Trump ufficializza l’inglese negli Usa e rompe con l’Europa a cui il globish non conviene affatto
Di Antonio Zoppetti
Sabato scorso Trump ha firmato un ordine esecutivo che, a 250 anni dalla dichiarazione di indipendenza, ufficializza l’inglese come lingua degli Stati Uniti. Anche se alcuni singoli Stati lo avevano già fatto, la questione non era mai stata regolamentata a livello federale. L’inglese è sempre stato la lingua di fatto della maggioranza degli statunitensi – tre quarti della popolazione parla e conosce solo quella – ma ci sono enormi sacche di cittadini che non la parlano affatto tra le mure domestiche, per esempio almeno un milione di cinesi, ma soprattutto un numero altissimo di ispanici.
Nel 2004, il politico statunitense Samuel Huntington rilevava che su 340 milioni di cittadini più di 28 milioni parlavano lo spagnolo nelle loro case e di questi ben 13,8 milioni non padroneggiavano troppo l’inglese (“El reto hispano a EEUU”, Foreign Policy, Edicion española, aprile-maggio 2004, pp. 20-35). Dopo aver analizzato la fortissima espansione delle comunità ispaniche degli ultimi decenni, l’autore aggiungeva che “per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, sempre più cittadini, soprattutto neri, non riescono a trovare lavoro o ottenere i compensi sperati a causa del fatto che parlano solo inglese”. E concludeva che, se l’espansione spagnola continuerà con questi ritmi, nel 2050 rappresenterà un quarto della popolazione, e tutto ciò avrà serie implicazioni per la politica e il governo, visto l’incremento demografico e il continuo flusso dei migranti provenienti dall’America centrale e caraibica.
Nel frattempo, secondo i nuovi dati 2023 del Census Bureau, le persone che parlano spagnolo in famiglia sono diventate circa 43 milioni, con una distribuzione non omogenea, visto che nel territorio statunitense di Porto Rico la percentuale degli ispanofoni è del 94%.
La decisione di Trump si inserisce in questo contesto e punta a “promuovere l’unità del Paese” specificando che “è nell’interesse dell’America designare una – e una sola – lingua ufficiale” che “rende omaggio alla lunga tradizione dei cittadini americani multilingue che hanno imparato l’inglese e lo hanno trasmesso ai loro figli per le generazioni a venire”. La nota della Casa Bianca che accompagna il nuovo atto legislativo precisa che “nell’accogliere i nuovi americani, una politica volta a incoraggiare l’apprendimento e l’adozione della nostra lingua nazionale renderà gli Stati Uniti una casa condivisa e consentirà ai nuovi cittadini di realizzare il sogno americano“.
Questo provvedimento cancella un atto legislativo del 2000 firmato da Bill Clinton che – proprio partendo dal presupposto che l’inglese non era la lingua ufficiale – prevedeva che le agenzie federali fossero obbligate a fornire servizi pubblici anche in lingue diverse per garantire l’accesso alle informazioni per “le persone con una conoscenza limitata dell’inglese”. Dunque, con l’entrata in vigore della nuova legge non saranno più tenute a farlo (anche se non significa che non possano continuare a farlo), e questo provvedimento si inserisce in una più ampia politica rivolta contro gli immigrati anche dal punto di vista linguistico. Chi non conosce l’inglese si arrangi.
Anche in Italia l’ufficializzazione dell’italiano è stata sancita solo di recente, con una legge del 1999 (n. 482 del 15 dicembre, art.1 comma 1: “La lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano”) che ha però tutt’altro spirito, perché è volta a riconoscere e tutelare soprattutto le minoranze linguistiche presenti sul territorio più che l’idioma nazionale. E infatti – a parte il fatto che le istituzioni stanno introducendo sempre più anglicismi in modo ufficiale – dagli anni Duemila stiamo assistendo a un’ufficializzazione dell’inglese anche sul piano interno, non solo con l’introduzione del suo obbligo nelle scuole (un tempo si poteva scegliere una lingua straniera anche diversa), ma anche con l’obbligo di presentare in inglese – e non in italiano – le domande per ottenere fondi di ricerca per i progetti di rilevanza nazionale (Prin) o scientifici (Fis). E intanto anche le Università pubbliche stanno sopprimendo sempre più corsi in italiano per erogarli solo in lingua inglese. Eppure, a noi non conviene affatto adottare l’inglese per realizzare il sogno americano – per riprendere la nota della Casa Bianca – soprattutto davanti al nuovo scenario mondiale che si sta delineando nell’era di Trump.
