale e linguistico in cui è cresciuto, facendo presa sui valori profondi che costituiscono il Sè e che quindi si sviluppano lentamente attraverso le generazioni.

In base alle fratture elencate proviamo a definire l’identità del partito unico del governo europeo, quello che abbiamo prima descritto, che riunisce attorno al programma della attuale presidente Ursula von der Leyen, e che poteva avere in Mario Draghi il suo rappresentante italiano, il consenso ampio delle forze politiche, dai socialisti alla destra liberale. Si parte certamente dalla comune identità territoriale europea e occidentale, cristiana per rappresentare la popolazione liberale, progressista, materialista, ecologista, militarista, aristocratica, cittadina, ricca e possidente.

Se questa è la parte della ragione, l’opposizione antisistema non può che sedersi dalla parte del torto andando ad occupare le nicchie rimanenti, spesso incompatibili tra loro, e dovendosi quindi necessariamente frazionare tra destra nazionalista, autoritaria, rurale, sviluppista, plebea e povera e una sinistra pacifista, idealista, di lavoratori salariati, che è talmente erosa dagli aspetti progressivi del partito unico di governo da rimanere molto minoritaria.

Un aspetto fondamentale da cui non si può prescindere per spiegare il successo del partito unico di governo è difatti l’evoluzione sociale della popolazione europea negli ultimi decenni e il suo spostamento verso destra. Il tasso di scolarizzazione elevato, uno stato sociale estremamente sviluppato assieme alla concentrazione di ricchezza che presenta le diseguaglianze più basse al mondo, hanno fatto sì che la classe media di piccoli possidenti diventasse numericamente predominante (circa il 70% nei paesi UE) in quasi tutta Europa, favorendo i partiti conservatori, liberali e liberisti sostenitori dell’establishment europeo (Revelli 2015, p. 116), anche quando si rifacevano ad una tradizione socialista come il Labour inglese, i Socialisti spagnoli e francesi e i DS italiani (finché non hanno deciso di eliminare la parola sinistra anche dal nome). Nei paesi dell’Est Europa, di più recente adesione alla UE, la classe media anche se non maggioritaria è comunque in forte ascesa e vede nel mercato unico dell’Euro la possibilità di un veloce sviluppo economico attirando gli investimenti con i bassi salari, energia a buon mercato e i consumi in espansione. La possibilità della emigrazione senza necessità di permessi di soggiorno verso paesi più ricchi della UE ha favorito una entusiasta adesione alle politiche europeiste e liberiste delle classi meno abbienti, sostenuta anche da una storica avversione per l’esperienza socialista vissuta in epoca sovietica.

La crisi è solo nostra

I recenti appuntamenti elettorali europei ci hanno mostrato che le forze politiche esistenti rappresentano abbastanza fedelmente le fasce sociali europee, con uno spostamento verso la destra nazionalista delle posisizioni antisistema. Anche l’affermazione del Fronte Popolare nelle elezioni nazionali francesi e del Labour inglese mostrano una sinistra politicamente vitale e capace di raccogliere il consenso: più radicale in Francia con il successo di Melanchon e del suo partito FI; maggiormente istituzionale il Labour inglese, che garantisce stabilità ai mercati finanziari e negli impegni militari assunti nella NATO.

Ma la vera crisi di rappresentanza della sinistra è in Italia dove la destra nazionalista è saldamente al governo, avendo abbandonato ogni velleità antisistema e anti UE, e la sinistra, unendosi ai Verdi, raggiunge il 6,5 % considerandolo una buona vittoria. Eppure, eccetto Mimmo Lucano e Ilaria Salis, gli eletti di AVS hanno votato per la rielezione alla presidenza europea della popolare von der Leyen, con il suo solito programma di governo europeo già sperimentato da diversi anni. Difatti gli eletti in quota Verdi non fanno parte del gruppo parlamentare europeo della GUE ma di S&D, i socialdemocratici, come il PD. In Italia i partiti di sinistra, con programmi simili a quello del francese Melanchon, non raggiungono neppure la soglia di sbarramento o rinunciano a presentarsi.

