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Sulla parola “genocidio” e sui genocidi linguistici

Di Antonio Zoppetti

Dietro certe parole non c’è la semplice descrizione della realtà, bensì la sua costruzione e la sua interpretazione, che non è mai neutra, è sempre un atto politico. Anche se non è vero che ne uccide più la lingua (o la penna) che la spada, fuor di metafora ci sono parole che possiedono una connotazione e una capacità evocativa dirompenti. “Genocidio”, per esempio, si carica di una valenza così insopportabile da apparire più importante dei crimini e delle atrocità che descrive, dunque, di fronte a quanto sta succedendo a Gaza è in corso un acceso dibattito per stabilire se tanta inumanità possa essere definita “genocidio” o un “semplice” crimine di guerra, un “normale” sterminio ponderato dei civili come tanti altri.

Alcuni personaggi, per esempio Paolo Mieli (“Mi rifiuto di parlare di genocidio”), Italo Bocchino (“bisogna stare attenti a usare la parola genocidio”, “è una parola sbagliata”) e tanti altri dimostrano una certa ossessione nel negare, e reagiscono ogni volta con veemenza, mentre sul fronte opposto genocidio viene di solito sbandierato e messo in risalto in una polemica senza soluzioni davanti alla quale ogni presentatore televisivo tende ormai a evitare di ricorrere a una parola impronunciabile e divisiva, per non aprire “quella porta” e passare ai fatti.

Davanti ai massacri, davanti alla sistematica distruzione di case, ospedali e infrastrutture, davanti alla strategia di ridurre la popolazione alla fame e di provocare una pianificata carestia con tanto di tiro al piccione per uccidere chi è in fila per un tozzo di pane distribuito a singhiozzo e controllato dagli israeliani… la questione ha assunto dunque un’enorme rilevanza.

Genocidio: sì o no? Il tormentone non è né nuovo né meramente linguistico

Colpisce che in questo animato dibattito i linguisti rimangano in disparte, mediamente, e che per esempio tra le consulenze della Crusca che rispondono ai quesiti dei lettori e ragionano sull’appropriatezza delle parole e sul loro uso, non ci sia una presa di posizione in merito, al contrario di ciò che avviene per altre questioni spinose e tutte politiche, prima che linguistiche, dalla legittimazione di certi anglicismi alle prese di posizione ufficiali sulla femminilizzazione delle cariche.

C’è poi un altro fatto che stupisce. Sembra che nessuno si accorga che le polemiche sulla legittimità di un’etichetta infamante come “genocidio” non sia affatto una novità che emerge oggi a proposito di Israele, ma è un tormentone che riaffiora ogni volta che simili crimini si manifestano.

Anche se certi personaggi dalla memoria di un pesce rosso fanno finta di non ricordarselo, basta scorrere gli archivi storici dei giornali per constatarlo: e già ai tempi del massacro dei Tutsi sulle pagine dei giornali si dibatteva sulla questione e uscivano articoli intitolati “Non chiamatelo genocidio” come predicava il democratico Bill Clinton arrampicandosi sui vetri come fanno oggi Mieli, Bocchino e gli altri.

L’unica cosa certa è come andata a finire: oggi questi massacri sono stati riconosciuti ufficialmente dalla Corte internazionale di giustizia come genocidi – con buona pace dei negazionisti – esattamente come sta accadendo con Gaza: la Commissione internazionale indipendente d’inchiesta delle Nazioni Unite ha concluso che Israele ha commesso ben quattro violazioni della Convenzione sul genocidio.

In queste diatribe è però indispensabile fare un distinguo tra l’accezione tecnica, giuridica e in fondo terminologica di “genocidio” e la sua portata in senso lato che circola nella lingua comune, visto che la lingua è metafora. E ripercorrere la storia della parola aiuta a comprendere come stanno veramente le cose.

Genocidio: etimo e significato

“Genocidio” è un concetto proposto dal giurista ebreo polacco Raphael Lemkin, nel 1944, davanti ai crimini del nazismo, ma in seguito dichiarò che l’idea di coniare quella parola nasceva dallo sterminio degli armeni da parte dell’Impero Ottomano avvenuto all’inizio del secolo. In un articolo del 1945 spiegava che gli orrori dell’olocausto erano in fine dei conti l’incarnazione organizzata più eclatante – nelle modalità di attuazione – di qualcosa di più ampio del contesto storico di allora. E precisava:

“Il crimine del Reich nello sterminare volutamente e deliberatamente interi popoli non è del tutto nuovo nel mondo. È nuovo solo nel mondo civilizzato che siamo giunti a concepire (…). È per questo motivo che mi sono preso la libertà d’inventare la parola ‘genocidio’. Questo termine deriva dalla parola greca ghénos, che significa tribù o razza, e dal latino caedo, che significa uccidere. Il genocidio deve tragicamente trovare posto nel dizionario del futuro accanto ad altre parole tragiche come omicidio e infanticidio. Come suggerito da Von Rundstedt, il termine non significa necessariamente uccisione di massa, ma questa può essere una delle sue accezioni. Più spesso, si riferisce a un piano coordinato volto alla distruzione delle fondamenta essenziali della vita dei gruppi nazionali, affinché tali gruppi avvizziscano e muoiano come piante colpite dalla ruggine.”

Il genocidio nel diritto internazionale

La parola è stata così accolta e ripresa nel 1946 durante il processo di Norimberga contro i crimini del nazismo e due anni dopo l’Onu ha dichiarato il genocidio un reato. Anche se per condannare qualcuno per un crimine è necessario avere parametri oggettivi con cui valutarlo, la definizione giuridica di genocidio dell’Onu del 1948 si presta comunque a diverse interpretazioni, dunque il riconoscimento ufficiale del genocidio è avvenuto per esempio nel caso dello sterminio degli Armeni o, in tempi più recenti, nei massacri etnici avvenuti in Ruanda negli anni Novanta. Ma non tutti sono concordi nel riconoscere certe sentenze, e ancora oggi la Turchia nega il genocidio armeno, non solo per motivi etici e di immagine, ma soprattutto perché sotto la questione legale si celano enormi interessi economici, a partire dalla restituzione dei beni espropriati agli armeni che rappresenta una voce enorme per l’economia turca.

I risvolti economici, per Israele, sono anche maggiori. C’è il disegno di radere al suolo Gaza per ricostruirla come un lussuoso villaggio turistico che prevede una sorta di sostituzione etnica con incentivi (ti pago e te ne vai via dalla tua terra). C’è l’appropriazione di terre ricchissime di risorse da sfruttare e c’è anche la questione dei territori occupati illegalmente nella Cisgiordania. Trasformare il genocidio in una semplice guerra che basta vincere in qualche modo (anche se gli israeliani non hanno alcun esercito contro cui combattere, e a parte qualche sporadica incursione di Hamas stanno operando contro i civili e le loro abitazioni) è fondamentale per questo progetto. Ed è poi essenziale anche dal punto di vista del diritto internazionale, sia per evitare l’arresto di Netanyau per il suo crimine (ma il problema non è solo Netanyau, c’è un intero sistema che lo sostiene) sia per non coinvolgere l’Occidente suo alleato – Europa e Italia inclusi – che invece di applicare sanzioni come nel caso di Putin, si limita a condannarlo a parole – come un “camerata che sbaglia” si potrebbe parafrasare provocatoriamente – e con cui non si smette di fare affari soprattutto nella compravendita di armamenti.

Mentre su piano giuridico e in un certo senso terminologico saranno la storia e le sentenze a decretare se tutto ciò sia o meno genocidio, se si passa alla lingua comune le cose sono più semplici, ed è più difficile negare.

Il genocidio nella lingua comune

Sono stati effettuati vari sondaggi in cui si chiedeva agli italiani – dunque al popolo e alle masse – se consideravano genocidio il massacro dei palestinesi, e per la maggioranza la risposta è stata sì, una convinzione che aumenta di giorno in giorno davanti ai fatti sotto gli occhi di tutti. Visto che certi linguisti e lessicografi che si pongono come “descrittivisti” si riempiono la bocca di sciocchezze per cui la lingua arriverebbe dal basso, seguendo il loro criterio si dovrebbe affermare che Israele si sta macchiando di genocidio, se è l’uso che fa la lingua. Ma si sa che questa presunta “democrazia linguistica” viene invocata solo quando fa comodo; in altri casi si cambia casacca e si può sempre dire, come fanno i negazionisti, che la gente non sa che cosa significhi questa parola, dunque parla a vanvera e non fa testo.

Se però si analizza la letteratura alla ricerca dell’uso della parola genocidio fuor da Gaza, le cose cambiano. Questo vocabolo è frequente per descrivere per esempio lo sterminio dei Catari e degli Albigesi agli inizi del Duecento attraverso una campagna militare durata vent’anni orchestrata dal Re di Francia e da papa Innocenzo III che li aveva bollati come eretici. Si ritrova nel caso del genocidio dei nativi americani, numericamente più consistente di quello dell’olocausto. In questo caso lo sterminio delle popolazioni non è avvenuto solo intenzionalmente attraverso i massacri e il confinamento dei nativi nelle “riserve” che di anno in anno si rimpicciolivano fino a soffocarli. Il numero maggiore di morti è stato causato involontariamente attraverso le malattie che gli europei hanno portato, e che risultavano mortali in quelle popolazioni senza anticorpi davanti alle nostre epidemie. Eppure nessuno si sogna, in casi del genere, di mettere in discussione la parola, nessuno è interessato a cavillare per concludere che quello dei nativi americani o dei catari non era proprio un genocidio ma qualcos’altro. Perché fuori dai tecnicismi giuridici che tagliano fuori i non addetti ai lavori “incompetenti” la parola genocidio coniata da Lemkin è entrata nella lingua comune e nei vocabolari – come da lui auspicato – per esprimere un concetto intuitivo e macroscopico che non ha alcun bisogno di basarsi sulle definizioni giuridiche (peraltro controverse).

