#anglificazione

Di Antonio Zoppetti

Tra le tante sciocchezze che circolano sulla questione dell’abuso dell’inglese, ce n’è una particolarmente fastidiosa che circola negli ambienti anglomani, secondo la quale l’ostentazione degli anglicismi sarebbe inversamente proporzionale alla buona conoscenza di quella lingua.

La tesi di questa bizzarra panzana parte dal presupposto che chi padroneggia l’inglese non lo userebbe a sproposito e, in questa visione, l’idea caricaturale che emerge dell’itanglese è quella del linguaggio di Alberto Sordi degli anni Cinquanta, che si riempiva la bocca di mamy, papy e pseudoanglicismi come awanagana per darsi un tono, in modo ridicolo, per ostentare la padronanza di una lingua che non conosceva affatto.

Naturalmente questa patetica ricostruzione delle cose non sta né in cielo né in terra, e chi sta cancellando l’italiano per sostituirlo con l’inglese non ha un problema con la lingua di Albione, ma con la nostra: l’italiano, vissuto come lingua antiquata e inferiore.

La diglossia che fa dell’inglese una lingua superiore nasce negli ambienti colti, nelle elite, nelle classi egemoni e nei progetti politici che puntano ad affermare l’inglese come lingua “franca” e internazionale, anche se non c’è nulla di “franco” in tutto ciò.

L’inglese proclamato a torto “lingua franca”

L’espressione “lingua franca” un tempo designava un sistema di comunicazione commerciale diffuso nel Mediterraneo tra europei e islamici che era caratterizzato da un lessico soprattutto italiano e spagnolo con anche qualche arabismo, e da una grammatica estremamente semplificata. Per estensione, come riporta il vocabolario Treccani, indica “anche le lingue creole, miste di elementi europei e indigeni, e tutti quei tipi di lingue miste sorte per necessità pratiche di comunicazione in zone o ambienti dove vengono a contatto gruppi linguistici profondamente diversi”.

Con un piccolo magheggio, in epoca di globalizzazione è invece l’inglese a essere proclamato “lingua franca”; peccato che – per chiamare le cose con il loro nome – l’inglese a cui ci si riferisce è la lingua naturale dei popoli dominanti, nella sua interezza, senza alcuna semplificazione, il che ha a che fare con processi più simili al colonialismo culturale e linguistico che non a un sistema di comunicazione neutro. E infatti nessuno definirebbe lo spagnolo coloniale, o prima ancora il latino dei popoli conquistati e romanizzati, una lingua “franca”, questi fenomeni erano invece l’imposizione della propria lingua ai Paesi sottomessi. L’attuale affermazione dell’angloamericano in contesti come la scienza o l’Ue (da cui il Regno Unito è uscito) segue questo schema coloniale più che il concetto di “lingua franca”, e rappresenta un giro d’affari dal valore incalcolabile per chi impone agli altri la propria lingua e non si deve preoccupare di studiarne altre.

L’angloamericano diventa in questo modo una lingua di prestigio che schiaccia le lingue locali “inferiori” e sottrae loro terreno in una moderna diglossia neomedievale (come denuncia il lingusta tedesco Jurgen Trabant) che riduce le lingue nazionali a dialetti di un mondo che pensa e parla inglese, un mondo che si vuole costruire e legittimare – talvolta chiamato Occidente – e che non tiene conto del fatto che la conoscenza di questo inglese non appartiene al popolo (se non in alcuni Paesi come quelli scandinavi o del Nord-Europa), ma a un’oligarchia e a una minoranza.

L’effetto collaterale di questo progetto politico su cui gli investimenti sono enormi – l’Europa spende miliardi per creare le nuove generazioni bilingui a base inglese sin dai primi anni di scuola – è che gli anglicismi finiscono poi pe penetrare in tutte le lingue del mondo, e dai settori specialistici della tecnica, della scienza o del lavoro si estendono alla lingua comune con un’intensità che ha portato alla coniazione di concetti come il franglais in Francia, lo spanglish per i Paesi ispanici, il Denglisch in Germania… e in questo “tsunami anglicus”, come lo ha chiamato Tullio De Mauro, persino le popolazioni che possiedono altri alfabeti – dal cinese al russo, dal coreano al giapponese – fanno i conti con un’invasione di anglicismi che arrivano dall’alto e snaturano le risorse linguistiche locali.

