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Il sistema linguistico italiano ha un problema di identity

Di Antonio Zoppetti

In questi giorni al Palazzo dei congressi dell’Eur, a Roma, è in corso L’Esposizione Nazionale italiana del Sistema Italia, patrocinato da enti come il Ministero della Cultura, la Regione Lazio e l’INPS che vogliono farsi promotori della valorizzazione storica del territorio.

E come si chiama questo evento per promuovere il Sistema Italia? Con l’ennesimo gioco di parole basato sull’inglese, naturalmente: “Identitaly” (grazie a Daniele Imperi che me l’ha segnalato), perché la lingua italiana non fa parte del patrimonio linguistico che si vuole rilanciare e tutelare.

L’anno scorso c’era stata un’iniziativa simile che invece si chiamava Identitalia, in italiano, ma siccome i nuovi strateghi della comunicazione dalla mente colonizzata non ce la fanno a usare l’italiano, si rendeva necessario un sottotitolo per sottolineare che all’inglese non si può rinunciare: IDENTITALIA: the Italian Iconic Brands.

In questo caso l’obiettivo della mostra era di celebrare il “made in Italy” e “valorizzare il patrimonio economico, industriale e culturale rappresentato dai Marchi Storici” e del “saper fare italiano con uno sguardo al futuro”, con un’attenzione per le storie imprenditoriali di successo e per i designer che hanno cambiato il modo di comunicare l’immagine aziendale dei prodotti.

Ma quando una società, per valorizzare ed esportare i propri punti di forza ricorre all’inglese invece della propria lingua (in un passaggio dal disegno industriale all’italian design, e dal prodotto italiano al made in Italy), significa che qualcosa si è spezzato e abbiamo un problema di “identity”, come si potrebbe dire per essere più moderni e soprattutto coerenti con la strategia di anglicizzare ogni cosa.

Del resto “L’italian design day” (con l’inversione sintattica che ormai caratterizza sempre più espressioni) è una rassegna tematica annuale organizzata dal 2017 dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale della Farnesina in collaborazione e con il supporto del Ministero dei Beni, delle Attività Culturali e del Turismo.

Quando a diffondere e ufficializzare questo nuovo stilema linguistico sono le istituzioni non resta che prendere atto che – checché ne dicano gli anglomani, i “non-è-propristi” e i negazionisti – l’itanglese non solo esiste, ma è anche un modello comunicativo preferito e divulgato da un nuovo Sistema Italia (prossimamente si potrà forse meglio dire Italian system) che rinuncia alla propria lingua per identificarsi con quella d’oltreoceano.

Sempre la Farnesina, per esempio, aderisce e promuove un evento annuale che apre gratuitamente al pubblico centinaia di edifici di Roma notevoli per le loro caratteristiche, progetto che non si chiama certo “Case aperte” bensì con un più solenne Open House Roma, che fa “pendant” con mille altre espressioni del genere, dagli “Open day” delle scuole agli “Open” del tennis, dalle tecnologie informatiche “open source” a quelle “open data”. Tra i neologismi della Treccani – che per la metà sono ormai in inglese – si registrano anche: open content, open editing, open party, open plan, open publishing, open toe e open work. L’italiano è sempre più open al globish, per sintetizzare ciò che sta accadendo.

Se ai tempi di Dante la lingua del sì si confrontava soprattutto con i modelli provenzali della lingua d’oc, oggi si confronta con la lingua d’ok, come si può notare sul sito del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, che davanti all’informativa sui “cookie” propone di selezionare “OK, ho capito”, e nonostante lo sforzo di scrivere “posta elettronica certificata” non può fare a meno di ricorrere a “mail” o “chat”, perché ormai l’italiano non è più in grado di esprimere certi ambiti come quello informatico con il proprio lessico, e anche quando esiste si privilegiano soluzioni come “homepage” invece di pagina principale, e si scrive “Contact Center UIBM” come fosse normale.

A proposito di Dante e di iniziative istituzionali, vale la pena di segnalare il progetto Cantica21 “per promuovere e valorizzare l’arte contemporanea italiana” che ancora una volta ha bisogno di essere affiancato da una “spiegazione” in inglese: Italian Contemporary Art Everywhere.