Genocidi culturali e linguistici

Ogni genocidio non comporta solo il tentativo di cancellare gli individui di una popolazione, ma coinvolge inevitabilmente la loro stessa cultura e dunque spesso anche la loro lingua. Il genocidio di Albigesi e Catari protetti dai signori della Provenza, per esempio, ha determinato anche la fine della poesia provenzale nella lingua d’oc. Questi poeti sono fuggiti in una diaspora che li ha portati in Spagna, in Italia e altrove, mentre l’annessione del territorio alla Francia ha introdotto ufficialmente l’antico francese – la lingua d’oïl – anche lì.

Uno dei primi a utilizzate la parola in senso lato e a legarla alle questioni linguistiche parlando esplicitamente di “genocidio culturale” o “linguistico”, è stato Pasolini, che negli anni Sessanta, davanti alla compiuta unificazione dell’italiano, notava che il prezzo era un certo “genocidio culturale, dove tutti parlano e consumano allo stesso modo, un genocidio che coinvolge anche i dialetti che vengono rinnegati e ridotti a ‘codici residuali’ marginali”. E su questo uso metaforico di genocidio era tornato anche nel 1974 nell’ultimo suo intervento pubblico prima di venire assassinato. Ma il riferimento al genocidio linguistico si trova in tantissimi autori, soprattutto a proposito dell’estinzione delle lingue in Africa – denunciata con preoccupazione anche dall’Unesco – e il linguista tunisino Claude Hagège rilevava come la distruzione delle culture può avvenire attraverso un genocidio fisico ma anche in altre forme che non prevedono il massacro di una popolazione. Tra i fattori determinanti di questo enorme genocidio linguistico riconosceva all’espansione dell’inglese globale un “ruolo di primo piano” (Morte e rinascita delle lingue. Diversità linguistica come patrimonio dell’umanità, Feltrinelli, Milano 2002, p. 99). Ma anche la ricercatrice finlandese Tove Skutnabb-Kangas tacciava l’Occidente di “linguicismo”: come il razzismo e l’etnicismo discriminano sulla base delle differenze biologiche oppure etnico-culturali, il linguicismo discrimina in base alla lingua madre e determina giudizi sulla competenza o non competenza dei cittadini nelle lingue ufficiali o internazionali, mentre il monolinguismo a base inglese era per lei un “cancro” a cui andrebbe contrapposto il riconoscimento dei diritti linguistici e del pluralismo, se non vogliamo essere complici del genocidio linguistico e culturale nel mondo (“I diritti umani e le ingiustizie linguistiche. Un futuro per la diversità? Teorie, esperienze e strumenti”, in Come si e ristretto il mondo, a cura di Francesco Susi, Amando Editore, Roma 1999, p. 99).

Un effetto collaterale del genocidio palestinese è proprio quello di consolidare e di allargare l’espansione dell’inglese globale, che nessuno in questo momento denuncia, di certo perché ci sono da denunciare cose ben più gravi, ma anche perché in Italia (e non solo da noi) non c’è alcuna sensibilità sulla questione. Quale lingua si parlerà in una futura Gaza ricostruita e concepita come un resort da cui i palestinesi sembrano esclusi? Perché sulla stampa la città di Gaza è diventata Gaza city? Perché c’è chi preferisce parlare di West Bank invece che di Cisgiordania? Come mai sui giornali italiani ricorre solo la sigla Idf (cioè Israel Defense Forces pronunciato in tv all’inglese “AI-DI-EF”) mentre su quelli francesi e spagnoli si usa prevalentemente la propria lingua e si parla della difesa israeliana senza ricorrere all’inglese?

Mentre si consumano le baruffe sull’opportunità di parlare di genocidio palestinese, davanti al genocidio culturale e linguistico provocato dal globalese in tutto il mondo non c’è alcuna preoccupazione. Eppure, se dietro certe parole non c’è la semplice descrizione della realtà, bensì la sua costruzione e la sua interpretazione, anche le scelte lessicali che si appoggiano all’inglese non sono neutrali. Sono anche queste un atto politico e non dovremmo dimenticarcene: l’inglese è la lingua di classe dei popoli dominanti che la stanno imponendo a quelli sottomessi, anche se su questo caso nessuno sembra intenzionato a fare la resistenza. Nemmeno i cosiddetti “propal” che nelle piazze gridano “fri palestàin” come se l’inglese (di Trump e di Netanyau) fosse la lingua di tutti. Invece, per non essere complici dell’attuale genocidio linguistico farebbero meglio a gridare “Palestina libera” in tutte le lingue del mondo.

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Mattarella, l’intelligenza artificiale e l’inglese

Di Antonio Zoppetti

Giovedì scorso il presidente della Repubblica Mattarella ha evocato il rischio dell’impoverimento dell’italiano davanti all’intelligenza artificiale che rappresenterebbe un pericolo anche per il plurilinguismo in Europa. Lo ha fatto in un messaggio inviato al presidente della Comunità radiotelevisiva italofona, un’associazione per la valorizzazione della nostra lingua e cultura nata nel 1985 da un accordo della Rai con altre emittenti italofone in Svizzera, Vaticano, San Marino e Capodistria.

Il progetto – ha dichiarato – “è prezioso in questa stagione in cui la lingua spinta all’omologazione e all’impoverimento operato attraverso i processi di semplificazione dei media digitali, tende a ridurre la ricchezza del lessico. Le comunità italofone presenti nei diversi Paesi rappresentano vivai fecondi di moltiplicazione degli stimoli culturali della civiltà italica.”

Il discorso – finalmente – parla esplicitamente del nostro “patrimonio lessicale”, oltre che culturale, e della nostra “cifra identitaria che, in tempi di intensi scambi tra le persone e i popoli, agisce da strumento d’inclusione, di apertura, di offerta di sé al mondo intero.” La lingua, infatti, “è anche strumento di libertà e di emancipazione: l’esclusione nasce dalla povertà delle capacità di esprimersi, dei patrimoni lessicali. La sudditanza si alimenta della cancellazione delle parole e con la sostituzione di esse con quelle del dispotismo di turno”. Dunque, “va evitato il rischio, che si potrebbe fare ancora più alto con l’avvento dell’intelligenza artificiale, di diminuire il pluralismo linguistico, con il conseguente depauperamento del patrimonio culturale che gli idiomi veicolano, a favore di neo linguaggi con vocazione esclusivamente funzionale alla mera operatività digitale”.

Siamo sudditi del dispotismo di chi?

Ma siamo sicuri che la “sudditanza” e il “dispotismo di turno” siano incarnati dagli algoritmi dell’IA? Mi pare che si confondano le cause con gli effetti, perché l’intelligenza artificiale applicata al linguaggio è solo lo specchio e la riproduzione dell’intelligenza – ma a volte della stupidità – naturale degli uomini. In altri termini, dietro le frasi-minestrone generate automaticamente c’è solo la ripetizione meccanica degli schemi utilizzati da miliardi di scriventi naturali e delle frequenze delle successioni delle parole, e come ha ricordato su la Repubblica Stefano Bartezzaghi “l’intelligenza artificiale generativa ha rinunciato definitivamente a capirci e ha deciso di considerarci prevedibili”.

I testi generati automaticamente, insomma, sono la reale espressione dell’uso impiegato dagli esseri umani sui giornali, in rete, nelle chat… e nei fantastiliardi di scritti presi come modello. Per l’IA l’uso è ricavato statisticamente da ciò che macina, indipendentemente dallo stile, dall’eleganza, dalla sensatezza e talvolta anche degli strafalcioni. E indipendentemente anche dal fatto che certe parole siano in inglese invece che in italiano. L’intelligenza artificiale opera secondo gli schemi dei linguisti descrittivisti che sostengono che “l’uso fa la lingua” e dichiarano “italiane” anche le parole inglesi – da chat a computer – solo sulla base delle frequenze, e non sulla base del fatto che siano parole strutturalmente italiane.

E allora la sudditanza, la cancellazione delle parole, l’impoverimento lessicale di cui parla Mattarella non nascono dal dispotismo di un algoritmo, ma dalla sudditanza verso un altro dispotismo naturale, e culturale, che riguarda i comunicatori. E questo dispotismo è rappresentato dalla dittatura dell’inglese a cui i comunicatori sono asserviti.

I comunicatori umani sono ben più anglomani dell’IA

Proviamo a fare qualche esempio di giornalismo e a esaminare qualche titolo del Corriere.it di questi giorni.

A Milano, subito dopo la Milano Marathon parte la Week Design che sta sostituendo il vecchio Salone del mobile in un tripudio di anglicismi. Intanto ci sono le polemiche per il Remigration Summit e le convention delle destre, e “remigrazione” appare in piccolo nel sottotitolo come sinonimia secondaria, mentre nei titoloni è tutto un urlare parole in inglese che si vogliono imporre e a cui ci vogliono educare.