L’itanglese è la lingua di una classe dirigente anglomane

In Italia la situazione degli anglicismi è ben più pesante che in altri Paesi, e il motore di questo fenomeno non è certo determinato dagli awanagana di macchiette come Nando Mericoni di Alberto sordi. Quando vengono trapiantate espressioni inglesi come lockdown o fake news, che si radicano in un baleno, sono i giornalisti a riprendere le parole d’oltreoceano e a usare solo quelle fino a indottrinare la popolazione che alla fine non può che ripetere quel che passa il convento mediatico. Questi trapianti non arrivano affatto da chi l’inglese non lo conosce, tutto il contrario: chi è avvezzo a nutrirsi (culturalmente) pescando solo negli ambienti anglofoni (o anglomani) finisce per ricorrere all’inglese in modo sempre più spontaneo e a considerare gli anglicismi di volta in volta più solenni, più tecnici, più moderni, più internazionali… e in buona sostanza alimenta la “diglossia lessicale” per cui ogni parola inglese, e persino pseudoinglese, finisce per essere preferita alle alternative italiane (quando ci sono), che di conseguenza regrediscono.

Affermare che chi conosce l’inglese non lo usa al posto dell’italiano non è solo una banalizzazione che rivela tutta l’incapacità di comprendere i reali meccanismi dei cambiamenti linguistici del Duemila, è funzionale all’affermazione del globish come lingua “franca”, in un ribaltamento della realtà dove per salvaguardiare la nostra lingua non si dovrebbe investire sull’italiano, ma tutto il contrario, bisognerebbe invece saper meglio l’inglese. Anche un bambino capisce che questa idiozia non sta né in cielo né in terra, ma per chi ha qualche difficoltà di comprendonio vorrei riportare un esempio che mi ha segnalato un luminare della fluidodinamica, Luigi Quartapelle Procopio, professore associato del Politecnico di Milano, autore di pubblicazioni in italiano e in inglese che opera nel panorama scientifico internazionale. Mi ha rigirato con sdegno – visto che è stato uno dei più agguerriti firmatari della petizione per non estromettere l’italiano dalla formazione universitaria – una comunicazione che gira in questi giorni tra i docenti di quell’ateneo e che voglio virgolettare:

“(…) Da questo autunno attiveremo una serie di iniziative di comunicazione su intelligenza artificiale (AI) con l’intento di accentrare l’attenzione del territorio milanese e lombardo sul nostro ateneo. In questo momento in cui qualunque struttura cerca di posizionarsi come l’interlocutore di riferimento per AI, il polimi non poteva sottrarsi dal proporre un programma di alto profilo.

Il target di queste iniziative è duplice. Avremo degli awareness panel su tematiche di interesse sociale diretti principalmente alla cittadinanza con speakers di eccellenza. Questi includeranno, in ordine, AI and Education, AI Risks and Regulation, AI and Health, AI and Sustainability, e, infine, un panel su AI Generativa il cui target sarà, diversamente dai precedenti, più orientato alle aziende. Avremo inoltre seminari scientifici il cui target è sia la comunità scientifica – non strettamente solo quella tecnica/tecnologica – sia gli studenti che le aziende che fanno ricerca e sviluppo. (…) Vi allego il programma per la fine del 2024, mentre il programma per il 2025 sarà presentato durante il primo awareness panel (12 novembre, su AI and Education). Ogni evento richiederà una registrazione online, il cui link potrà essere trovato nelle locandine che verranno piano piano pubblicate sui canali media dell’ateneo.”