Colpisce che Dante sia definito un “visionario”, espressione di solito riservata a imprenditori statunitensi come Steve Jobs e più recentemente Elon Musk, con un’accezione positiva sconosciuta nell’italiano storico (visionario fino a una ventina di anni fa era sinonimo di delirante più che di lungimirante). E così è stato ormai sdoganato anche l’uso di Crediti sul calco di Credits che si legge nel menù di navigazione in fondo al sito, dove si trova anche l’inevitabile “Privacy” ufficializzata dalle istituzioni, “Cookie”, ma anche la scelta di proporre agli italiano “About” invece di “Chi siamo”.

Un altro progetto dedicato alla promozione dell’editoria italiana nel mondo si chiama invece NewItalianBook e le categorie dei libri sono ormai espresse in inglese: fiction, non-fiction, graphic novel, children… siamo insomma una colonia, un provincia del nuovo impero culturale a stelle e strisce.

L’elenco delle iniziative istituzionali in inglese è infinito, e questa strategia accomuna tutti i governi di destra e sinistra del nuovo millennio. Lo si è visto con i costosissimi portali miseramente falliti di Franceschini (Pd) per promuovere l’italianità denominati di volta in volta Very Bello e ITsART sino a quello che piace alla (per adesso) ministra del turismo Daniela Santanché: Open to meraviglia. Intanto le Poste italiane sostituiscono i pacchi ordinari e celeri con la logica del delivery, i rimborsi statali si effettuano attraverso il cashback, Alitalia è diventata Airwais gesttita dalla società Air Italy, il sistema di allarme pubblico che avverte i cittadini di potenziali rischi e catastrofi si chiama IT Alert e l’identità digitale degli italiani è regolata da IT Wallet

Per chi è rimasto all’Ottocento e al purismo, bisogna specificare chiaramente che tutto ciò non ha niente a che vedere con i “barbarismi” che di solito erano comunque italianizzati – non c’è alcun problema con le parole straniere – bensì con la colonizzazione di una sola lingua dominante: una vera e propria “dittatura dell’inglese” che schiaccia l’italiano, lo fa regredire e lo ibrida. Per chi non se ne fosse accorto, tutto ciò non ha nemmeno niente a che fare con gli anglicismi – cioè con le singole parole inglesi – ma con un sistema linguistico che sta saltando, con un cambio di paradigma linguistico-culturale e con un riversamento dell’inglese crudo – e solo quello – sempre più ampio e profondo che sta producendo una nuova diglossia: l’italiano non possiede lo stesso prestigio e non può competere nella “selezione lessicale” che vede l’inglese al vertice.

Mentre certi linguisti si aggrappano in modo patetico alla teoria dell’obsolescenza degli anglicismi che – a loro dire – sarebbero perlopiù passeggeri e destinati a passare di moda e a scomparire, non si accorgono che per ogni anglicismo che esce ce ne sono dieci che entrano. E anche se la vita media delle parole inglesi fosse così effimera – ma non lo è affatto e anzi le espressioni in inglese si allargano, più che regredire – basta pensare che anche gli insetti come le zanzare vivono poco più di un mese, il che non significa che il problema delle zanzare non esista, come chiunque dotato di un minimo di raziocinio sa; e poco importa che la zanzara che ci ha pizzicato l’anno scorso non sia la stessa che ci pizzicherà il prossimo. Il numero delle espressioni inglesi, complessivamente, è in aumento, e chi sostiene il contrario è in malafede.

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La lingua di classe: l’italiano 2.0 a base inglese

Di Antonio Zoppetti

Mentre sui giornali lo tsunami degli anglicismi travolge quotidianamente la lingua italiana – soprattutto nei titoli, a caratteri cubitali e in bella vista – ogni tanto compare qualche lamentela dei lettori, nascosta tra le lettere alla redazione. Nello spazio della Stampa “Lo specchio dei tempi”, per esempio, il 30 gennaio Carla Crivello mi ha segnalato la denuncia di un torinese:

“Mi sono recato presso l’Asl di via Montanaro a Torino. Sono rimasto allibito! Vi è un cartello che indica un laboratorio con la scritta ‘Head and Neck Cancer Unit” Ho pensato che era bello sognare di e essere a Londra e mi sono dato un pizzicotto e invece ero a Torino. È mai possibile che i responsabili della Sanità Pubblica del Piemonte oltre a tutti i problemi che ben conosciamo non trovi niente di meglio che indicare un laboratorio così importante in lingua inglese?” (AB).