Domenico Calabrese mi segnala la nascita di un progetto della Confindustria per il rilancio dell’agroalimentare del Salento che però si chiama in inglese: Salento Food Experience.

Purtroppo c’è poco da stupirsi di questo ossimoro che esprime in inglese le eccellenze italiane, perché l’uso di Experience è diventato una prassi “normale” dal sud al nord, basta vedere la “Lago Maggiore Summer Experience”.

Mentre la maggior parte dei linguisti è rimasta ferma ai singoli anglicismi, quello che sta succedendo è qualcosa di ben più profondo. L’itanglese è uno stile ricercato, travalica completamente il concetto di “prestito linguistico” e si nutre di espressioni in inglese sempre più vaste, che ormai comportano le ibridazioni con inversione lessicale: Salento Experience e non per esempio “vivere il Salento”, la Milano Marathon e la Design Week, e non la maratona di Milano e il Salone del mobile.

Daniele Imperi mi segnala la comunicazione di Aquila Basket, dove tra Inside Aquila, pregame, gameday, manager, weekend… l’inglese ha il sopravvento: il loro “modello d’innovazione sostenibile che va oltre lo sport” stravolge la nostra lingua e non è affatto sostenibile.

E allora che ne è del giornalismo e della comunicazione che nelle parole di Mattarella dovrebbero essere “virtuosi”? Dov’è il rispetto per il nostro “patrimonio lessicale”? Chi è suddito del dispotismo e opera la cancellazione delle parole? Sono i comunicatori umani e la stupidità naturale, più che l’intelligenza artificiale. I primi sono responsabili – e colpevoli – delle loro scelte. Gli algoritmi sono il riflesso di queste strategie.

Certo, la diffusione dell’IA che segue gli stessi modelli rischia di essere un moltiplicatore di questo linguaggio. Da qualche mese, tra le entrate dei visitatori di questo sito fino a poco tempo fa dominate da Google, si stanno moltiplicando le entrate che arrivano da Chatgpt e da altri programmi di intelligenza artificiale. Ma se il sistema di statistiche li chiama “referrer”, non è per colpa dell’intelligenza artificiale, è bensì la conseguenza delle strategie comunicative dei terminologi colonizzati che preferiscono introdurre l’inglese invece di tradurre in italiano.

Intanto Google ha introdotto Gemini, che spesso dà una prima riposta alle parole di ricerca che in precedenza vedeva privilegiare le voci di Wikipedia da sbattere al primo posto. Dunque simili testi generati atomicamente diventano la fonte primaria di informazione, per il navigatore frettoloso o con pochi strumenti critici a disposizione. È questo il pericolo maggiore della “cultura” artificiale.

L’IA è solo il potentissimo strumento di espansione della stessa strategia messa in atto dai comunicatori umani.

Proprio oggi, sul Corriere, Aldo Grasso spende un pensierino sul fatto che i giornalisti parlano ormai il “tiktokese” e per ringiovanirsi anche i politici utilizzano la lingua dei “social”. Ma questa lingua è soprattutto il frutto dell’espansione delle multinazionali statunitensi che impongono a tutti anche il loro lessico, insieme ai concetti che esportano. Il “nemico” non è l’IA – che come tutti gli strumenti si può usare bene o male – ma la nostra sudditanza culturale davanti al globish. L’impoverimento del lessico e il venir meno del plurilinguismo è frutto della nostra stupidità umana e troppo umana, non dell’intelligenza artificiale.

Cinque anni fa, nel 2020, avevo provato a lanciare un appello a Mattarella per denunciare queste cose attraverso una petizione che è stata firmata da oltre 4.000 cittadini. E la tutela del nostro patrimonio lessicale che chiedevamo era nei confronti dell’anglicizzazione, non dell’IA. Dopo aver denunciato la moltiplicazione degli anglicismi e i rischi dell’attuale sudditanza, la lettera si concludeva con queste parole:

“Ci rivolgiamo a Lei nella speranza che con la Sua autorevolezza voglia esercitare un richiamo almeno nei confronti della politica e delle istituzioni, perché si usi la nostra lingua, che consideriamo un bene che andrebbe promosso e tutelato come avviene all’estero e come facciamo con tutte le altre nostre eccellenze, dall’arte alla gastronomia.
La preghiamo, infine, di incoraggiare una campagna mediatica per difendere e favorire l’italiano che denunci l’abuso dell’inglese, come si è fatto con successo in Spagna o in Francia, e come da noi è avvenuto per sensibilizzare tutti sui temi sociali più importanti, dalla violenza contro le donne al bullismo. Ci piacerebbe vedere un’analoga iniziativa anche contro la discriminazione lessicale delle nostre parole.”

Mi fa piacere che lo spirito di quella petizione sia oggi condiviso dal nostro presidente. Dispiace, invece, che la nostra petizione non abbia mai avuto una risposta, e che oggi l’impoverimento lessicale paventato sia messo in relazione con il diffondersi dell’IA invece che con il nostro atteggiamento culturale suicida. Perché è su questo che la politica dovrebbe agire.

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La “direttiva Musk” e le ingerenze linguistiche, quello che i giornali non raccontano

Di Antonio Zoppetti

In questi giorni infuria la polemica sulla cosiddetta “direttiva Musk” arrivata ai dipendenti italiani della base di Aviano (a Pordenone), un aeroporto militare utilizzato dall’aeronautica statunitense in cui lavora non soltanto il personale americano, ma anche quello italiano. Tra questi ci sono quasi 800 persone che includono commerciali, magazzinieri, operai, addetti alla ristorazione, alle pulizie e via dicendo.
Il 3 marzo scorso è arrivata anche a questi lavoratori – o ai loro supervisori – la lettera del Department of Government Efficiency degli Stati Uniti che chiedeva i resoconti dell’attività lavorativa dell’ultima settimana con l’obbligo di una risposta entro 48 ore, in mancanza della quale si ventilavano provvedimenti dal sapore intimidatorio.

Quello che i giornali non raccontano è che questa comunicazione è arrivata in inglese, e pare che nessuno si sia posto la questione dell’ingerenza linguistica, oltre che di quella sul piano del lavoro che ha visto l’immediata reazione dei sindacati.

Un passo indietro

Il Doge (Department of Government Efficiency), istituito attraverso un ordine esecutivo di Donald Trump a gennaio e diretto da Elon Musk, ha come compito la modernizzazione tecnologica e soprattutto il miglioramento dell’efficienza dei dipartimenti federali, che rischia di portare a enormi tagli e licenziamenti. Negli Usa sono sorte sin da subito forti polemiche tra chi ne ha messo in discussione la legittimità e la costituzionalità e chi ne difende lo statuto, perché si tratterebbe di un ente che si limita a emanare raccomandazioni e richieste di riduzioni delle spese che poi vengono ufficializzate dal Congresso.
Comunque sia, nell’ottica di tagliare le spese e ridurre il personale, a fine febbraio Musk ha inviato ai dipendenti pubblici federali un rapporto in cinque punti sul proprio operato dell’ultima settimana precisando che, in mancanza di una risposta entro 48 ore, i posti di lavori sarebbero stati a rischio licenziamento.
La novità è che la richiesta del rapporto nei giorni scorsi è stata diramata anche ai dipendenti della base di Aviano, ma pare anche a quella di Vicenza, non solo al personale statunitense, ma anche ai dipendenti italiani, che – bisogna sottolineare – hanno stipulato un contratto di lavoro di natura privata regolato della normativa di lavoro italiana, e non sono affatto tenuti a rispondere alle ingerenze del Doge, che a sua volta non ha alcun titolo per minacciare eventuali licenziamenti. Complessivamente ci sono circa 4.000 dipendenti italiani che lavorano nelle basi non solo di Aviano, ma anche a Vicenza, Sigonella, Livorno, Vicenza, Napoli…

I sindacati si sono immediatamente mobilitati e hanno chiesto spiegazioni. Davanti alle reazioni, in un primo tempo l’ufficio Public Affairs del 31° Fighter Wing ha rassicurato tutti, parlando di un incidente e di un errore, e precisando che la comunicazione era rivolta solo ai dipendenti americani. Subito dopo è arrivata la smentita: “Anche i dipendenti italiani devono rispondere”.

Dunque non era affatto un errore, ma una precisa volontà ben ponderata.
E così, tra i lavoratori è scoppiato il panico. Gli stessi dirigenti si sono divisi; c’è chi ha chiesto di rispondere e chi ha suggerito di non farlo e attendere i chiarimenti. Ma intanto molti dipendenti, terrorizzati dall’idea di perdere il posto di lavoro hanno ottemperato alle richieste anche quando i loro supervisori hanno consigliato di aspettare.

Una comunicazione in inglese: la lingua dei padroni

Quello che nessuno sembra evidenziare è che la lettera ricevuta dagli italiani non è in italiano, ma in inglese, e l’oggetto che la maggior parte dei giornali riporta in italiano (“Cosa ha fatto nell’ultima settimana?”) nella realtà era: “What did you do last week?”.