C’è poco da invocare una crisi generale della politica e della rappresentanza, che si manifesta nella diffusissima astensione. Siamo noi, la piccola e non tanto piccola minoranza di sinistra più o meno radicale che non troviamo un rappresentanza politica che ci soddisfi pienamente, rimanendo frammentati e in perenne conflitto fra identità molto simili eppure incompatibili, irrimediabilmente settarie. Il ritiro nel sociale della sinistra extraparlamentare degli anni ’80 ha dato vita al movimento dei Centri Sociali che, negli anni ’90 ha traghettato l’identità comunista verso posizioni più libertarie e anarchiche tendenti all’astensione (Candela – Senta 2017, p.8) che andavano a occupare il ruolo di agenti sociali territoriali non statali, come anche le organizzazioni confessionali e il privato sociale. Queste organizzazioni nascevano attorno a spazi occupati o dati in concessione dai comuni in cui c’era una sponda politica e costituivano e costituiscono tuttora parte di quelle organizzazioni periferiche dei partiti coalizzati in partititi-cartello (Katz – Mair, 1995), in grado di assorbire le frange più estreme degli schieramenti di sinistra. Parallelamente anche la destra estrema ha costruito i suoi spazi sociali occupati o assegnati, ma senza la ritualità gestionale assemblearista, preferendo l’inquadramento gerarchico paramilitare e presentandosi a volte come partito.

L’intervento europeo, statale e municipale con bandi a sostegno della sussidierietà nell’erogazione dei servizi di welfare nelle forme del terzo settore, ha favorito la pratica del community organizing statunitense (Alinsky 2022), ovvero interventi di Advocacy e co-progettazione, spesso previsti e finanziati dai bandi stessi. La diffusione di queste forme di organizzazione politica “dal basso” (grassroots) maschera spesso i ruoli di leadership professionali che non sono affatto spontanei ma diretta espressione della distribuzione di denaro per raggiungere obiettivi politici (Astroturfing). Open Society di Soros ad esempio mira a sostenere dei gruppi territorializzati di interesse, spesso legati a minoranze e associazioni esistenti, che coinvolgano la politica a rappresentarne le istanze, come hanno sempre fatto le chiese con le loro strutture di assistenza e volontariato sociale come Caritas e Sant’Egidio. Queste reti federate di intervento sociale formano così la base diffusa e variegata del consenso dei partiti-cartello (Katz – Mair, 1995) attorno a tematiche specifiche (povertà, immigrazione, parità di genere, disagio psichico e fragilità varie) senza intenzione di costituirsi in una forza politica ma cercando rappresentanza in quelle esistenti e di governo, riuscendo talvolta a far eleggere candidati ”di movimento”. Questi ecosistemi, o arcipelaghi, anche in conflitto fra loro per le risorse economiche mantenute scarse e incerte dal sistema dei bandi, sono i referenti territoriali dei rappresentanti politici, la cosiddetta “società civile”.

Il cartel-party è il gruppo professionale degli eletti che trovano nella società civile i loro elettori/acquirenti rivelandosi come un “contenitore di partiti, con una sorta di contratto stipulato fra le parti in cui sono fissati diritti, responsabilità e obblighi dei vari comitati locali, e in cui la direzione nazionale è libera di stabilire le linee di mercato senza dover dipendere dalle unità periferiche.” (Viviani 2015, p.75) Una sorta di Partito in franchising che riesce ad occupare tutto il campo politico, tenendo fuori temi e forze potenzialmente disgreganti, quelle anti-establishment. Secondo lo stesso Viviani “la cartellizzazione riflette un più generale ampliamento dei soggetti titolati a erogare servizi per conto dello Stato”(Viviani 2015, p.77), è quindi un portato delle politiche sovranazionali di governance e sussidiarietà.

Forme e tecniche della politica

Se si formasse in Italia una forza politica di sinistra antisistema, sul modello de La France Insoumise, potrebbe conquistare consensi e rappresentanza tra quei molti delusi dalla sinistra liberale, che partecipa al partito unico di governo europeo, e tra quanti hanno rinunciato a esprimere il voto?

Il tentativo fatto nel 2018 con Potere al Popolo andò male (1 % alle elezioni politiche) per vari errori nel processo fondativo, che forse oggi sono stati capiti senza per questo essere risolvibili, e per il fatto che la rivoluzione antisistema era in quelle elezioni rappresentata dal Movimento 5 Stelle, che superò il 30% dei consensi. Un terremoto, o uno tsunami come lo definirono. Terremoto però del terzo grado della scala Mercalli (appena avvertibile) che non intaccò le strutture del potere a cui tutela venne messo niente di meno che un uomo del palazzo, il giurista Giuseppe Conte, affiancato da scomodi partner di governo, la Lega prima e il PD poi. Quella che doveva essere una rivoluzione si rivelò una timida ripresa dello stato sociale sotto l’emergenza della pandemia, conclusa con il ritorno al rigore neoliberista del salvatore della finanza Mario Draghi, profeta del PNRR, ovvero del finanziamento pubblico delle aziende private in crisi. Con le elezioni del 2022 emerge trionfante la figura di Giorgia Meloni, strenua oppositrice di Draghi e omologa della francese Marine Le Pen. Quale discontinuità abbiamo percepito rispetto al suo predecessore?