Il 31 gennaio è invece stato pubblicato il commento di Marco Zomer (attivista dell’italiano):

“Leggo che l’evento gratuito organizzato al Regio per seguire la finale del tennis era ‘soldout‘. Mi pare un ossimoro: non può essere ‘sold’ un evento gratuito! E se la smettessimo di usare anglicismi e scrivessimo ‘al completo’ o ‘tutto esaurito?'” (MZ).

Sold out, che come la maggior parte degli anglicismi composti non ha una grafia ben codificata e si trova anche scritto con il trattino (sold-out) o tutto attaccato (soldout), è un potenziale prestito sterminatore che sta facendo il suo sporco lavoro: distruggere l’italiano sovrapponendosi come espressione più prestigiosa e moderna. Poco importa che non tutti capiscano cosa significhi, si abitueranno. E verrà il giorno che anche questa parola sarà forse dichiarata “italiana” da certi linguisti che così definiscono parole di altra frequenza come chat o computer (come si legge per esempio in certe consulenze linguistiche dell’Accademia della Crusca). In Rete circolano innumerevoli battute che giocano sulla trasparenza di questa parola: “Vorrei acquistare i biglietti”. Risposta: “Ciao, Sono Sold Out”. Replica: “Ciao Sold Out, quindi come posso fare?”.

Intanto si registra l’uso in senso lato dell’espressione, che ha ormai perso il suo significato letterale legato al venduto (sold è participio passato del verbo sell) e nel suo sovrapporsi a tutto esaurito si impiega anche per ciò che non affatto in vendita, come il “sold out” dei musei milanesi causato dal fatto che durante il weekend l’ingresso era gratuito.

Durante il covid, anche i centri vaccinali – chiamati HUB – erano sold out in una no-stop da record, per riportare la lingua dei giornalisti moderni (tuttavia no-stop significherebbe che è vietato fermarsi, al contraio di non-stop che significa senza pause).

Purtroppo l’itanglese non è solo la lingua dei giornalisti, è il modello linguistico della nuova egemonia culturale, della nuova classe dirigente, o dell’élite, per usare un francesismo. Se la lingua dei Promessi Sposi manzoniani che si poneva come il nuovo modello dell’italiano si basava sul fiorentino dei ceti colti – e non certo quello del popolino inquinato da solecismi come diaccio per freddo – oggi il nuovo ceto alto sciacqua i propri cenci nell’East River del fiume Hudson (più che nel Tamigi), anche se i panni sporchi – si sa – sarebbe meglio lavarli in casa.

E così, in un Paese dove si punta all’inglese come lingua dell’Università e all’abbandono dell’italiano come lingua della formazione, poi non stupisce che gli ospedali inaugurino le Head and Neck Cancer Unit, invece di parlare dell’oncologia, della testa o del collo. Il punto è che questa lingua viene imposta ai cittadini che la subiscono ob torto collo, se non si dice ormai ob torto neck.

Tempo fa mi è capitato di frequentare i reparti ospedalieri specializzati nella cura degli ictus, ma il colpo apoplettico è roba di una volta, la cartellonistica dei reparti indica solo le Stroke Unit, perché in questo modo sono stati chiamati i centri di eccellenza. Nei documenti della Regione Lombardia si ufficializza la terminologia inglese, e si legge che il “Decreto della DG Sanità n. 10068 del 18/09/2008” è oggi sostituito dal “decreto DG Welfare n. 18447 del 17/12/2019”, mentre le nuove Stroke Unit si occupano anche della “corretta comunicazione ai caregivers” (con la “s” per formare il plurale), ma della comunicazione agli italiani che devono essere educati alla lingua dei padroni non interessa niente a nessuno, a parte i cittadini che scrivono le loro proteste ai giornali.

Se l’obitorio di Pescara viene trasferito, la comunicazione ospedaliera rivolta alla popolazione non parla più di obitorio – un brutta parola, che evoca la morte – ma di Morgue e il giornalista è costretto a riportare tra parentesi l’avvertenza che sui cartelli c’è solo “morgue”.