I giornalisti, il cui passatempo preferito sembra quello di introdurre anglicismi, davanti a una comunicazione in inglese sembrano cambiare strategia e tradurre tutto in italiano, facendo finta di niente e omettendo di raccontare che Musk si rivolge ai suoi sudditi lavorativi di cittadinanza italiana nella sua lingua, che da pochi giorni è diventata quella ufficiale degli Usa.
Colpiscono le parole per esempio di un articolo pubblicato sul Secolo d’Italia, un giornale di destra che un tempo era l’organo del Msi e che oggi scrive:

“Le e-mail sono arrivate, puntuali e perentorie, alla Base Usa di Aviano. Il mittente? Il Dipartimento per l’efficienza del governo degli Stati Uniti (…) Tra i destinatari, però, non ci sono solo i dipendenti governativi americani, ma anche il personale italiano che opera nell’avamposto militare: vigili del fuoco, addetti commerciali, lavoratori scolastici. La richiesta è chiara: dettagliare in cinque punti le attività svolte nell’ultima settimana.”

La richiesta è chiara? No, non è affatto chiara visto che è in lingua inglese, anche se il giornalista si guarda bene dal raccontarlo. E anche la conclusione del pezzo lascia perplessi: “In ballo, oltre al rispetto dei contratti, c’è un principio di sovranità giuridica”. In realtà in ballo non c’è solo la sovranità giuridica, ma anche quella linguistica, benché i nostri “sovranisti” a metà non se ne rendano conto. Il ricorso all’inglese presuppone che i nostri lavoratori siano trattati come dei sudditi di una provincia o di una colonia anche dal punto linguistico, non solo da quello del lavoro.

Tante domande senza risposte

Nell’informazione nostrana tutto è fumoso e incomprensibile.
Mentre si dice che le stesse comunicazioni sono arrivate anche alla base militare di Vicenza e che riguarderanno anche le altre basi in Italia, la prima domanda è: perché la comunicazione avviene in inglese? I contratti di lavoro dei dipendenti italiani sono in italiano o in inglese? Questi lavoratori sono dunque tenuti a conoscere questa lingua in modo ufficiale?
Nel nostro Paese, che tutela più l’inglese che l’italiano, la questione dei contratti con le multinazionali è spinosa, anche se nessuno ne parla. Sempre più spesso viene fatto sottoscrivere un contratto direttamente in inglese, e questa prassi è legittimata dal far firmare contemporaneamente un documento in cui il lavoratore dichiara di comprenderlo, una clausola senza la quale il contratto potrebbe essere impugnato. Ma poiché l’inglese è diventato un requisito per l’assunzione, nessun dipendente potrebbe dichiarare il contrario. Dunque si stanno moltiplicando i contratti in inglese, insieme all’obbligo di conoscere questa lingua, nel silenzio istituzionale e della nostra classe dirigente anglomane. Ma anche se un lavoratore conosce l’inglese, rimane il punto che è un dipendente italiano e che forse avrebbe tutti i diritti, oltre che gli interessi, a stipulare un accordo nella propria lingua madre invece che nella lingua del padrone.

Tra gli altri interrogativi che ci dovremmo porre c’è almeno: le risposte devono essere inviate in inglese o in italiano? E ancora, perché queste lettere sono state inviate ai lavoratori italiani ma non a quelli delle basi francesi o spagnole? Nulla di simile si trova sui giornali di questi Paesi. E i giornalisti italiani sembrano non porsi questi interrogativi e ritagliare – a destra e a sinistra – lo stesso articolo frutto del copia e incolla dei lanci di agenzia, senza approfondire troppo.

Il tema, benché sottaciuto, sarebbe di rilevanza nazionale, non siamo ancora dipendenti degli Usa. Non siamo ancora tenuti a conoscere l’inglese.
Questa zona grigia andrebbe tutelata e regolamentata dalla nostra politica in modo chiaro, anche se tutti fanno finta che non esista e puntano ormai a ufficializzare l’inglese: nella scuola, nella formazione universitaria, nei requisiti per i concorsi della pubblica amministrazione, nella presentazione dei progetti di ricerca (Prin e Fis) e anche nei contratti di lavoro.

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La dittatura dell’inglese all’università: nuovi dati dalla Finlandia e dal Galles

Di Antonio Zoppetti

In Italia, le prove tecniche di anglificazione dell’università risalgono all’anno accademico 2007-2008, quando il Politecnico di Torino ha avviato i primi corsi erogati non in italiano, ma in lingua inglese, il che era una novità che serviva per sondare il terreno e le reazioni.
Poiché gli studenti andavano incentivati per fare in modo che abbandonassero la loro lingua madre, l’ateneo ha pensato bene di erogare i corsi in inglese in modo gratuito, al contrario dei corrispettivi in italiano. In questo modo si è introdotta la prima discriminazione che metteva in discussione un principio che raramente si sente invocare: il diritto allo studio nella propria lingua. Vuoi studiare nella tua lingua? Paga!

Fase due. Il Politecnico di Milano – un’università pubblica e finanziata dallo Stato – a partire dall’anno accademico 2013-2014, ha alzato l’asticella e ha dato il via a un progetto pilota per rendere obbligatorio l’insegnamento in inglese e sopprimere quello in italiano. Nonostante le proteste, i ricorsi legali e i pronunciamenti della Corte istituzionale, questa imposizione (che si potrebbe anche considerare anglofascista) nell’arco di un solo decennio si è estesa a una quantità di atenei impressionante. È una velocità che spaventa, anche se in Italia non trovo una mappatura del fenomeno su scala nazionale (tra l’altro molto in divenire perché aumentano di continuo).
Teoricamente, la sentenza della Corte Costituzionale del 2017 (n. 42) ha ammesso la possibilità di erogare corsi anche in lingua inglese, ma riconoscendo la “primazia” della lingua italiana nella formazione, dunque si può insegnare in inglese “secondo ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza, così da garantire pur sempre una complessiva offerta formativa che sia rispettosa del primato della lingua italiana, così come del principio d’eguaglianza, del diritto all’istruzione e della libertà d’insegnamento.”
Questo pronunciamento è stato salutato da molti come salomonico, perché permetteva di insegnare anche in inglese, pur sancendo che l’italiano non poteva essere messo in discussione. In realtà le cose sono andate in modo molto diverso, perché la proporzionalità non era definita, ma lasciata alla discrezione dei singoli atenei.
Nel 2019, l’ultima sentenza sulla decisione del Politecnico di Milano (n. 7694, Consiglio di Stato, Sez. VI, 11/19) stabiliva che anche se “su un totale di 40 corsi di laurea magistrale 27 sono in inglese, 4 sono in italiano e 9 sono in italiano e in inglese” e anche se “su un totale di 1.452 insegnamenti, 1.046 sono in inglese, 400 in italiano e 6 sono duplicati in italiano e in inglese” questa ripartizione era considerata equa.

Fase 3. Davanti a questo strano modo di interpretare la “primazia” della lingua italiana e il principio di ragionevolezza, gli atenei di tutto il Paese che guardavano al modello del Politecnico milanese hanno avuto la strada spianata per passare all’insegnamento in inglese invece che in italiano.

Perché questa decisione?
Perché nelle classifiche internazionali che assegnano i punteggi dell’università conta moltissimo la capacità di attrarre studenti dall’estero, e questo obiettivo si persegue erogando corsi direttamente in inglese. Le università-aziende se ne fregano dell’italiano e del diritto allo studio in italiano. Per ottemperare alle leggi basta che garantiscano qualche corso anche in italiano, magari secondario e sfigato. Purtroppo lo Stato italiano non interviene per regolamentare questi aspetti e per proteggere i diritti dei cittadini. Eppure questa prassi è una vera e propria dittatura dell’inglese, perché è imposta dall’alto e non tiene conto del gradimento degli studenti italiani, che tanto non hanno alternative: dove altro possono andare a studiare? L’insegnamento in inglese è dunque un’imposizione, che non riguarda solo i giovani ma tutto il Paese, visto che le tasse che paghiamo per l’istruzione finiscono per finanziare un sistema che punta all’abbandono dell’italiano. L’inglese diventa un obbligo e un requisito imposto agli italiani, non è una scelta.

La fase 4? Il sistema Italia, sembra intenzionato a ufficializzare l’inglese e a condurci sulla via di un bilinguismo forzato. I primi segnali sono inquietanti.
L’inglese è diventato obbligatorio nelle scuole (un tempo si poteva scegliere una seconda lingua); dalla scuola si è poi passati all’amministrazione: la riforma Madia ha cancellato il requisito di conoscere una seconda lingua per accedere ai concorsi pubblici sostituendola con “l’inglese”; intanto l’inglese è diventato la lingua obbligatoria per presentare i progetti di ricerca (Prin) e anche per ottenere i fondi per la scienza (Fis); queste domande devono essere presentate in inglese, altrimenti saranno considerate “irricevibili”, e in inglese si devono svolgere anche gli eventuali dibattiti in merito (questa è una cancellazione dell’italiano ufficializzata).

La partita in gioco dei prossimi anni è invece l’anglificazione dell’università. Anche in questo caso, i corsi in inglese non derivano da una scelta degli studenti, si configurano come un obbligo, visto che spesso ci sono solo quelli. L’ultima protesta organizzata dagli Attivisti dell’italiano esattamente un anno fa – e appoggiata dall’Accademia della Crusca – ha riguardato l’università di Rimini che ha soppresso l’ennesimo corso in italiano per erogarlo solo in inglese, ma nonostante le rimostranze dei cittadini l’università va avanti per la sua strada perché lo Stato – e la nostra politica – glielo lascia fare.

È in questo modo che si uccidono le lingue. Le conseguenze di queste strategie si sono già viste in Africa con l’apertura delle scuole coloniali che insegnavano in inglese, come ha denunciato il kenyota Ngugi wa Thiong’o in Decolonizzare la mente (Jaca Book, Milano 2015): se l’alta formazione è solo in lingua inglese va a finire che chi non sa l’inglese non può studiare, e le lingue locali finiscono per diventare dei dialetti e di scomparire, mentre si impone ovunque la lingua dei Paesi dominanti.