I recenti e meno recenti fallimenti elettorali delle forze politiche di sinistra, in Italia, non possono essere scaricati sull’elettorato. Obiettivo di un partito è costruire e raccogliere attorno a sé il consenso, quando non riesce in questa impresa ha fallito, se non nella scelta dei suoi obiettivi, almeno nella strategia. Vista la mancanza di democrazia effettiva vigente in queste strutture, inoltre, la responsabilità del fallimento ricade interamente sui dirigenti che ostinatamente continuano da anni a utilizzare le stesse tecniche di gestione dell’organizzazione, semplicemente perchè non ne conoscono altre rispetto al centralismo burocratico e all’assemblearismo rituale. Quello che poteva anche funzionare nei partiti di massa come la DC e il PCI fino a quaranta anni fa, con solide strutture territoriali ed economiche, non funziona certo oggi che quelle strutture si sono autonomizzate e fanno riferimento alle istituzioni governative. L’evoluzione in partito-azienda (party machine), non è adatto alla sinistra che manca dei finanziamenti degli imprenditori e degli investitori finanziari, coerentemente organici ai partiti liberali-liberisti.

L’errore fondamentale che ha caratterizzato tutti i tentativi di ricomposizione della sinistra “di classe” dentro una coalizione elettorale (Sinistra Arcobaleno, L’Altra Europa, Brancaccio, DIEM25, Potere al Popolo, La Sinistra, Pace Terra Dignità, AVS) è stato il voler presentare una lista a pochi mesi dalle elezioni con un patto di vertice fra organizzazioni preesistenti e strutturate, senza minimamente intaccare la loro gerarchia interna e i loro programmi macedonia. E’ totalmente mancata quindi la fase costituente e prolungata di coesione e identificazione dei sostenitori attorno ad un nuovo unico soggetto (un popolo), con la formulazione condivisa degli obiettivi espressi, la formazione e la individuazione dei dirigenti e la scelta condivisa dei candidati da esprimere. In tutte queste fasi è normale che emergano figure leader, che possono anche essere politici di lungo corso in grado di governare quei processi, come nel caso di Melanchon in Francia, ma i leader devono sapersi far riconoscere, raccogliere intorno a loro le persone più capaci e non presentare uno staff già costituito di fedelissimi, impermeabili a qualsiasi contaminazione, per affidargli la comunicazione dell’organizzazione, ovvero la gestione interna (1), per mantenerne con sicurezza l’egemonia.

Spesso il problema riscontrato nella formazione di nuovi soggetti politici è stato la mancanza di risorse umane ed economiche disponibili. Le uniche persone con a disposizione uno staff, pagato o volontario (perchè ex-deputati, imprenditori, dirigenti sindacali), erano quelle in grado di sobbarcarsi l’onere di assumere il ruolo dirigente e, in cambio di questo, pretendevano di essere i candidati e i leader.

In tutti i casi precedenti abbiamo osservato i dirigenti alla ricerca di una base da rappresentare nella forma esclusiva delle elezioni, non “un «movimento» o tendenza di opinioni, [che] diventa partito, cioè forza politica efficiente dal punto di vista dell’esercizio del potere governativo; nella misura appunto in cui possiede (ha elaborato nel suo interno) dirigenti di vario grado e nella misura in cui essi dirigenti hanno acquisito determinate capacità” (Gramsci 1971, p. 108). Un processo gestito così, dall’alto, funziona solo se incontra perfettamente le aspettative della base sociale che vuole rappresentare e se risulta credibile e affidabile. Tutte condizioni del riconoscimento carismatico del potere e che quindi selezionano chi è in grado di costruirlo con una narrazione mediatica, nella difficoltà aggiuntiva di dover operare in un ambiente libertario, la nuova sinistra post-comunista, che si nutre della narrazione dell’autogoverno e dell’orizzontalità nel rifiuto della leadership (Nunes 2020, pp.158-159). Una narrazione ideologica che obbliga il capo a nascondere il suo ruolo dietro un assemblearismo rituale che lo legittimi, risultando continuamente ipocrita e poco credibile oltreché insopportabilmente autoritario.