I delitti della via Morgue di Edgar Allan Poe, come in un racconto dell’orrore, si trasformano in delitti e crimini contro la lingua di Dante, che finisce nell’obitorio mentre prende vita l’itanglese affermato dalle istituzioni. Il che è inaccettabile.

Questa dittatura dell’inglese è la nuova lingua di classe. Una lingua che nell’era dell’inclusione esclude gli italiani, perché dietro il politicamente corretto c’è semplicemente il politicamente americano.

Tra i linguisti impazziti, intanto, c’è chi ci spiega che la lingua arriva dal basso e la nuova prospettiva “scientifica” della linguistica moderna è descrittiva, non è più prescrittiva e normativa come una volta… poi però, davanti agli usi dal basso che escono dall’italiano storico, per esempio l’uso di “piuttosto che” con il nuovo significato di “oppure” invece di “anziché”, non si fanno problemi a respingerlo e dichiararlo errore inammissibile, invece di descriverne l’uso sempre più inarginabile, come si legge sul sito della Crusca:

“Non c’è bisogno di essere dei linguisti per rendersi conto dell’inammissibilità nell’uso dell’italiano d’un piuttosto che in sostituzione della disgiuntiva o. Intendiamoci: se quest’ennesima novità lessicale è da respingere fermamente non è soltanto perché essa è in contrasto con la tradizione grammaticale della nostra lingua e con la storia stessa del sintagma (a partire dalle premesse etimologiche); la ragione più seria sta nel fatto che un piuttosto che abusivamente equiparato a o può creare ambiguità sostanziali nella comunicazione, può insomma compromettere la funzione fondamentale del linguaggio.”

Davanti all’ambiguità (e all’incomprensibilità) della comunicazione in inglese, tutto è invece più attutito (che significa soft per chi non è avvezzo alla veterolingua) e spesso gli anglicismi non sono considerati altrettanto inammissibili né respinti. Certi linguisti impazziti, davanti all’anglicizzazione dell’italiano (che qualcuno ancora più impazzito continua a ridimensionare se non a negare) mediamente ci spiegano che sulla lingua non si può né deve intervenire, perché l’uso è sacro (anche se si tratta di un uso che arriva dall’alto e dagli anglomani, non certo dal popolo). Poi però decidono che è meglio scrivere “sé stesso” con l’accento e non con la sua omissione, e si mettono anche a scrivere così entrando a gamba tesa su un uso che – a torto o a ragione – si era affermato nel corso del Novecento come la norma editoriale in tutta la letteratura e in tutti gli autori. Ma qualche linguista ha deciso di cambiare le regole, e dell’uso in questo caso se ne impipa (parola popolare e volgare di basso registro, nonostante sia stata usata da autori come Manzoni o Verga).

È in questo modo, e in questo contesto, che prende piede l’italiano 2.0, dove per interferenza dell’inglese il punto sta al posto della vecchia virgola e quello che è definito ipocritamente “italiano” non è altro che una lingua ibrida il cui nome più appropriato è invece itanglese. Una lingua classista che si vuole legittimare a partire dalle istituzioni, invece che arginare. È questo il nuovo specchio dei tempi (fino a quando non ci faranno dire mirror).

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Di Antonio Zoppetti

L’altro giorno ho visto in tv una pubblicità della compagnia aerea italiana che si chiama in inglese – ITA Airways – il cui motto (a cura dello skyteam) è “a sky full of Italy”.

A chi si rivolge questa comunicazione?

L’inglese non è la lingua degli italiani. Ma lo si vuole affermare come lingua di prestigio, come lingua superiore aristocratica e spocchiosa, in una cancellazione del nostro lessico storico che discrimina una larga fetta di cittadini e che non ha alcun rispetto per il nostro patrimonio linguistico così amato all’estero ma vituperato in patria.

E così l’aeroplano è stato rinominato Airbus (pronuncia in inglese), che spicca per il “suo comfort di bordo” dotato di “tre cabine separate: la Business, la Premium Economy e l’Economy Class.

Su YouTube si legge un paradosso che potrebbe sembrare una barzelletta se non fosse vero:

“La nuova piattaforma di comunicazione e la brand campaign sono pensate per tutti quelli che «ricercano anche in viaggio l’esperienza in puro stile italiano», ha specificato nel corso della conferenza stampa di lancio Giovanni Perosino, Chief Marketing Officer di ITA Airways.”

