Il sistema linguistico italiano ha un problema di identity
Di Antonio Zoppetti
In questi giorni al Palazzo dei congressi dell’Eur, a Roma, è in corso L’Esposizione Nazionale italiana del Sistema Italia, patrocinato da enti come il Ministero della Cultura, la Regione Lazio e l’INPS che vogliono farsi promotori della valorizzazione storica del territorio.
E come si chiama questo evento per promuovere il Sistema Italia? Con l’ennesimo gioco di parole basato sull’inglese, naturalmente: “Identitaly” (grazie a Daniele Imperi che me l’ha segnalato), perché la lingua italiana non fa parte del patrimonio linguistico che si vuole rilanciare e tutelare.
L’anno scorso c’era stata un’iniziativa simile che invece si chiamava Identitalia, in italiano, ma siccome i nuovi strateghi della comunicazione dalla mente colonizzata non ce la fanno a usare l’italiano, si rendeva necessario un sottotitolo per sottolineare che all’inglese non si può rinunciare: IDENTITALIA: the Italian Iconic Brands.
In questo caso l’obiettivo della mostra era di celebrare il “made in Italy” e “valorizzare il patrimonio economico, industriale e culturale rappresentato dai Marchi Storici” e del “saper fare italiano con uno sguardo al futuro”, con un’attenzione per le storie imprenditoriali di successo e per i designer che hanno cambiato il modo di comunicare l’immagine aziendale dei prodotti.
Ma quando una società, per valorizzare ed esportare i propri punti di forza ricorre all’inglese invece della propria lingua (in un passaggio dal disegno industriale all’italian design, e dal prodotto italiano al made in Italy), significa che qualcosa si è spezzato e abbiamo un problema di “identity”, come si potrebbe dire per essere più moderni e soprattutto coerenti con la strategia di anglicizzare ogni cosa.
Del resto “L’italian design day” (con l’inversione sintattica che ormai caratterizza sempre più espressioni) è una rassegna tematica annuale organizzata dal 2017 dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale della Farnesina in collaborazione e con il supporto del Ministero dei Beni, delle Attività Culturali e del Turismo.
Quando a diffondere e ufficializzare questo nuovo stilema linguistico sono le istituzioni non resta che prendere atto che – checché ne dicano gli anglomani, i “non-è-propristi” e i negazionisti – l’itanglese non solo esiste, ma è anche un modello comunicativo preferito e divulgato da un nuovo Sistema Italia (prossimamente si potrà forse meglio dire Italian system) che rinuncia alla propria lingua per identificarsi con quella d’oltreoceano.
Sempre la Farnesina, per esempio, aderisce e promuove un evento annuale che apre gratuitamente al pubblico centinaia di edifici di Roma notevoli per le loro caratteristiche, progetto che non si chiama certo “Case aperte” bensì con un più solenne Open House Roma, che fa “pendant” con mille altre espressioni del genere, dagli “Open day” delle scuole agli “Open” del tennis, dalle tecnologie informatiche “open source” a quelle “open data”. Tra i neologismi della Treccani – che per la metà sono ormai in inglese – si registrano anche: open content, open editing, open party, open plan, open publishing, open toe e open work. L’italiano è sempre più open al globish, per sintetizzare ciò che sta accadendo.
Se ai tempi di Dante la lingua del sì si confrontava soprattutto con i modelli provenzali della lingua d’oc, oggi si confronta con la lingua d’ok, come si può notare sul sito del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, che davanti all’informativa sui “cookie” propone di selezionare “OK, ho capito”, e nonostante lo sforzo di scrivere “posta elettronica certificata” non può fare a meno di ricorrere a “mail” o “chat”, perché ormai l’italiano non è più in grado di esprimere certi ambiti come quello informatico con il proprio lessico, e anche quando esiste si privilegiano soluzioni come “homepage” invece di pagina principale, e si scrive “Contact Center UIBM” come fosse normale.
A proposito di Dante e di iniziative istituzionali, vale la pena di segnalare il progetto Cantica21 “per promuovere e valorizzare l’arte contemporanea italiana” che ancora una volta ha bisogno di essere affiancato da una “spiegazione” in inglese: Italian Contemporary Art Everywhere.
Colpisce che Dante sia definito un “visionario”, espressione di solito riservata a imprenditori statunitensi come Steve Jobs e più recentemente Elon Musk, con un’accezione positiva sconosciuta nell’italiano storico (visionario fino a una ventina di anni fa era sinonimo di delirante più che di lungimirante). E così è stato ormai sdoganato anche l’uso di Crediti sul calco di Credits che si legge nel menù di navigazione in fondo al sito, dove si trova anche l’inevitabile “Privacy” ufficializzata dalle istituzioni, “Cookie”, ma anche la scelta di proporre agli italiano “About” invece di “Chi siamo”.
Un altro progetto dedicato alla promozione dell’editoria italiana nel mondo si chiama invece NewItalianBook e le categorie dei libri sono ormai espresse in inglese: fiction, non-fiction, graphic novel, children… siamo insomma una colonia, un provincia del nuovo impero culturale a stelle e strisce.
L’elenco delle iniziative istituzionali in inglese è infinito, e questa strategia accomuna tutti i governi di destra e sinistra del nuovo millennio. Lo si è visto con i costosissimi portali miseramente falliti di Franceschini (Pd) per promuovere l’italianità denominati di volta in volta Very Bello e ITsART sino a quello che piace alla (per adesso) ministra del turismo Daniela Santanché: Open to meraviglia. Intanto le Poste italiane sostituiscono i pacchi ordinari e celeri con la logica del delivery, i rimborsi statali si effettuano attraverso il cashback, Alitalia è diventata Airwais gesttita dalla società Air Italy, il sistema di allarme pubblico che avverte i cittadini di potenziali rischi e catastrofi si chiama IT Alert e l’identità digitale degli italiani è regolata da IT Wallet…
Per chi è rimasto all’Ottocento e al purismo, bisogna specificare chiaramente che tutto ciò non ha niente a che vedere con i “barbarismi” che di solito erano comunque italianizzati – non c’è alcun problema con le parole straniere – bensì con la colonizzazione di una sola lingua dominante: una vera e propria “dittatura dell’inglese” che schiaccia l’italiano, lo fa regredire e lo ibrida. Per chi non se ne fosse accorto, tutto ciò non ha nemmeno niente a che fare con gli anglicismi – cioè con le singole parole inglesi – ma con un sistema linguistico che sta saltando, con un cambio di paradigma linguistico-culturale e con un riversamento dell’inglese crudo – e solo quello – sempre più ampio e profondo che sta producendo una nuova diglossia: l’italiano non possiede lo stesso prestigio e non può competere nella “selezione lessicale” che vede l’inglese al vertice.
Mentre certi linguisti si aggrappano in modo patetico alla teoria dell’obsolescenza degli anglicismi che – a loro dire – sarebbero perlopiù passeggeri e destinati a passare di moda e a scomparire, non si accorgono che per ogni anglicismo che esce ce ne sono dieci che entrano. E anche se la vita media delle parole inglesi fosse così effimera – ma non lo è affatto e anzi le espressioni in inglese si allargano, più che regredire – basta pensare che anche gli insetti come le zanzare vivono poco più di un mese, il che non significa che il problema delle zanzare non esista, come chiunque dotato di un minimo di raziocinio sa; e poco importa che la zanzara che ci ha pizzicato l’anno scorso non sia la stessa che ci pizzicherà il prossimo. Il numero delle espressioni inglesi, complessivamente, è in aumento, e chi sostiene il contrario è in malafede.
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