La rottura con l’Europa, una creazione americana diventata scomoda
Trump ha apertamente dichiarato che l’Europa sarebbe nata per “fottere” gli americani ma che con il suo arrivo tutto ciò sarebbe cambiato.
La realtà è un’altra. Come ho ricostruito nel libro Lo tsunami degli anglicismi (GoWare 2023), l’Europa nasce soprattutto per le pressioni degli Stati Uniti nel solco del Piano Marshall, il colossale finanziamento per la ricostruzione dopo la Seconda guerra mondiale. Anche se sempre più spesso viene esaltato come un gesto “filantropico” da chi ha fatto dell’americanismo e del sogno americano la sua religione, i fondi erano esplicitamente legati alla costruzione di un’unione dei Paesi europei utile agli interessi economico-politici statunitensi, e i soldi erano vincolati non solo alla creazione di un nuovo enorme mercato per i prodotti statunitensi, ma anche a un’alleanza politica con la Casa Bianca in funzione anticomunista. E, a proposito dell’Italia, come ha scritto Stephen Gundle “non si faceva mistero che tale generosità sarebbe cessata nel caso in cui le elezioni fossero state vinte dalle sinistre” (I comunisti italiani tra Hollywood e Mosca, Giunti, Firenze 1995, p. 83). La nascita dell’Unione europea è dunque avvenuta in questa prospettiva, e un articolo del 2021 sull’Economist (The EU: Made in America) lo ammetteva lucidamente: “L’integrazione europea è un sottoprodotto della politica americana”.
Dal punto di vista militare, questo disegno comportava allo stesso tempo l’adesione alla Nato, inizialmente sorta come una coalizione militare da contrapporre al blocco comunista del Patto di Varsavia, che però è stato sciolto nel 1991 dopo la dissoluzione dell’Urss. Mentre c’era qualcuno che avrebbe voluto sciogliere anche la Nato, che non aveva più senso con la fine della logica dei due blocchi, il Patto Atlantico si è invece trasformato in un sistema di difesa a guida statunitense che – ancora una volta – perseguiva soprattutto gli interessi americani. E infatti, nella sua espansione, non si è affatto esteso verso Paesi africani o sudamericani ma si è spinto guarda caso verso la Russia fino a lambire l’Ucraina, che ha segnato il punto di rottura che è forse la vera ragione della guerra.
Chiarito che l’Europa è nata perché faceva comodo agli Usa, e che gli investimenti del Piano Marshall su tempi lunghi hanno fruttato agli Usa guadagni decuplicati sia sul piano economico sia su quello politico e sociale, la fortissima connessione America-Europa – che ha comportato soprattutto la nostra americanizzazione – pare che sia finita nel passaggio dall’amministrazione Biden a quella di Trump.
Nell’articolo del 2021 sull’Economist questa rottura era stata ben preconizzata: “I casi di competizione tra Europa e Stati Uniti” si leggeva “sono ancora rari, ma lo stanno diventando sempre meno. Un giorno, in futuro, l’America potrebbe arrivare a rimpiangere ciò che ha creato.”
Quel giorno pare sia arrivato. Uno dei più forti segnali di questo conflitto di interessi si è manifestato per esempio con una serie di restrizioni che l’Ue sta ponendo ai colossi americani di internet in nome della privacy. Le multinazionali statunitensi e la politica trumpiana mal digeriscono queste limitazioni alla loro espansione selvaggia e senza regole.
In questo momento non è chiaro se il secondo mandato di Trump sia uno sprazzo o una svolta epocale senza ritorno. Il XXII emendamento della Costituzione statunitense prevede che nessun presidente può aspirare a un terzo mandato, ma Trump ha già dichiarato che vorrebbe intervenire anche su questo aspetto. In alternativa, non mi stupirebbe se il prossimo candidato alla Casa Bianca fosse un personaggio come per esempio Elon Musk… Tutto lascia presagire che la rottura sia insanabile, ma chi vivrà vedrà. Sta di fatto che per il momento l’equilibrio mondiale è cambiato. E che dovremmo muoverci di conseguenza.
La fine della Nato e dell’Onu?
Trump non ha soltanto deciso di rompere i legami storici con l’Europa e di introdurre i dazi. Se fino all’altro giorno chi osava mettere in discussione la nostra convenienza ad aderire alla Nato veniva sepolto dalle critiche, oggi è lo stesso Trump che sta facendo saltare tutto. Vuole che i Paesi europei contribuiscano con il 5% del loro Pil (attualmente l’Italia spende ben meno del 2%) altrimenti non saranno difesi. Ma dietro queste dichiarazioni c’è la volontà di sciogliere la Nato e di fare in modo che l’Europa si doti del proprio sistema di difesa.