L’ossimoro è che le nuove esperienze “in puro stile italiano” non riguardano la lingua, che viene invece sostituita dall’inglese e dall’inglesorum, con la stessa logica del latinorum manzoniano.

“La lingua è potere. Attraverso l’uso del linguaggio e la selezione delle parole è possibile controllare il destinatario, intimorirlo, porlo in uno stato di inferiorità psicologica e trasformare chi non è d’accordo in qualcuno che non ha capito” (incipit di Meglio l’italiano o l’itanglese? Linee guida sull’uso di anglicismi nella comunicazione trasparente, Mind, 2024).

Il protagonista di simili messaggi non è più il destinatario, ma il comunicatore, e “in questo modo il mittente si trasforma in colui che costruisce la realtà invece di esserne un osservatore e un testimone” (ivi, p. 15).

Bibliohub, bibliocard, biblioyoung e Nutella Plant-Based

Carla Crivello mi ha inoltrato alcune iniziative delle biblioteche di Roma che hanno avviato l’HUBLET, un “servizio di tablet self-service” accessibile tramite la bibliocard, per gli adulti, o la biblioyoung, per i bambini.
E non solo, è stato inaugurato anche BiblioHUB, un “punto di prestito di libri, ebooks scaricabili con QR code, vetrina di bookcrossing, hotspot wi-fi, internet point” che consiste in un “truck, una biblioteca mobile su ruote” con una “postazione multimediale di co-working”.

Marco Zomer mi segnala invece il nuovo prodotto dell’italianissima Ferrero, che la Wikipedia definisce “il terzo gruppo a livello mondiale nel mercato del chocolate confectionery” (come se l’espressione fosse in italiano), e che dopo essersi imposta con la celeberrima Nutella lancia ora una novità senza lattosio e adatta anche ai vegani, visto che è senza grassi animali. Il suo nome è Nutella Plant-Based.

Tutto chiaro? Davanti a questa denominazione Marco – agguerrito attivista dell’italiano – ha scritto la sua protesta e ha ricevuto questa risposta:

Con riferimento alla Sua segnalazione del 15-set-2024 La ringraziamo per aver portato a nostra conoscenza il Suo parere.
Ci dispiace apprendere che il nome del prodotto non sia risultato di Suo gradimento.
La sua opinione è molto importante per noi e Le assicuriamo che verrà presa in seria considerazione
Cordiali saluti
FERRERO COMMERCIALE ITALIA S.r.l.
Servizio Consumatori

Verso l’istituzionalizzazione dell’inglese

Intanto il governo spinge per affermare il primo “step” del “portafoglio digitale” con passaporto, carta d’identità e patente, che però si chiama IT Wallet, e il Corriere non riporta tra virgolette l’anglicismo, che è la denominazione ufficiale, ma la sua traduzione italiana, come fosse l’italiano l’uso improprio da marcare graficamente.

Mentre certi linguisti avulsi dalla realtà non riescono a vedere oltre i “prestiti linguistici” – che qualcuno vorrebbe suddividere tra quelli di lusso e di necessità – quello che sta accadendo è un fenomeno di ben altre proporzioni, un riversamento dell’inglese che come uno tsunami sta travolgendo l’italiano e lo cancella.

Le espressioni inglesi colonizzano il linguaggio in sempre più settori, dal lavoro all’informatica, dalla moda alle insegne dei negozi. Lo si vede in sempre più ambiti, anche quelli istituzionali, dalle poste alle ferrovie, dalla politica alla denominazione delle manifestazioni… e persino nei progetti per la diffusione delle nostre eccellenze – con la stessa (il)logica della comunicazione di Ita Airways – sono chiamati di volta in volta Very Bello, ItsArt, Open to meraviglia.

Mentre l’italiano si trasforma in itanglese, l’inglese nella sua interezza è spacciato come lingua superiore, prende piede come lingua di insegnamento delle università al posto della nostra lingua madre, diviene la lingua d’obbligo per presentare i progetti di ricerca italiani (i Prin e i Fis), è stato introdotto come requisito obbligatorio per i concorsi della pubblica amministrazione (riforma Madia), viene venduto come lingua della scienza e dell’Ue… e in fin dei conti la partita in gioco è quella di ufficializzarlo e di trasformarlo in requisito, in un progetto di creazione delle nuove generazioni bilingui a base inglese che renderanno l’italiano un dialetto di un mondo che pensa e parla nella lingua dei padroni.