Alcuni partiti di recente formazione (Partito Pirata, Podemos, M5S, FI) hanno provato a superare questo problema della legittimazione della rappresentanza con l’implementazione di piattaforme digitali deliberative, che favorissero la partecipazione degli iscritti alla organizzazione e ne permettessero il coinvolgimento nella struttura e nelle scelte strategiche generali (Deseriis 2024). Come ha notato Paolo Gerbaudo nel suo libro Partiti Digitali, questi partiti, dopo aver incassato un ottimo successo si sono scontrati con i limiti della democrazia elettronica e con un uso plebiscitario di questi strumenti. Questi hanno perseguito l’obiettivo della

organizzazione distribuita” – espressione coniata da Becky Bond e Zack Exley [2016], membri dello staff di Bernie Sanders -, che punta a sfruttare il lavoro politico distribuito fornito dalla loro stessa base di sostegno, in modo simile a quanto fanno i social media con il “lavoro gratuito” dei loro utenti (Gerbaudo 2020, p. 30)

riuscendo a convogliare i propri militanti nel lavoro volontario sul breve periodo, fino alle elezioni. In questi casi di plebiscitarismo digitale, e in quelli in cui i partiti tradizionali hanno provato a rinsaldare il legame tra i rappresentanti e la loro base elettorale mediante l’uso di piattaforme o processi deliberativi molto ampi, come le “primarie” del PD, a cui hanno partecipato più di un milione di iscritti e simpatizzanti, assistiamo comunque a operazioni in cui il vertice chiede legittimazione alla base attraverso procedure che controlla totalmente (Gerbaudo 2020 p.176). Questa pratica deriva dalla costruzione della party machine statunitense, in

una democrazia plebiscitaria in cui il popolo sceglie il leader e lo identifica con la causa (Cavalli 1987a, p.25). Una trasformazione resa possibile dalla necessità, da parte dei professionisti della politica, di scegliere dei candidati presidenti in grado di garantire loro l’accesso alle risorse pubbliche, e così riuscire ad esercitare il potere di patronage. […] L’azione “demagogica” del capo , e la sua capacità di attirare consenso elettorale, operano in modo che il partito acquisisca una posizione strumentale di potenza essenziale per la redistribuzione delle posizioni di privilegio. (Viviani 2015, pp. 47-48)

Chi possono essere gli uguali. Una rinnovata avanguardia.

L’assenza di leader riconosciuti (dirigenti, organizzatori, rappresentanti, intellettuali, comunicatori, attivisti..) corrisponde alla mancanza di organizzazione e quindi all’impossibilità di coordinare un gran numero di persone verso un obiettivo comune (Nunes 2021, p. 108), mentre una gerarchia percepita come arbitraria, opportunista come i politici di professione, poco trasparente e incapace porta chi svolge funzioni operative ad essere demotivato e quindi a pretendere un salario (motivazione esterna) per svolgere le sue mansioni. Il professionismo è la norma in partiti azienda (il party machine sul modello statunitense), capaci di ottenere fonti sicure di finanziamento grazie ai ruoli conquistati nelle istituzioni, abituati a pagare bene i dirigenti (Weber 2004) affidarsi a comunicatori professionali e comprare gli spazi pubblicitari per la visibilità. D’altro canto la mancanza di motivazione intrinseca, e quindi di partecipazione attiva dei volontari, rende le piccole organizzazioni deboli e prive di gambe, incapaci di competere con le strutture finanziate con una filiera capital-intensive.

Per le organizzazioni che vogliono conquistare nuovi spazi di visibilità e rappresentanza è fondamentale saper coinvolgere una larga base di volontari coordinandone il lavoro e motivandoli adeguatamente anche a finanziare l’organizzazione (Bond-Exley 2016, p. 26). Il lavoro volontario effettuato deve essere adeguatamente ricompensato rispondendo ai bisogni di identificazione, piacere nella percezione di autoefficacia e socialità condivisa con gli altri appartenenti all’organizzazione. Inoltre, l’appartenenza al gruppo e lo svolgimento delle attività volontarie devono concedere all’attivista una aura di figaggine (drip) che facilitino la sua affermazione sociale negli ambienti che frequenta. L’impegno militante deve quindi rispondere al bisogno di autorealizzazione e appartenenza, che sono certamente bisogni evoluti ma parimenti molto diffusi in una società opulenta e atomizzata, che ha liberato gran parte dei suoi cittadini dalla esclusiva necessità di sopravvivenza. La militanza politica può costituire una soddisfacente attività del tempo libero, alternativa all’intrattenimento disimpegnato delle serie televisive, dei social network o di altri diffusi passatempi. Sta agli organizzatori predisporre modalità di partecipazione che siano adeguate ai bisogni attuali dei potenziali attivisti da intercettare e coinvolgere, tenendo conto delle differenti età e attitudini e del fatto che la disponibilità sarà limitata e non continuativa, quindi non paragonabile ad un impegno professionale.