L’Italia sembra decisa a perseguire la stessa visione coloniale e discriminante (alla faccia dell’inclusività di cui ci si rimpie la bocca). I nostri intellettuali collaborazionisti puntano a ufficializzare l’inglese a scapito dell’italiano, e a seguire il modello universitario dei Paesi scandinavi, proprio mentre negli stessi Paesi si sta facendo retromarcia.

Nuovi dati dalla Finlandia

I nuovi dati che arrivano dalla Finlandia mostrano che l’insegnamento in inglese ha avuto delle ricadute disastrose sulle competenze linguistiche interne di quel Paese. Lì le lingue ufficiali sono il finlandese e lo svedese, ma da tempo l’inglese è la lingua dominante dell’università, come lo si vuol far diventare anche da noi.
Stando all’ultimo rapporto sulle politiche linguistiche dell’Istituto per le lingue della Finlandia (Kotus), l’insegnamento in inglese all’università è aumentato notevolmente negli ultimi anni, al punto che le tesi di dottorato in inglese sfiorano il 90%. Ma questo non dipende dalla volontà degli studenti, tutto il contrario: in più dell’80% dei casi preferirebbero studiare nella propria lingua, più precisamente il 38% in finlandese e il 74% in svedese.
L’imposizione dell’inglese ai cittadini è dunque frutto di scelte politiche liberticide. E queste scelte sono devastanti non solo nella qualità dell’insegnamento (i risultati sono decisamente peggiori rispetto ai corsi tenuti nella lingua madre), ma anche nella regressione delle lingue native sul piano sociale.

Il professor Michele Gazzola – docente di amministrazione e politiche pubbliche dell’Università dell’Ulster – mi ha segnalato un serissimo rapporto uscito nel gennaio 2025 che mostra come le competenze del finlandese e dello svedese diminuiscano proprio davanti al dominio dell’inglese nell’università. E di fronte a questi dati è sorto un dibattito acceso in cui l’anglificazione è stata finalmente messa in discussione. Il governo ha dovuto perciò intervenire davanti ai numerosi reclami, perché il predominio dell’inglese nelle università viola le leggi finlandesi che garantiscono il diritto all’istruzione nelle lingue ufficiali del paese. L’università si è quindi impegnata ad aumentare l’offerta in finlandese e in svedese persino negli atenei più anglomani come l’università di Aalto che nel 2023 ha annunciato l’adozione di nuove linee guida in cui ha dovuto rafforzare i corsi in finlandese e svedese.

Da noi avviene tutto il contrario, e il partito degli anglomani si allarga, mentre lo Stato non sembra interessato a tutelare né la nostra lingua né i nostri diritti.
Intanto sono usciti i nuovi risultati delle prove INVALSI che rivelano – guarda caso – un aumento dell’analfabetismo funzionale e un calo della conoscenza dell’italiano. C’è poco da stupirsi, visto che la centralità dell’italiano sta perdendo terreno – sapere l’inglese è considerato più importante – e visto che stiamo perseguendo una politica linguistica per diffondere l’inglese a scapito della lingua di Dante. Ma mentre noi ci suicidiamo culturalmente, c’è un Paese anglofono che punta invece a de-anglificarsi con successo.

Nuovi dati dal Galles

Riporto dei dati che mi ha girato Jacopo Parravicini, un docente di fisica sperimentale presso l’Università di Firenze che si batte per l’insegnamento in italiano. Riguardano il Galles, e la premessa storica è che nelle isole britanniche l’inglese è stato imposto sradicando le parlate locali celtiche diffuse in Scozia, Irlanda e Galles. In quest’ultimo Paese, però, la resistenza è stata maggiore, e negli ultimi anni si sta assistendo a una crescita del gallese: se nel XX secolo questa lingua era parlata dal 20% della popolazione, nel nuovo millennio si è registrata un forte incremento: attualmente è salita al 25%, mentre più di due terzi della popolazione considera favorevolmente la ripresa del gallese.

E come si è ottenuto questo risultato?
Attraverso una politica e pianificazione linguistica che tutela la lingua locale dalla minaccia dell’inglese a partire proprio dalla scuola. In un Paese anglofono, dunque, è in corso una politica di de-anglificazione che funziona. Dal 2000, l’insegnamento del gallese fino a 16 anni è diventato obbligatorio in tutte le scuole del Galles, e di recente è stata messa in atto una strategia che promuove il gallese come prima lingua delle scuole. Questa opzione è una scelta, non un obbligo, e circa il 20% degli studenti ha preferito studiare in gallese invece che in inglese! In Galles c’è la libertà linguistica invece della dittatura. E questa libertà è favorita dalla politica.

Nel 2011 è stata varata una legge per il rilancio del gallese (Welsh Language Measure), e nel 2017 è stato proposto un piano strategico per raddoppiare i parlanti di questa lingua con l’obiettivo di portarli a un milione (attualmente sono poco più di mezzo milione su una popolazione di circa 3 milioni di abitanti): il “Cymraeg 2050 – A milion of Welsh speakers”.
E questo vale anche per l’istruzione superiore, per fare in modo che “nel passaggio all’università non si perdano le competenze linguistiche in gallese”. E così sono stati ampliati i corsi di laurea e dottorato in gallese – invece che in inglese – in un piano di assunzione di docenti gallesi.
Mentre da noi aumentano i corsi in inglese, l’Università del Galles Trinity Saint David (17.000 studenti) e la Bangor University (11.000 studenti) puntano ad avere due terzi dei docenti in grado di parlare il gallese e di tenere le lezioni – ma anche i ricevimenti degli studenti – in gallese.
L’Università di Bangor ha anche emanato il “Welsh Language Policy and Action Plan“, cioè dei principi guida che puntano a “garantire che la lingua gallese rimanga al centro della vita e del lavoro dell’Università” e che gli studenti possano scegliere (parola che da noi è stata abrogata) di studiare in gallese, perché le due lingue devono essere trattate allo stesso modo e lo Stato interviene per garantire e aiutare chi preferisce studiare in gallese.

Queste università non insegnano solo materie umanistiche, ma anche scientifiche e biomediche, e non sposano affatto l’idea che l’inglese sia la lingua internazionale della scienza. E quello che auspica Jacopo Parravicini è molto semplice: attuare le stesse politiche del Galles anche nel caso dell’italiano. Ma la nostra classe dirigente e politica, purtroppo, preferisce perseguire la via della dittatura.

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Di Antonio Zoppetti

Tra le tante sciocchezze che circolano sulla questione dell’abuso dell’inglese, ce n’è una particolarmente fastidiosa che circola negli ambienti anglomani, secondo la quale l’ostentazione degli anglicismi sarebbe inversamente proporzionale alla buona conoscenza di quella lingua.

La tesi di questa bizzarra panzana parte dal presupposto che chi padroneggia l’inglese non lo userebbe a sproposito e, in questa visione, l’idea caricaturale che emerge dell’itanglese è quella del linguaggio di Alberto Sordi degli anni Cinquanta, che si riempiva la bocca di mamy, papy e pseudoanglicismi come awanagana per darsi un tono, in modo ridicolo, per ostentare la padronanza di una lingua che non conosceva affatto.

Naturalmente questa patetica ricostruzione delle cose non sta né in cielo né in terra, e chi sta cancellando l’italiano per sostituirlo con l’inglese non ha un problema con la lingua di Albione, ma con la nostra: l’italiano, vissuto come lingua antiquata e inferiore.

La diglossia che fa dell’inglese una lingua superiore nasce negli ambienti colti, nelle elite, nelle classi egemoni e nei progetti politici che puntano ad affermare l’inglese come lingua “franca” e internazionale, anche se non c’è nulla di “franco” in tutto ciò.

L’inglese proclamato a torto “lingua franca”

L’espressione “lingua franca” un tempo designava un sistema di comunicazione commerciale diffuso nel Mediterraneo tra europei e islamici che era caratterizzato da un lessico soprattutto italiano e spagnolo con anche qualche arabismo, e da una grammatica estremamente semplificata. Per estensione, come riporta il vocabolario Treccani, indica “anche le lingue creole, miste di elementi europei e indigeni, e tutti quei tipi di lingue miste sorte per necessità pratiche di comunicazione in zone o ambienti dove vengono a contatto gruppi linguistici profondamente diversi”.

Con un piccolo magheggio, in epoca di globalizzazione è invece l’inglese a essere proclamato “lingua franca”; peccato che – per chiamare le cose con il loro nome – l’inglese a cui ci si riferisce è la lingua naturale dei popoli dominanti, nella sua interezza, senza alcuna semplificazione, il che ha a che fare con processi più simili al colonialismo culturale e linguistico che non a un sistema di comunicazione neutro. E infatti nessuno definirebbe lo spagnolo coloniale, o prima ancora il latino dei popoli conquistati e romanizzati, una lingua “franca”, questi fenomeni erano invece l’imposizione della propria lingua ai Paesi sottomessi. L’attuale affermazione dell’angloamericano in contesti come la scienza o l’Ue (da cui il Regno Unito è uscito) segue questo schema coloniale più che il concetto di “lingua franca”, e rappresenta un giro d’affari dal valore incalcolabile per chi impone agli altri la propria lingua e non si deve preoccupare di studiarne altre.