Eppure l’inglese non è la mia lingua. E nemmeno quella degli italiani. Dovremmo gridarlo forte e difenderci dalla dittatura dell’inglese, prima che sia troppo tardi.

https://diciamoloinitaliano.wordpress.com/2024/09/16/linglese-non-e-la-mia-lingua/

#anglicismiIstituzionali #anglicismiNellItaliano #colonialismoLinguistico #inglese #interferenzaLinguistica #itanglese #linguaItaliana #paroleInglesiNellItaliano #rassegnaStampa

Di Antonio Zoppetti

Durante l’Occupazione, mille parole tedesche sono spuntate sui muri di Parigi e di altre città francesi. È iniziato qui il mio orrore per le lingue dominanti e l’amore per quelle che si volevano eradicare. Visto che oggi, in quegli stessi luoghi, conto più parole americane che non parole destinate ai nazisti all’epoca, cerco di difendere la lingua francese, che ormai è quella dei poveri e degli assoggettati. E constato che, di padre in figlio, i collaborazionisti di questa importazione si reclutano nella stessa classe, la cosiddetta élite.
(Michel Serres, Contro i bei tempi andati, Bollati Boringhieri, 2018).

Ogni volta che prendo un Frecciarossa vengo travolto da nuovi anglicismi imposti agli utenti in modo voluto e prepotente. I clienti, che un tempo per definizione avevano sempre ragione, si sono trasformati in utenti da manipolare; e la prima regola della comunicazione trasparente, che una volta presupponeva l’adozione di un linguaggio adatto e comprensibile per il destinatario, è stata sostituita dalle nuove prassi che impongono a tutti la lingua decisa dagli strateghi della comunicazione con il risultato che è il destinatario che deve per forza di cose assoggettarsi alla terminologia decisa dal mittente.

La lingua è potere. Attraverso le parole si può controllare il destinatario, intimidirlo, trasformare chi non è d’accordo in chi non ha capito, e soprattutto educarlo. La lingua della comunicazione pubblica, cittadina e istituzionale ci martella a suon di anglicismi in modo sistematico e ben preordinato. E la sensazione è davvero quella di vivere in un Paese occupato.

Cronaca di un viaggio nell’itanglese

Alle 9 esco di casa per raggiungere la stazione. Passo davanti all’insegna di un Italian Bakery aperto non da molto accanto all’Italian Hair Line. Si tratta banalmente di un fornaio e di un parrucchiere in un’area semiperiferica o semicentrale (dipende dai punti di vista) di Milano, in un quartiere popolare dove non ci sono turisti. Queste attività commerciali che si elevano attraverso l’inglese magari con il pretesto di voler essere internazionali hanno come clientela gli italiani che scendono nel negozio sotto casa, o se sono di passaggio sono attirati dalle pizzette nelle vetrine, ma dubito che mediamente sappiano cosa significhi “bakery”.

Alle 9 e 15 sono in metropolitana. A quell’ora l’affluenza è media, c’è persino qualche posto a sedere. Mi guardo intorno. Ci sono studenti, gente comune, e una buona fetta di “stranieri” di varia provenienza. Cinesi, ispanici, altri che parlano in qualche lingua che non identifico, e che dall’aspetto potrebbero essere arabi, rumeni, slavi… ma non vedo inglesi o americani. Eppure la comunicazione è bilingue a base inglese, nella cartellonistica e soprattutto negli annunci sonori. A ogni fermata l’inglese ti penetra come un mantra: prossima fermata Loreto, next stop Loreto
La porta della carrozza è interamente coperta da una pubblicità con scritte in inglese e, in piccolo, un motto italiano che specifica di cosa si stia parlando, ma anche la logica degli altri pannelli pubblicitari segue quasi sempre lo stesso andazzo.