Una legge empirica del coinvolgimento è quella del 10% nelle fasce concentriche: nel numero totale di simpatizzanti/elettori, il 10% si lascia coinvolgere dalle attività social/web, di questi il 10% assume un ruolo attivo partecipando al dibattito, di questi il 10% passa all’azione in presenza diventando associato e di questi il 10% assume una funzione dirigente, che solo nel 10% dei casi è realmente direttiva. (2)

La percentuale del 10% configura una struttura piramidale piuttosto verticale che necessariamente deve schiacciarsi per potersi allargare verso una organizzazione di massa in cui i membri attivi sono molti meno dell’ 1 % dei rappresentati.

La militanza attiva non può essere di massa ma è necessariamente riservata ad una minoranza particolarmente coinvolta che si costituisce di fatto come avanguardia, anche se questo termine viene accuratamente evitato. Assumere una funzione di avanguardia (Nunes 2021, p. 167) significa che queste persone, che agiscono in base a dei bisogni ricchi di autorealizzazione e socializzando il loro lavoro per il progetto di una società che soddisfi maggiormente i bisogni di tutti, vanno a porsi come modelli ed esempi per la trasformazione sociale, nodi attivi in una rete, come nello slogan zapatista “Para todos todo, nada para nosotros”. Il rischio è però quello di selezionare in questo modo dei narcisisti patologici, sia nella forma overt, grandiosa, autoritaria, istrionica e alla ricerca di continua ammirazione, sia nella forma covert, umile, altruista e dedita al sacrificio per meritare comunque l’altrui ammirazione. Nella organizzazione sana il narcisismo può essere un motore dell’azione ma riesce ad essere bilanciato dalle altre componenti. I narcisisti non assumono troppo potere e si riescono a perseguire gli obiettivi comuni senza allontanarli in un irraggiungibile futuro per giustificare pratiche puramente autocelebrative. La caratteristica comune alle organizzazioni dirette da narcisisti è infatti quella di porsi obiettivi grandiosi e utopici che non possono essere verificati nel breve periodo, (es. il comunismo, l’anarchia, la pace universale, l’autosuffcienza delle comunità rurali, la salvezza del pianeta, etc…). La continuità delle organizzazioni apocalittiche, ribelli, di lotta armata, religiose e ambientaliste è stata proprio quella di sfruttare l’angoscia della catastrofe (Lomborg 2024, p. 7) propria del millenarismo (Delhoyse – Lapierre 2024, p. 329) per una chiamata all’azione urgente, con un obiettivo che si colloca dopo la morte, meglio se dopo il martirio. Anche se affascinante e talvolta di successo questo tipo di organizzazione non raggiunge alcun obiettivo concreto e talvolta porta alla rovina i suoi aderenti (repressione, carcere, morte), rinforzando semplicemente l’identità di vittime del potere che in alcuni casi, come il cristianesimo, è fondativa.

In una organizzazione attuale e laica, i gruppi di attivisti, che nel tempo si soggettivizzano in una formazione esperienziale a cui l’organizzazione riserva un ruolo importante, vengono preparati ad essere dei leader funzionali e tra di loro si considerano eguali. Non lo sono già, ma diventano omogenei nella cultura che vanno a costruire assieme nell’azione, costituendosi come comunità e intelligenza collettiva. Solo a quel punto dello sviluppo interno dell’organizzazione ha senso adottare la democrazia deliberativa, in quanto questa può essere attuata solo fra chi ha pari strumenti di interpretazione e di espressione.

Finchè tra i vari livelli dell’organizzazione persistono forti disparità di coinvolgimento, di conoscenze e visioni, dire che 1 vale 1 significa soltanto postulare che tutti valgono 0, perchè il leader carismatico, che emerge nella comunicazione, sarà in grado catalizzare l’attenzione e il consenso della maggioranza, di solito meno competente e coinvolta, verso la sua posizione e contornandosi di sodali. E’ il famoso argomento contro la democrazia che Platone fa pronunciare a Socrate contro Gorgia. Il demagogo, forte della sua arte retorica, riesce facilmente ad apparire più sapiente di qualsiasi esperto di fronte a una assemblea ignorante, in quanto l’ignoranza è sempre maggioritaria rispetto alla conoscenza specifica dell’argomento di cui si parla (Platone 1993, p.77).