L’angloamericano diventa in questo modo una lingua di prestigio che schiaccia le lingue locali “inferiori” e sottrae loro terreno in una moderna diglossia neomedievale (come denuncia il lingusta tedesco Jurgen Trabant) che riduce le lingue nazionali a dialetti di un mondo che pensa e parla inglese, un mondo che si vuole costruire e legittimare – talvolta chiamato Occidente – e che non tiene conto del fatto che la conoscenza di questo inglese non appartiene al popolo (se non in alcuni Paesi come quelli scandinavi o del Nord-Europa), ma a un’oligarchia e a una minoranza.

L’effetto collaterale di questo progetto politico su cui gli investimenti sono enormi – l’Europa spende miliardi per creare le nuove generazioni bilingui a base inglese sin dai primi anni di scuola – è che gli anglicismi finiscono poi pe penetrare in tutte le lingue del mondo, e dai settori specialistici della tecnica, della scienza o del lavoro si estendono alla lingua comune con un’intensità che ha portato alla coniazione di concetti come il franglais in Francia, lo spanglish per i Paesi ispanici, il Denglisch in Germania… e in questo “tsunami anglicus”, come lo ha chiamato Tullio De Mauro, persino le popolazioni che possiedono altri alfabeti – dal cinese al russo, dal coreano al giapponese – fanno i conti con un’invasione di anglicismi che arrivano dall’alto e snaturano le risorse linguistiche locali.

L’itanglese è la lingua di una classe dirigente anglomane

In Italia la situazione degli anglicismi è ben più pesante che in altri Paesi, e il motore di questo fenomeno non è certo determinato dagli awanagana di macchiette come Nando Mericoni di Alberto sordi. Quando vengono trapiantate espressioni inglesi come lockdown o fake news, che si radicano in un baleno, sono i giornalisti a riprendere le parole d’oltreoceano e a usare solo quelle fino a indottrinare la popolazione che alla fine non può che ripetere quel che passa il convento mediatico. Questi trapianti non arrivano affatto da chi l’inglese non lo conosce, tutto il contrario: chi è avvezzo a nutrirsi (culturalmente) pescando solo negli ambienti anglofoni (o anglomani) finisce per ricorrere all’inglese in modo sempre più spontaneo e a considerare gli anglicismi di volta in volta più solenni, più tecnici, più moderni, più internazionali… e in buona sostanza alimenta la “diglossia lessicale” per cui ogni parola inglese, e persino pseudoinglese, finisce per essere preferita alle alternative italiane (quando ci sono), che di conseguenza regrediscono.

Affermare che chi conosce l’inglese non lo usa al posto dell’italiano non è solo una banalizzazione che rivela tutta l’incapacità di comprendere i reali meccanismi dei cambiamenti linguistici del Duemila, è funzionale all’affermazione del globish come lingua “franca”, in un ribaltamento della realtà dove per salvaguardiare la nostra lingua non si dovrebbe investire sull’italiano, ma tutto il contrario, bisognerebbe invece saper meglio l’inglese. Anche un bambino capisce che questa idiozia non sta né in cielo né in terra, ma per chi ha qualche difficoltà di comprendonio vorrei riportare un esempio che mi ha segnalato un luminare della fluidodinamica, Luigi Quartapelle Procopio, professore associato del Politecnico di Milano, autore di pubblicazioni in italiano e in inglese che opera nel panorama scientifico internazionale. Mi ha rigirato con sdegno – visto che è stato uno dei più agguerriti firmatari della petizione per non estromettere l’italiano dalla formazione universitaria – una comunicazione che gira in questi giorni tra i docenti di quell’ateneo e che voglio virgolettare:

“(…) Da questo autunno attiveremo una serie di iniziative di comunicazione su intelligenza artificiale (AI) con l’intento di accentrare l’attenzione del territorio milanese e lombardo sul nostro ateneo. In questo momento in cui qualunque struttura cerca di posizionarsi come l’interlocutore di riferimento per AI, il polimi non poteva sottrarsi dal proporre un programma di alto profilo.

Il target di queste iniziative è duplice. Avremo degli awareness panel su tematiche di interesse sociale diretti principalmente alla cittadinanza con speakers di eccellenza. Questi includeranno, in ordine, AI and Education, AI Risks and Regulation, AI and Health, AI and Sustainability, e, infine, un panel su AI Generativa il cui target sarà, diversamente dai precedenti, più orientato alle aziende. Avremo inoltre seminari scientifici il cui target è sia la comunità scientifica – non strettamente solo quella tecnica/tecnologica – sia gli studenti che le aziende che fanno ricerca e sviluppo. (…) Vi allego il programma per la fine del 2024, mentre il programma per il 2025 sarà presentato durante il primo awareness panel (12 novembre, su AI and Education). Ogni evento richiederà una registrazione online, il cui link potrà essere trovato nelle locandine che verranno piano piano pubblicate sui canali media dell’ateneo.”

Naturalmente il programma allegato è in inglese, perché il Politecnico di Milano è l’ateneo che ha dato via al progetto pilota per estromettere l’italiano dall’insegnamento universitario. E la lingua più naturale e spontanea di chi ha scelto l’inglese come lingua “franca” dell’università ha una base italiana (più spontanea che scolarizzata, a giudicare da come scrive il mittente) in cui percolano i concetti e le espressioni in inglese che si sono normalizzati (almeno nella testa dello scrivente) e fissati in espressioni stereotipate intoccabili: AI invece di IA, la ripetizione meccanica di target, i concetti in inglese invece che in italiano che introducono Education, Regulation o Healt al posto di istruzione, regolamento o salute. E nell’anglicizzazione selvaggia queste parole si scrivono con le maiuscole all’americana, mentre anche la “s” del plurale viene normalizzata (speakers) alla faccia delle norme dell’italiano che si controlla pochino e che comunque poco interessa.

Dunque, in casi come questo è la scarsa attenzione per la propria lingua madre che produce simili comunicazioni, dove l’ostentazione dell’inglese sembra semmai inversamente proporzionale all’amore e alla conoscenza dell’italiano.

Il fatto grave è che questo tipo di comunicazione non è solo in voga tra gli anglomani, è quella che si sta imponendo nell’Università, tra gli addetti ai lavori, che viene ormai accettata e preferita negli ambienti culturali, tecnici, istituzionali e soprattutto viene diffusa e legittimata in un’educazione all’inglese rivolta a tutti: “il target di queste iniziative” non è “duplice”, come si legge nel documento, ma almeno “triplice”: il terzo obiettivo implicito (e non dichiarato) è quello di rendere questa lingua ufficiale, e di affermarla non solo sul “territorio milanese” ma anche nella testa delle giovani generazioni che si formano, e che costituiscono il nostro futuro (anche linguistico, oltre che culturale e produttivo).

Chi studia in inglese è portato a pensare in inglese e a esprimersi con concetti in inglese, invece che in italiano, con la conseguenza della perdita della terminologia e della concettualizzazione nella nostra lingua. Nei Paesi del Nord Europa dove il progetto del globalese nelle università si è quasi compiuto, si sta cominciando a riflettere con preoccupazione sugli effetti nefasti di questa politica. L’inglese come lingua dell’università o della scienza non si è rivelato un processo “aggiuntivo”, una risorsa in più che si affianca alla cultura nativa, bensì un processo sottrattivo che ha fatto retrocedere la lingua nazionale e ha portato alla regressione del lessico e della lingua nativi. E quindi, dalla Svezia all’Olanda, si assiste a una messa in discussione di queste politiche e a una marcia indietro.

In Italia, invece, si procede ciechi e bendati verso l’anglificazione dell’università, e il nostro modo di essere “internazionali” non significa guardare a ciò che avviene all’estero, anche a proposito delle politiche linguistiche di Paesi come la Francia, la Spagna, la Svizzera o l’Islanda; significa invece assumere e sposare il punto di vista degli “americani” (la parte per il tutto e cioè il monolinguismo invece del plurilinguismo), incuranti del fatto che questa strategia ci sta annichilendo. E così, un altro professore di fisica dell’Università di Firenze mi scrive affranto:

“Anche qui a Firenze stiamo andando verso una laurea specialistica in fisica in inglese. Ho sentito colleghi proferire affermazioni del tipo ‘allora sarà VIETATO usare l’italiano’”. Davanti al compiacimento dell’abbandono dell’italiano il docente ha provato invano a replicare “se non suonasse letteralmente assurdo che potesse essere addirittura vietato usare l’italiano all’interno del territorio della Repubblica Italiana in un’istituzione di proprietà dello Stato Italiano finanziata tramite tasse versate dagli italiani la lingua ufficiale della Repubblica”; ma questo argomento suscita di solito un sollevamento di spalle.

https://diciamoloinitaliano.wordpress.com/2024/10/14/insegnare-in-inglese-non-puo-che-alimentare-langlicizzazione-dellitaliano/

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Di Antonio Zoppetti

Mi sono arrivate varie segnalazioni indignate a proposito di un intervento sul Corriere della scorsa settimana di Federico Rampini intitolato “Gli italiani non sanno l’inglese”.

L’autore si mostra scandalizzato e affranto di fronte a questo fatto. Ma la cosa più imbarazzante del suo resoconto è la modalità con cui sembra scoprire l’acqua calda.