Alle 9 e 30 attraverso il “gate” della stazione (a Milano non ci sono le porte, solo i gate), mi dirigo verso il mio binario e mi sento sollevato perché penso a come è bello che ci sia ancora il “binario”, anche se mi assale l’angoscia che la prossima volta a qualcuno sarà venuto in mente di chiamarlo tracks o alla peggio binary, perché binario è un po’ troppo italiano. Su Italo hanno già sostituito ufficialmente il “capotreno” con il train manager, nella comunicazione ai passeggeri e anche nei contratti di lavoro.
Intanto devo preoccuparmi di fare il “Self Check In” del mio “ticketless”, perché le Ferrovie hanno deciso che la “convalida” “del “biglietto digitale” si debba chiamare in inglese. È la globalizzazione bellezza! È la nuova terminologia imposta alla gente, e se qualcuno si perde e non capisce, il personale gli spiega tutto nella terminologia che hanno deciso gli strateghi della “comunication”. Cartellonistica e annunci sono solo in italiano e inglese. Il mantra dell’inglese sonoro, come nella metropolitana, ritorna ad anglificare la mente e il cuore dei passeggeri. Un tempo c’erano i corsi di lingua da apprendere durante il sonno, adesso lo si può fare anche nel dormiveglia in treno, il corso d’inglese è compreso nel prezzo del biglietto. Il plurilinguismo non esiste, è stato cancellato.
Guardo i nuovi schermi informativi in italiano-itanglese o inglese, e ripenso ai vecchi cartellini che invitavano a non sporgersi dai finestrini, a non gettare oggetti e a non fumare in quattro lingue: italiano, inglese, francese e tedesco. Oggi le altre lingue sono state buttate via. Che gli stranieri imparino l’inglese, e se no, si arrangino. L’inglese è la nuova lingua da imporre. Punto. Lo si fa nella sua interezza come lingua “internazionale” della comunicazione cittadina e ferroviaria, e attraverso gli anglicismi che vengono introdotti in italiano al posto delle nostre parole storiche.

Un annuncio spiega che per ogni reclamo è possibile usare il “webform” sul sito Trenitalia oppure il modulo cartaceo. “Webform” è il nuovo anglicismo introdotto, o forse sono io che non l’avevo mai sentito declamare prima, comunque sia fa parte ormai della terminologia ufficiale della colonia Italia. Mi domando perché un modulo digitale sia indicato come webform mentre se la stessa cosa è cartacea diventa “modulo”. La risposta è che tutto ciò che è nuovo o riguarda l’informatica viene riproposto in inglese: “webform” è ripetuto anche nella traduzione in inglese, e arriva da lì. Gli strateghi hanno pensato bene di introdurlo invece di tradurlo.

Due ore dopo il treno è in forte ritardo. Capisco che ho ormai perso la coincidenza che da Mestre mi dovrebbe portare a Pordenone. La gente è spazientita. Arriva l’annuncio ufficiale e rimango incredulo di fronte a quelle parole, soprattutto quando vengo informato anche attraverso un messaggino:

“A causa di un guasto … il tempo di viaggio del treno Frecciarossa XXX è superiore di circa 30 minuti rispetto al programmato … Distinti saluti, Customer care…”

Nulla è lasciato al caso. Gli strateghi della comunicazione devono aver pensato di eliminare la parola “ritardo” che probabilmente suscita “vibrazioni negative” per l’azienda (e incentivano la richiesta dei rimborsi), dunque preferiscono usare la locuzione manipolatoria “il tempo di viaggio è superiore di 30 minuti”. Nove parole contro una: ri-tar-do. In compenso non si firmano Assistenza clienti, ma Customer Care, e in questo modo la presa per il culo del passeggero è conclusa. Gli strateghi della comunicazione – gli stessi che magari sono pronti a spiegarci che il ricorso all’inglese è motivato anche al fatto che gli anglicismi sono più sintetici rispetto all’italiano – hanno le idee chiare: la sinteticità è un valore solo per giustificare gli anglicismi, ma se si deve occultare il ritardo qualunque cosa va bene.

La lingua è un fiume che va dove vuole?

Qualche ora dopo sono finalmente al mio dibattito su dove sta andando la lingua italiana. Il mio interlocutore è un convinto seguace del “liberismo” linguistico, sostiene che la lingua è un fiume che va dove vuole, non è possibile controllarla.