Non serve a nulla costruire meccanismi di controllo democratico nelle organizzazioni politiche, come abbiamo in passato creduto, se non sono presenti percorsi di formazione interna aperti e differenziati che permettono il confronto e l’elaborazione sugli obiettivi e sulla strategia. Al limite, in una fase iniziale può essere sufficiente anche un sistema di validazione del gruppo dirigente in base agli obiettivi che si era prefisso, che quindi devono essere palesi, e un sistema di sorteggio e rotazione delle cariche (van Reybrouck 2015) per dare a molti la possibilità di mettersi alla prova in ruoli dirigenti.

L’organizzazione sana cambia gruppo dirigente e strategia quando incorre in un fallimento, quella disfunzionale nega che ci sia un fallimento e attribuisce ad altre cause l’abbandono repentino dei simpatizzanti e attivisti. Nel primo caso l’organizzazione esprime un gruppo dirigente della base degli aderenti, nel secondo l’organizzazione è il gruppo dirigente separato dalla base che può solo identificarsi o andarsene, come dei consumatori possono solo comprare il prodotto o meno.

Alcune proposte.

Chi volesse oggi dar vita ad un organizzazione di tipo partitico dovrebbe a mio parere mantenere le distanze da tutti i movimenti sociali legati a territori e a particolari tematiche, stipulando con quelli alleanze solo in un secondo momento, quando la prospettiva della partecipazione istituzionale fosse realistica. Il rischio è altrimenti quello di ipotecare il programma su posizioni parziali e non universalmente condivise per garantirsi l’appoggio tattico di gruppi fortemente coesi ma estranei. Il classico limite degli intergruppi che formano una somma minore delle quantità degli elementi e che portano a inevitabili conflitti interni per negoziare il “peso” delle varie componenti. I temi attorno a cui convergere devono essere pochi, chiari e universalmente condivisi e condivisibili.

Alla luce di alcune esperienze accumulate nell’attraversare le formazioni politiche nascenti degli ultimi anni (Diem25, Potere al Popolo), vorrei formulare alcune proposte che riguardano maggiormente la forma delle relazioni che una forza politica dovrebbe assumere, più che i suoi contenuti programmatici. Questo perché nella forma è insito il messaggio del tipo di società che si vuole costruire. L’organizzazione, con le relazioni fra associati, può essere, a mio avviso, l’esempio della società futura in miniatura. I rapporti al suo interno comunicano all’esterno il programma politico. Non è una idea nuova, tutta l’autogestione anarchica contemporanea è nata così, come “rivoluzione in atto” e rifiuto della politica istituzionale ma, già dalla nascita, intorno ai movimenti del 1968, erano evidenti i suoi limiti di efficacia e riproducibilità oltre la dimensione municipalista (Candela – Senta 2017, p.8), per la necessità di organizzazione sollecitata già da Errico Malatesta nel suo scritto Un progetto di organizzazione anarchica (Malatesta 1927). La rinuncia dei movimenti ad organizzarsi in partito non ha diminuito l’influenza dei governi e del potere economico sulla società civile ma ha impedito di potergli opporre una qualsivoglia alternativa. Come recitava l’adagio: “se non ti occupi di politica, la politica comunque si occuperà di te”; mentre nel frattempo la politica è diventata una articolazione del mercato e quindi della dinamica del capitale.

Nelle due dimensioni in cui ogni partito si articola, quella esterna in cui comunica con i potenziali sostenitori e con tutta la società, e quella interna in cui comunica e organizza i propri aderenti, ritengo che quest’ultima sia fondamentale e da innovare, in quanto costituente, mentre la comunicazione esterna è influenzata dall’attualità e dalla tattica che può cambiare anche repentinamente.

Se il momento rituale dell’assemblea, con il succedersi degli oratori e l’approvazione del pubblico sono ancora momenti utilizzabili per unire la base degli aderenti attorno alla narrazione condivisa, non è certo a questi eventi che può essere limitata la dialettica interna dell’organizzazione.

Le organizzazioni recenti, sul modello dell’autogestione, hanno previsto spazi di dibattito interno in cui la dirigenza ascolta le istanze portate dai militanti, queste però non vengono strutturate in proposte da discutere. I leader ne prendono nota, se convergono con la loro strategia possono essere integrate, altrimenti cadono nell’oblio o vengono apertamente bloccate. Le tecniche di gestione di riunioni e assemblee è ormai nota, si tratta di controllare chi distribuisce i turni di parola (basta indire la riunione decidendo luogo e ora) e avere una certa massa critica di sodali (le famose truppe cammellate) che ripetono tutti la stessa cosa e approvano quanto detto dai leader.