La rivelazione gli è arrivata durante un convegno a Gorizia, mentre uno storico israeliano a quanto pare appoggiava le ragioni dell’attuale sterminio dei palestinesi suscitando le reazioni di protesta e i fischi degli spettatori. A colpire Rampini non sono state le tesi del suo interlocutore – che in fondo è un “progressista” che parla così solo per lo choc del 7 ottobre, chiosa il giornalista – bensì un piccolo dettaglio marginale che fa ben capire cosa si agita nella testa di simili prezzemolini televisivi che si presentano come progressisti ma sono invece l’espressione delle idee più reazionarie della nostra intellighenzia. Questo particolare a margine è che le grida della folla imbestialita non arrivavano in diretta, immediatamente dopo le parole che lo storico pronunciava in lingua inglese, ma in differita, cioè solo dopo la traduzione.

Questo è ciò che ha colpito Rampini, che si è reso conto improvvisamente che il vero problema è che gli italiani non capiscono l’inglese! Un grave problema davanti al quale gli oltre 30.000 morti palestinesi (senza contare i feriti o i mutilati che spesso sono donne e bambini) passano evidentemente in secondo piano (almeno nella sua scatola cranica).

Il giornalista sembra ignorare i dati Istat che ci dicono che in Italia la conoscenza dell’inglese appartiene a una minoranza della popolazione. Evidentemente non conosce nemmeno i rapporti come quelli di Eurostat che mostrano che anche in Europa l’inglese non è affatto compreso dalla maggioranza dei cittadini. E non è neppure a conoscenza delle statistiche di Ethnologue che spiegano che nel mondo l’inglese è conosciuto da meno del 20% dell’umanità (cfr. “Dal bilinguismo territoriale a quello virtuale della globalizzazione“). La sua consapevolezza arriva più empiricamente davanti a un bagno di folla: a Gorizia, “una delle città più ricche, moderne, evolute d’Italia, l’inglese ancora lo parlano e lo capiscono in pochi.” Eppure gli astanti erano gente colta – precisa stupito Rampini – tutta gente che legge persino i libri di storia!

La parola “ancora” dice tutto: l’inglese – cioè la lingua naturale dei popoli dominanti che non studiano altre lingue perché impongono la propria a tutti gli altri – prima o poi trionferà, e finalmente tutta l’umanità si inchinerà alla sua dittatura. È solo questione di tempo.

Questo è il nuovo colonialismo del Duemila, il nuovo imperialismo culturale difeso da chi ha come obiettivo l’imposizione dell’inglese dall’alto con cui educare il mondo intero. I Paesi già anglicizzati sono presentati come un modello aureo e avanzato, gli altri sono considerati “Terzo mondo”, un’espressione politicamente scorretta che si tende ormai a sostituire con “Paesi in via di sviluppo”. E a quale sviluppo li si deve condurre? A quello del modello occidentale, ovviamente, che viene fatto coincidere con quello statunitense, ci mancherebbe altro.

Eppure l’Italia, pur essendo di fatto una provincia americana dal punto di vista sociale, politico, militare, economico e culturale è “ancora” arretrata sul piano linguistico. Ancora una volta, per Rampini, le fonti sulla conoscenza dell’inglese non sono le statistiche ma altre che ricordano i discorsi da bar: “Mi è stato detto che questa cosa cambia improvvisamente se uno, a poche centinaia di metri dalla sede di quel convegno, si reca Nova Gorica. È la città gemella, l’altra metà di Gorizia, in Slovenia, dove l’inglese lo sanno tutti.” E a questo punto sbotta: possibile che una nazione – che probabilmente considera sottosviluppata rispetto a noi sotto altri punti di vista – sia più avanti di noi nella conoscenza della lingua dei padroni?
Al giornalista non viene neppure in mente che forse le persone di cultura della città conoscono il tedesco, o il francese, o altre lingue. Per lui il plurilinguismo non è un valore, e le altre lingue sono fuori dai parametri della neocultura che ha in mente, non contano niente. Nella sua testa c’è solo l’opzione inglese, la Novalingua da imporre orwellianamente a tutte le altre inutili e dannose Veterolingue.

L’apologia della dittatura dell’inglese è la premessa e l’assioma di un disegno strisciante che viene fatto passare in modo manipolatorio:

“Qui abbiamo un problema, guardate: perché non è possibile che in Slovenia un paese che è entrato nell’Unione europea molto più tardi, Paese più povero, piccolo tutti sappiano l’inglese e dall’altra parte del confine no.”

In quest’ultima riflessione da temino liceale, la Slovenia è un Paese “inferiore” (piccolo e povero), entrato da poco nell’Ue (e qui si lascia credere che l’inglese sia la lingua dell’Unione Europea, il solito falso). I modelli virtuosi dell’Europa sono i Paesi già colonizzati linguisticamente, quelli “dalla Danimarca alla Svezia, dove le grandi università insegnano ormai corsi solo in lingua inglese e i bambini sono abituati a vedere i film americani in lingua originale quando hanno cinque anni.”

Finalmente il consueto disegno linguicista emerge e prende forma: consiste nel cancellare le lingue nazionali dall’università (meglio omettere che i Paesi del Nordeuropa stanno facendo un passo indietro nell’anglificazione dell’università perché si sono resi conto che i danni sono maggiori dei vantaggi). E per meglio imporre la dittatura dell’inglese non resta che colonizzare i cittadini sin dall’infanzia, attraverso la tv e i film in lingua originale americana. L’apoteosi di questa visione colonialista arriva nel finale: oggi come oggi, “sapere l’inglese è come avere la patente di guida.”

Questo esempio non è innocente: in gioco c’è proprio la “patente”.

Non basta che il globalese sia di fatto la lingua dominante, diventata imprescindibile in alcuni settori come il mondo del lavoro o della scienza, per cui chi non lo usa è penalizzato ed emarginato. L’obiettivo è l’istituzionalizzazione del globish, che si vuole ufficializzare come la lingua dell’Europa. L’inglese è venduto come il requisito della cultura; a che vale leggere i libri di storia se non si sa l’inglese? E allora non resta che imporlo in tutti i modi, attraverso il potere morbido e quello duro. La prima strategia si basa per esempio sulla trasmissione dei film in inglese, oppure avviene attraverso cavalli di Troia come il progetto Erasmus, nato sulla carta per la diffusione degli scambi linguistici tra gli studenti europei, ma trasformato di fatto nella diffusione del solo inglese, la lingua unica che prende il posto di tutte le altre e le cancella. La stessa prassi che nell’Ue – che sulla carta nasce all’insegna del plurilinguismo – porta a di fatto a usare l’inglese come la sola lingua di lavoro o quasi. E grazie alla von der Leyen è sempre più usato anche nella comunicazione istituzionale rivolta agli europei, un’altra prassi illegittima, come quella dei documenti europei concepiti in alcuni Paesi come l’italia in modo bilingue.

Accanto a queste cose c’è poi la politica linguistica europea a fare in modo che l’inglese sia ufficializzato: è stato introdotto nelle scuole sin dai primi anni dell’infanzia in modo da creare le nuove generazioni bilingui, un progetto che ci costa cifre astronomiche che vengono in questo modo convogliate verso i Paesi naturalmente anglofoni che sono fuori dall’Europa e che non hanno questi costi. Da qui nascono poi i provvedimenti come la riforma Madia che ha cancellato il requisito di “conoscere una seconda lingua” nei concorsi nella pubblica amministrazione per sostituirlo con l’obbligo di “conoscere l’inglese”.

Per quelli come Rampini tutto ciò è rimosso, il loro fine è giustificare la dittatura dell’inglese, costi quel che costi. E un altro esempio riportato dal giornalista la dice lunga sul suo razzismo linguistico e sull’intolleranza e il fondamentalismo con cui guarda chi non parla la lingua dei padroni, quando cita un episodio avvenuto in un cinema ligure dove proiettavano il film Barbie. Per errore l’operatore ha avviato la pellicola in lingua originale invece che nella versione doppiata, e nel pubblico di ragazzine e mamme si è scatenato un putiferio! Quegli ottentotti che non conoscevano l’inglese, secondo Rampini, avrebbero forse dovuto avere un orgasmo davanti alla lingua superiore, invece di pretendere che si parlasse loro nella propria (come previsto all’acquisto del biglietto).

Mentre per Rampini il problema degli italiani è che non sanno l’inglese, per gli italiani il problema sono quelli come Rampini, che non hanno alcun rispetto per la realtà e per la gente, perché hanno in testa solo la propria visione discriminante che vogliono imporre a tutti. L’idea della cultura rampiniana ricorda quella coloniale del generale Gneo Agricola lodato da Tacito perché aveva saputo romanizzare – anche linguisticamente – i Bretoni che aveva assoggettato: i popoli sottomessi chiamavano la romanizzazione “cultura” ma era parte del loro asservimento. Mentre Rampini dichiara di sostenere le sue tesi: “Non perché io abito in America”, la realtà è che quelli come lui si sono asserviti al nuovo impero e agiscono come i collaborazionisti della dittatura dell’inglese, la minoranza oligarchica che vuole prevaricare, sottomettere ed educare tutti gli altri.

Comunque la si pensi, voglio rimarcare un ultimo particolare. Le reazioni alle tesi di questo articolo si sono diffuse in Rete (per esempio sul sito Italofonia.info), ma sui mezzi di informazione – le nuove voci dei padroni dove regna il pensiero unico – tutto tace. Come se queste riflessioni fossero le uniche possibili. E questo è molto grave. Se questa anglomania è la cornice culturale e il presupposto della nuova intellighenzia, poi non c’è da stupirsi dei sempre più numerosi anglicismi che penetrano sui giornali e in ogni settore. Sono solo l’effetto collaterale sul piano interno della dittatura dell’inglese che si vuole legittimare su quello internazionale.