Chiedo: ma “la lingua è un fiume che va dove vuole chi?”. La gente e il popolo? Mi pare che vada dove vuole chi è nelle condizioni di imporla al popolino a cui non resta che ripetere self check in e gli altri 4000 anglicismi che ci arrivano prevalentemente dall’alto, dall’espansione delle multinazionali e della loro lingua, dalla nuova cultura coloniale dove sembra esserci solo l’inglese e dai collaborazionisti dell’inglese che si annidano proprio nelle élite. Il punto è che l’acqua “va dove vuole” nella natura selvaggia, altrimenti viene incanalata per farla scorrere sotto i ponti delle città, nei sistemi di irrigazione, mentre si costruiscono gli argini proprio per orientarne i flussi, e quando le acque tracimano è perché è mancata la manutenzione, sono stati trascurati o fatti male.

L’idea che orientare la lingua sia un’imposizione autoritaria è tipica italiana, perché prevale lo stereotipo che l’unico modello di politica linguistica a cui guardare sia quello del fascismo. Mi viene fatto notare che anche se da un punto di vista razionale una parola come “covid” che indica una malattia, e non un virus (il coronavirus), dovrebbe essere femminile, e nonostante inizialmente l’allora presidente della Crusca avesse consigliato di usare il genere più appropriato, nell’uso si è imposto il maschile. Questa non è però la prova dell’ingovernabilità della lingua, ma del fatto che da noi mancano delle istituzioni che la regolamentino in modo ufficiale. Infatti anche in Francia si è posta la questione, e il giorno dopo che l’Accademia francese ha spiegato la correttezza del femminile, tutti si sono adeguati e hanno scritto così, non perché l’accademia sia un organo che obbliga la gente a parlare in un certo modo, tutto il contrario: la gente – e i giornali – riconoscono questo ruolo di consulenza che accettano e seguono, contenti che esistano delle prescrizioni e delle uniformazioni su cui modellarsi. Da noi questo ruolo appartiene ai mezzi di informazione che si muovono in modo caotico, istintivo e spesso pasticciato (oltre a preferire l’inglese). C’è insomma una bella differenza tra autoritarismo e autorevolezza, tra imposizione forzata e spontaneo riconoscimento di un punto di riferimento normativo necessario per conservare l’integrità e l’identità linguistica.

E allora è più sensato seguire l’autorevolezza di un’accademia o lasciare che la lingua la facciano i giornali o le ferrovie? Se questi ultimi introducono l’inglese al posto dell’italiano non è anche questa un’imposizione?

Mentre nell’italietta provinciale pensiamo che lo tsunami anglicus sia inarginabile, all’estero gli argini si costruiscono e funzionano, magari non sempre, ma complessivamente l’anglicizzazione del francese o dello spagnolo non è certo paragonabile alla nostra. Il liberismo linguistico, che io chiamo invece anarchismo metodologico, presuppone che sulla lingua non si debba intervenire, il che è una presa di posizione politica (più che linguistica) comprensibile ma anche discutibile. Per giustificarla si dice che tanto non è possibile imporre alla gente come parlare. Ma basta prendere un Frecciarossa per constatare che non è affatto così. La verità è che la lingua è un meccanismo di imitazione per cui la gente segue i modelli che arrivano dai centri di irradiazione linguistici, e questi ci stanno presentando un ben preciso modello di newlingua che di liberale non ha proprio nulla. Vige la legge del più forte, e non voler tutelare l’italiano davanti alla glottofagia dell’inglese significa essere complici della sua distruzione, che qualcuno scambia per una “normale” evoluzione e pensa pure che arrivi dal basso, come se l’attuale “dittatura dell’inglese” fosse qualcosa di “democratico”.

A me pare invece che siamo in presenza di un cambio di paradigma conflittuale dove una minoranza di collaborazionisti che occupano i centri di irradiazione della lingua – dalle istituzioni ai mezzi di informazione – sta educando le masse e imponendo la lingua dei padroni. A questo modello dominante bisognerebbe contrapporne un altro, che purtroppo non si vede tra gli intellettuali, ma è invece presente e sentito in larghe fasce della popolazione che non ne possono più degli anglicismi e si trovano tagliate fuori.

https://diciamoloinitaliano.wordpress.com/2024/03/25/limposizione-manipolatoria-dellinglese-nella-comunicazione-pubblica/

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