Vi sono oggi metodi più inclusivi di facilitazione di riunioni adottati dai vari movimenti Occupy, 15M, Indignados, etc.. (Graeber 2014, p. 57) che permettono di ascoltare tutte le voci presenti ma hanno dimostrato la totale inutilità nei compiti di direzione e decisionalità, perchè diventano estenuanti maratone in cui persone non abituate a parlare in pubblico ripetono banalità conformiste già sentite o sfogano i proprio disagi senza riuscire a focalizzare un problema e a risolverlo, bloccate dal fanatismo della orizzontalità (van Reybrouck 2015, p. 29). In quei movimenti l’obiettivo delle assemblee era rituale e mirato a far sentire tutti sullo stesso piano, come comunità di eguali. Esistono invece tecniche molto efficaci per la gestione di riunioni di scopo, operative, utilizzate in ambito corporate o sociale, ma richiedono che i partecipanti siano in un certo senso motivati e competenti in modo equilibrato.

Come ben chiarito nel libro, Neither Vertical nor Horizontal, di Rodrigo Nunes, bisogna trovare l’equilibrio ottimale fra la direzione verticale e l’inclusività orizzontale (Nunes 2021, p. 56), differenziando i momenti rituali da quelli decisionali come da quelli operativi e trovando per ognuno la giusta formula.

L’uso di strumenti digitali di discussione e decisionalità può essere un valido supporto alla partecipazione degli aderenti ma va sempre di pari passo con la partecipazione in presenza (Deseriis 2024). Strumenti come Loomio o LiquidFeedback permettono di portare avanti processi complessi di formulazione di proposte, emendazione di documenti, sondaggi, votazioni, elezioni di cariche, rendendo trasparenti i processi interni dell’organizzazione. Questi software (gratuiti e open source), il primo sviluppato da un team neozelandese vicino ai movimenti Occupy, il secondo dal Partito Pirata, permettono anche di svolgere votazioni a scrutinio segreto o palese durante le assemblee o in differita, in diversi giorni.

Nessuno strumento tecnico risolve problemi politici, casomai li incorpora. Il partito che si pone un obiettivo deve affrontare tutte le fasi necessarie, dalla individuazione di una platea, alla costituente, alla definizione di ruoli e regole fino alla gestione dei processi di crescita e intervento. Se l’obiettivo non è esplicito e le varie fasi vengono gestite in modo ambiguo, di fretta e talvolta intenzionalmente di fretta, con l’urgenza della scadenza elettorale, il fallimento è inevitabile. Se vedete nascere una forza politica o una coalizione sei mesi prima delle elezioni potete stare certi che non sarà un successo. Ci vogliono anni per sviluppare una organizzazione politica efficace, si vedano gli esempi del M5S (4 anni) o di Podemos (3 anni) o di FI (1 anno). Comunque se l’obiettivo rimane limitato esclusivamente alla partecipazione ad una tornata elettorale il successo, oltre che scarso, sarà effimero. L’obiettivo principale della costituzione del partito resta, a mio avviso, la soggettivazione degli aderenti e di tutte le persone con cui viene a contatto, puntando ad assumere un ruolo riconosciuto nella società e nelle istituzioni.

Un aspetto importante nella definizione degli equilibri del potere nell’organizzazione è anche il finanziamento e la sua trasparenza.

Una forma efficace per mantenere la fonte del finanziamento alla base degli associati potrebbe essere l’abbonamento annuale ad una App per smartphone, che permetta la comunicazione con e tra gli associati, di visualizzare il calendario degli eventi, partecipare ai processi interni, alla decisionalità e avere la possibilità di incontrare gli altri associati sul territorio, formando dei gruppi in presenza o in videoconferenza. Se l’organizzazione risponde ai bisogni di rappresentanza e viene percepita come efficace, l’associato rinnoverà l’abbonamento/tesseramento altrimenti segnalerà il ritiro del suo mandato non rinnovandolo, coerentemente con la nostra abitudine a relazionarci come consumatori di merci e servizi. Il finanziamento è inizialmente l’obiettivo prioritario perché occorre uno staff pagato, anche se esiguo nel numero, e dei costi di comunicazione iniziali per diffondere il progetto. Se un soggetto politico preesistente (ONG, fondazione, sindacato, editore..) fornisce il capitale iniziale, si approprierà in questo modo della struttura e pretenderà di governarla secondo i propri scopi. Inizialmente sarebbe meglio avere una cooperativa ad azionariato diffuso che esprima uno staff professionale e che mantenga nel tempo la proprietà comune delle infrastrutture, del nome e del simbolo come degli spazi di comunicazione. Lo statuto della cooperativa potrebbe essere la garanzia della trasparenza e del controllo democratico sul gruppo dirigente iniziale.