Tra le creature americane un tempo funzionali agli interessi statunitensi, ma da cui oggi Trump vuole svincolarsi, non c’è solo l’Europa, ma ogni altro ente internazionale che possa limitare lo strapotere americano a partire dall’Onu. Se un tempo era un organo voluto dagli Usa e che faceva loro comodo fino a quando lo controllavano, oggi si sta trasformando in un ostacolo, visto che sanziona soprattutto le malefatte dei cosiddetti Paesi occidentali.
La politica di Trump sembra dunque volta a costruire un nuovo ordine mondiale che rompe gli schemi delle alleanze dal dopoguerra sino alla guerra in Ucraina. E anche quest’ultimo fatto è significativo. Se fino a ieri chi sosteneva che fosse una guerra di procura tra Usa e Russia veniva ostracizzato, è proprio Trump che ci fa capire che è andata esattamente così, come sosteneva da sempre l’insultatissimo Alessandro Orsini, ma anche papa Francesco, quando dichiarava che il conflitto era dovuto all’”abbaiare della Nato alle porte della Russia”.
E come sta andando a finire, infatti? Che l’attuale trattativa di pace – o di resa – sta avvenendo tra i veri protagonisti e cioè Trump e Putin con esclusione degli stessi ucraini e anche dell’Europa. Le parole di Trump sono state chiare: l’Ucraina si scordi di entrare nella Nato (la ragione principale della guerra); se vuole entrare in Europa chissenefrega, ma che ci pensino gli europei a difenderla dalla Russia.
La guerra in Ucraina sembra destinata a finire con una spartizione del territorio da parte dei protagonisti che trovano finalmente il loro accordo sulla pelle degli ucraini: Putin si prende le regioni che gli fanno comodo, gli Usa si prendono i diritti di sfruttamento delle terre rare, e – come chiosava Crozza – all’Europa non resta che prendersi le macerie di un Paese distrutto.
L’unico elemento positivo – rispetto alla politica di Biden – è che la nuova alleanza tra Usa e Russia sembra aver scongiurato una terza guerra mondiale che abbiamo sfiorato. Ma il “pacifismo” trumpiano ha dei risvolti inquietanti.
La faccia triste – ma più vera – dell’America
Qualche giorno fa, un giornalista anglomane come Federico Rampini, disperato davanti alla svolta americana, notava che sta avvenendo esattamente quello che chiedevano gli antiamericanisti degli anni Settanta che gridavano nei cortei “Yankee go home” e denunciavano la politica degli Stati Uniti che appoggiava e finanziava le dittature sudamericane per paura nascesse qualche nuova Cuba alle loro porte. Ma le cose sono un po’ diverse, perché criticare l’aggressiva politica statunitense non significa affatto essere “antiamericani”, e trasformare chi non è d’accordo in qualcuno che è “anti” nasce dalla visione ideologizzata di chi ha sempre fatto dell’americanismo la propria religione. Soprattutto, la svolta di Trump non rappresenta affatto la fine dell’imperialismo e del neocolonialismo mascherati, tutt’altro, rafforza lo stesso disegno con nuove modalità ancora più agghiaccianti. Il vero cambiamento sta nell’aver gettato la maschera per esplicitare lo stesso progetto politico senza più alibi. Non bisogna dimenticare che il Paese che si presenta agli occhi del mondo come l’incarnazione più sublime della democrazia, è lo stesso Paese che negli anni Cinquanta ha dato vita alla caccia alle streghe del maccartismo, negli anni Settanta è stato protagonista della guerra del Vietnam, negli anni Duemila ha inventato prove false – le presunte e inesistenti armi di distruzione di massa – per invadere l’Iraq, ma la lista di simili nefandezze è infinita. Ogni volta, tuttavia, la forma veniva ipocritamente rispettata attraverso una serie di alibi e giustificazioni sbandierate per salvare la faccia e lo stato di diritto.