Intanto, alle elezione europee l’astensionismo ha raggiunto livelli mai visti, e mentre alcuni partiti si gongolano dei risultati e gli altri si leccano le ferite, il dato più rilevante mi pare che per la prima volta la maggioranza degli italiani non è andata a votare (se fosse stato un referendum non avrebbe raggiunto il quorum), e se si includono le astensioni questo risultato è ancora più pesante. La nostra classe dirigente, e gli intellettuali alla Rampini, sono una minoranza e un’oligarchia che non rappresenta più il Paese. E forse sono loro che dovrebbero riflettere sulla propria “patente” di giornalisti o politici, non gli italiani.

https://diciamoloinitaliano.wordpress.com/2024/06/10/rampini-e-la-patente-dellinglese-globale/

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Di Antonio Zoppetti

Il mese scorso è uscito un articolo di Maria Teresa Carbone (me l’ha segnalato Carla Crivello) che riferisce di come in Germania si stia assistendo a un calo dell’editoria nella lingua locale che corrisponde a un aumento delle vendite dei libri in lingua inglese. Un fenomeno che si registra anche in altri Paesi con una forte conoscenza dell’inglese. In pratica conoscere bene l’inglese permette di leggere direttamente i libri in lingua originale, il che può essere salutato come un fatto positivo (soprattutto per gli anglofoni) anche se ha delle ricadute sul mercato editoriale interno. Il fenomeno esce dall’editoria cartacea, vale anche per il mercato cinematografico, televisivo e per gli altri settori, e ha delle ricadute distruttive per le lingue locali che si vedono soprattutto in Paesi come l’Islanda.

Maria Teresa Carbone (traduttrice di Decolonizzare la mente di Ngugi wa Thiong’o, Jaca Book, Milano 2015) è molto sensibile al tema del plurilinguismo, ha ben presente anche gli effetti collaterali dell’espansione di una lingua coloniale e imperiale che punta a imporsi come lingua internazionale, e si domanda: “Se la ‘bibliodiversità’ scrive e legge (quasi solo) in inglese, è una vera diversità?”. Nella chiusa del suo pezzo mostra di cogliere bene anche la relazione che c’è tra il globalese e l’anglicizzazione delle lingue locali, che in Italia è particolarmente devastante.

Fare dell’inglese la lingua franca dell’Occidente è il contrario del plurilinguismo: le lingue locali non sono considerate una ricchezza ma un ostacolo alla comunicazione internazionale che dovrebbe avvenire nella lingua naturale dei popoli dominanti. Questo disegno è alla base della moderna diglossia che relega tutte le altre lingue a un rango inferiore.

La posta in gioco di rendere la lingua inglese come universale si porta con sé anche l’esportazione dei valori e del modo di pensare dei Paesi dominanti, e tutto ciò possiede un valore incalcolabile e difficilmente monetizzabile. Mentre da noi domina l’anglomania soprattutto nella nostra classe dirigente, e in pochi si rendono conto degli effetti devastanti del globish, gli anglofoni sanno benissimo il valore che l’imposizione della loro lingua agli altri comporta, e perseguono questo progetto in modo molto lucido e consapevole. Nel 1997, il funzionario dell’amministrazione Clinton David Rothkopf ha dichiarato:

“L’obiettivo centrale della politica estera nell’era dell’informazione deve essere, per gli Stati Uniti, il successo dei flussi dell’informazione mondiale, per esercitare il suo dominio sulle onde come la Gran Bretagna, in altri tempi, lo ha esercitato sui mari. […] Ne va dell’interesse economico e politico degli Stati Uniti vegliare affinché sia l’inglese ad essere adottato quale lingua comune del mondo; affinché siano le norme americane a imporsi nel caso si dovessero emanare norme comuni in materia di telecomunicazioni, di sicurezza e di qualità; affinché, se le varie parti del mondo sono collegate fra loro attraverso la televisione, la radio e la musica, i programmi trasmessi siano americani: e affinché, ad essere scelti come valori comuni, ci siano valori in cui gli Americani si riconoscono” (David Rothkopf, “In Praise of Cultural Imperialism?” in Foreign Policy, n. 107, 1997).

Queste parole ricordano ciò che aveva esplicitamente preconizzato Churchill in un discorso agli studenti dell’università di Harvard il 6 settembre 1943:

“Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non il togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento. Gli imperi del futuro sono quelli della mente” (la citazione è al minuto 13:18).

Gli introiti dell’inglese internazionale

Come ho già scritto:

“Se il valore che deriva dall’utilizzo della propria lingua sul piano internazionale è difficile da valutare, il tempo e le spese per lo studio dell’inglese che i Paesi non anglofoni si devono sobbarcare sono altissimi, e includono molte voci, a cominciare dai libri di testo, che incidono molto poco percentualmente, ma sono pur sempre un indotto importante. Secondo l’economista ungherese Áron Lukács, per esempio, ogni anno si stampano 800 milioni di libri a supporto dell’insegnamento dell’inglese, mentre circa 700.000 persone si recano nel Regno Unito per imparare la lingua, un numero che si amplierebbe enormemente se si includessero gli Stati Uniti e gli altri Paesi anglofoni. Gli introiti di questi viaggi sono molto appetibili, ma anche il giro di affari di chi eroga i corsi è sterminato, senza contare l’indotto delle tantissime certificazioni come quelle di Cambridge o del TOEFEL americano. Fare dell’inglese la lingua globale significa accaparrarsi questo mercato e farlo diventare un monopolio, lasciando il mercato delle altre lingue alla nicchia che coinvolge solo chi ne studia più di una. Questi costi sarebbero distribuiti in modo diverso, e sarebbero anche soldi ben spesi, se fossero impiegati per lo studio di una ‘seconda lingua’ per motivi culturali, invece di essere convogliati solo verso l’anglosfera. Ma lo studio dell’inglese non è più inquadrabile come un fatto semplicemente culturale: in Italia e in sempre più Paesi è diventato un requisito indispensabile, e le motivazioni sono pratiche, perché sono ormai collegate alla sopravvivenza e alla possibilità di ottenere un posto di lavoro. In questo contesto l’inglese diventa la cultura obbligatoria e tutto il resto si trasforma in qualcosa di facoltativo e di serie B. E allora questi costi non sono uguali per tutti” (Lo tusnami degli anglicismi. Gli effetti collaterali della globalizzazione linguistica, goWare, Firenze 2023, p.156).

I vantaggi degli anglofoni

Riporto un altro brano dal libro già citato (pp. 153-154):

“Mentre in Europa si insegna l’inglese sin dalle elementari, quali lingue straniere studiano gli inglesi e gli angloamericani? In pratica nessuna. Al contrario degli altri popoli, tendenzialmente apprendono solo la propria lingua. (…) Nel 2004, il governo laburista inglese ha reso l’insegnamento delle lingue straniere opzionale per i ragazzi dai 14 ai 16 anni, contribuendo al declino dell’interesse generale a imparare le lingue, e nell’agosto del 2010, il parlamentare inglese liberale Mark Oaten ha dichiarato esplicitamente a Sky News: ‘La lingua internazionale degli affari è l’inglese. Imparare il tedesco è inutile. Preferirei di gran lunga che mio figlio imparasse qualcosa di reale valore e utilità. Imparare il tedesco non gli farà ottenere un lavoro’.
In questo quadro, il numero degli studenti britannici che studiavano francese è diminuito del 6% nel solo 2010, e più in generale, nell’arco di un decennio, gli studenti di francese e di tedesco si sono dimezzati. I dati elaborati nel 2018 dal British Council sullo studio di una seconda lingua a livello del GCSE (la scuola superiore) registrano diminuzioni impressionanti nel Regno Unito. Se nel 2002 coinvolgeva il 76% degli studenti, nel 2017 si è scesi al 47%! Come ha scritto Alessandro Allocca sul sito LondraItalia.com, ‘mentre il resto del mondo investe miliardi per imparare l’inglese, sia attraverso la scuola pubblica che corsi privati, il Regno Unito è sempre meno interessato a perfezionare le proprie conoscenze verso una lingua che non sia la propria’.
E se in Europa gli atenei stanno aumentando il numero dei corsi tenuti in lingua inglese, nelle università britanniche i corsi tenuti in altre lingue praticamente non esistono.”

Se l’Ue investe miliardi di euro per formare le nuove generazioni in inglese a partire dalle scuole elementari, gli Stati Uniti e il Regno Unito, che nel frattempo è uscito dall’Europa, non si sobbarcano questi costi che possono destinare verso altri settori. Nel resto del mondo il numero delle persone che studiano l’inglese è impressionante, ed è stato notato che i cinesi che lo imparano sono di più degli stessi angloamericani, che a loro volta hanno tutto l’interesse che la propria lingua naturale non sia più considerata una “lingua straniera”, per il pianeta, bensì “un’abilità di base”.

Sarebbe ora di riflettere seriamente su queste cose, ma purtroppo raramente trovano spazio sui giornali e nella nostra intellighenzia.

https://diciamoloinitaliano.wordpress.com/2024/03/11/linglese-globale-un-giro-daffari-che-spazza-via-il-plurilingusimo/

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