Note

(1) Il Prof. Piero Dominici, nella sua lezione “Comunicazione è organizzazione” nell’ambito nel corso di comunicazione politica dell’Università Uninettuno, osserva come, soprattutto nella società complessa: “La comunicazione è processo sociale di condivisione della conoscenza, laddove conoscenza è uguale potere [..] e non si tratta di uno slogan” e quindi “essenza stessa dell’agire organizzativo”.

(2) Nel 2022 La France Insoumise ha conquistato 3 Mln di voti e 7 Mln di preferenze per il suo leader come presidente, con 400.000 iscritti sostenitori, 200.000 iscritti alla pagina Facebook e circa 5000 gruppi locali con migliaia di volontari. Come in tutti i partiti il gruppo dirigente è formato da qualche decina di quadri con un leader carismatico (fonte Il Manifesto e Wikipedia)

Nel 2018 Potere al popolo ha preso 370.000 voti, aveva 100.000 iscritti alla pagina Facebook, 10.000 iscritti alla piattaforma su cui hanno votato circa 1.500 iscritti, il coordinamento nazionale era formato da circa 100 delegati e il gruppo dirigente dai circa 10 rappresentanti dei partiti/gruppi costituenti (fonte Wikipedia).

Il Movimento 5 stelle nel 2018 ha preso più di 10 mln di voti, aveva 1,4 mln di iscritti alla pagina Facebook, circa 100.000 iscritti sulla piattaforma con circa 80.000 partecipanti nei picchi (Deseriis 2024, p. 109), 12 facilitatori e un “direttorio” di 5 leader (fonte Wikipedia).

 

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#attivismo #cartelParty #catchAll #ecosistema #gramsci #leadership #LorenzoViviani #nunes #olismoPolitico #organizzazione #partiti #partito #piattaforme #sociologia

2025-02-25

Evoluzione dei partiti.

rizomatica.noblogs.org/2025/02

Le crisi della politica: sovranità, rappresentanza, leadership, organizzazione.

di M. Minetti

Il partito che manca
Concordo pienamente con il sociologo Lorenzo Viviani quando, nel suo sa

#Politica #Rizoma #Tecnopolitica #attivismo #CartelParty #CatchAll #ecosistema #gramsci #leadership #LorenzoViviani #nunes #OlismoPolitico #organizzazione #partiti #partito #piattaforme #sociologia

2025-02-18

Syracuse Orange football: new College Football Playoff proposals could soon be up for consideration rawchili.com/4058305/

#absolute #an #be #college #consideration #could #exclude-from-stn-video #Football #For #front-page #is #magician #ncaa #ncaafootball #NCAAF #new #nunes #orange #PLAYOFF #proposals #soon #syracuse #syracuse-football #troy #up

Syracuse Orange football: new College Football Playoff proposals could soon be up for consideration
Chuck Darwincdarwin@c.im
2025-01-01

Former Rep. #Devin #Nunes (R-CA) once again failed at an effort to sue after being mocked by parody Twitter accounts, including one called
💥"Devin Nunes' Cow."💥

On Monday, Democratic strategist Adam Parkhomenko revealed that the case against him filed by Nunes in Virginia had been dismissed after having no activity for more than three years.

Nunes previously lost a $250 million lawsuit against Twitter for alleged damages caused by the Devin Nunes' Cow account

rawstory.com/devin-nunes-cow-l

2024-12-15

President-elect Donald Trump on Saturday tapped Devin Nunes, the CEO of his social media platform Truth Social, to lead the President's Intelligence Advisory Board, an independent group within the Executive Office that oversees the U.S. intelligence community’s compliance with the Constitution.
Nunes will continue leading Trump Media & Technology Group, a public company with a nearly $8 billion market cap. Trump is the company’s largest shareholder.

#Nunes #Trump

politico.com/news/2024/12/14/t

2024-11-05

Via Inner City Press:

Just docketed in v. NBC, deposition transcript still redacted, as here: "Have you ever communicated about Devin Nunes on any of your personal devices?" Answer: [REDACTED] mean, he's a public figure and so it might have come up but... incidental

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