Trump, in modo ben più sincero ma allo stesso tempo preoccupante, sta mostrando la faccia triste – ma più vera – dell’America, e dunque senza alcuna remora annuncia che il Golfo del Messico si chiamerà Golfo d’America (e GoogleMpas obbedisce e aggiunge la nuova nomenclatura anche in Italia), mentre vorrebbe annettere il Canada, impossessarsi della Groenlandia e del canale di Panama, oltre alla questione delle terre rare ucraine e la trasformazione di Gaza in un villaggio turistico per milionari. Far saltare l’Europa, la Nato e l’Onu non è affatto la rinuncia al controllo mondiale, è al contrario alzare l’asticella. Sta emergendo una plutocrazia capitalistico-tecnologica globale basata sul profitto più che sul diritto, dove l’Europa, da provincia dell’impero a stelle e strisce si è trasformata in un ostacolo e dunque è più conveniente stingere alleanze con Putin, per staccarlo dalla Cina, e offrire la cittadinanza americana in vendita a 5 milioni di dollari anche agli oligarchi russi (una boutade inapplicabile ma significativa), che in fin dei conti non sono poi così diversi dagli oligarchi statunitensi che fanno a gara per dimostrare la loro trumpianità.
Davanti a tutto ciò vogliamo continuare a fare gli americanisti? All’Europa creata dagli Usa e oggi abbandonata non resta che prendere atto del nuovo ordine mondiale. O si unisce e diventa davvero autonoma – ma i segnali che si vedono vanno nella direzione opposta – o si sfalda.
È arrivato il momento di mettere in discussione anche il globish
Nel nuovo scenario mondiale che si sta delineando, gli Stati Uniti non sono più un nostro alleato. Dovremmo cominciare a prenderne atto non solo da un punto di vista politico, militare ed economico, e dovremmo finalmente porre sul tavolo anche la questione della lingua. Ha senso che l’Europa continui a puntare e a investire sull’inglese? Ci conviene ancora? (a dire il vero non ci conveniva neanche prima).
Tra le risposte ai dazi americani che ci metteranno in ginocchio non c’è solo la possibilità dei contro-dazi europei né l’apertura ad altri mercati internazionali come quello della Cina (ma la nuova via della seta abbozzata qualche hanno fa è stata poi ridimensionata proprio per compiacere gli Usa). Nel pacchetto dovremmo mettere in discussione anche il ruolo dell’inglese come lingua internazionale, e visto che gli Usa non sono più alleati e che il Regno Unito è fuori dall’Europa non ha alcun senso continuare a investire sul globalese e farlo diventare la lingua dell’Europa, perché questo progetto ha dei risvolti economici incalcolabili per gli Usa. I cinesi – il vero nemico economico degli Usa – lo hanno capito, e siccome non sono deficienti hanno smesso di investire sull’inglese e puntano sulla propria lingua.
La lingua rappresenta uno degli assi strategici dell’economia statunitense. E il fatto che Trump abbia ufficializzato l’inglese sul piano interno lo dimostra. Vogliamo anche noi istituzionalizzare l’inglese come lingua unica inseguendo il sogno americano o vogliamo fare i nostri interessi? Vogliamo continuare a essere americanisti e fare il gioco di Musk e Trump? Vogliamo continuare ad anglificare le università per favorire la fuga di cervelli che andranno a lavorare negli Usa dove creeranno ricchezza mentre le spese della loro formazione sono a nostro carico? Vogliamo continuare a considerare l’inglese la lingua superiore e ad anglicizzare gli idiomi locali favorendo la nascita di itanglese, franglese, spanglish e Denglisch?
Chissà se prima o poi qualche intellettuale aprirà gli occhi e, prima che sia troppo tardi, capirà che la questione della lingua è un fattore politico di importanza fondamentale. Per il momento, nel silenzio e nel vuoto, le voci che si elevano sono ben poche. Tra queste c’è quella di Piero Bevilacqua, che nel suo ultimo libro (La guerra mondiale a pezzi e la disfatta dell’Unione europea, Castelvecchi, 2025) scrive: “Gli Stati Uniti sono un grande Paese, dotato di un ricco patrimonio culturale e scientifico, ma dovrebbe essere evidente da tempo che l’americanismo costituisce un gigantesco processo di colonizzazione culturale e politica”. Sul Fatto quotidiano (Giorgio Valentini, “Un nuovo linguaggio per liberare l’Europa dallo strapotere Usa”, 1/3/25) il giornalista ne riassume qualche posizione che voglio riprendere:
«“Il linguaggio deve essere dunque interpretato come una leva non solo per ricostruire un’identità nazionale in via di dissoluzione, ma anche per ridare il nerbo necessario e uno strumento comunicativo a una nuova progettualità politica”. È proprio da qui che può partire un’emancipazione dell’Unione europea dall’America, sul piano politico, economico e militare, al di là della tradizionale alleanza atlantica. “Occorre riesaminare le culture che letteralmente ci dominano – avverte lo storico – per trovare nuove parole o recuperarne di antiche che definiscano il futuro possibile”. E conclude: “La lingua è infatti un veicolo di dominio e al tempo stesso di liberazione”».
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