Naturalmente il programma allegato è in inglese, perché il Politecnico di Milano è l’ateneo che ha dato via al progetto pilota per estromettere l’italiano dall’insegnamento universitario. E la lingua più naturale e spontanea di chi ha scelto l’inglese come lingua “franca” dell’università ha una base italiana (più spontanea che scolarizzata, a giudicare da come scrive il mittente) in cui percolano i concetti e le espressioni in inglese che si sono normalizzati (almeno nella testa dello scrivente) e fissati in espressioni stereotipate intoccabili: AI invece di IA, la ripetizione meccanica di target, i concetti in inglese invece che in italiano che introducono Education, Regulation o Healt al posto di istruzione, regolamento o salute. E nell’anglicizzazione selvaggia queste parole si scrivono con le maiuscole all’americana, mentre anche la “s” del plurale viene normalizzata (speakers) alla faccia delle norme dell’italiano che si controlla pochino e che comunque poco interessa.

Dunque, in casi come questo è la scarsa attenzione per la propria lingua madre che produce simili comunicazioni, dove l’ostentazione dell’inglese sembra semmai inversamente proporzionale all’amore e alla conoscenza dell’italiano.

Il fatto grave è che questo tipo di comunicazione non è solo in voga tra gli anglomani, è quella che si sta imponendo nell’Università, tra gli addetti ai lavori, che viene ormai accettata e preferita negli ambienti culturali, tecnici, istituzionali e soprattutto viene diffusa e legittimata in un’educazione all’inglese rivolta a tutti: “il target di queste iniziative” non è “duplice”, come si legge nel documento, ma almeno “triplice”: il terzo obiettivo implicito (e non dichiarato) è quello di rendere questa lingua ufficiale, e di affermarla non solo sul “territorio milanese” ma anche nella testa delle giovani generazioni che si formano, e che costituiscono il nostro futuro (anche linguistico, oltre che culturale e produttivo).

Chi studia in inglese è portato a pensare in inglese e a esprimersi con concetti in inglese, invece che in italiano, con la conseguenza della perdita della terminologia e della concettualizzazione nella nostra lingua. Nei Paesi del Nord Europa dove il progetto del globalese nelle università si è quasi compiuto, si sta cominciando a riflettere con preoccupazione sugli effetti nefasti di questa politica. L’inglese come lingua dell’università o della scienza non si è rivelato un processo “aggiuntivo”, una risorsa in più che si affianca alla cultura nativa, bensì un processo sottrattivo che ha fatto retrocedere la lingua nazionale e ha portato alla regressione del lessico e della lingua nativi. E quindi, dalla Svezia all’Olanda, si assiste a una messa in discussione di queste politiche e a una marcia indietro.

In Italia, invece, si procede ciechi e bendati verso l’anglificazione dell’università, e il nostro modo di essere “internazionali” non significa guardare a ciò che avviene all’estero, anche a proposito delle politiche linguistiche di Paesi come la Francia, la Spagna, la Svizzera o l’Islanda; significa invece assumere e sposare il punto di vista degli “americani” (la parte per il tutto e cioè il monolinguismo invece del plurilinguismo), incuranti del fatto che questa strategia ci sta annichilendo. E così, un altro professore di fisica dell’Università di Firenze mi scrive affranto:

“Anche qui a Firenze stiamo andando verso una laurea specialistica in fisica in inglese. Ho sentito colleghi proferire affermazioni del tipo ‘allora sarà VIETATO usare l’italiano’”. Davanti al compiacimento dell’abbandono dell’italiano il docente ha provato invano a replicare “se non suonasse letteralmente assurdo che potesse essere addirittura vietato usare l’italiano all’interno del territorio della Repubblica Italiana in un’istituzione di proprietà dello Stato Italiano finanziata tramite tasse versate dagli italiani la lingua ufficiale della Repubblica”; ma questo argomento suscita di solito un sollevamento di spalle.

https://diciamoloinitaliano.wordpress.com/2024/10/14/insegnare-in-inglese-non-puo-che-alimentare-langlicizzazione-dellitaliano/

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Di Antonio Zoppetti

Nel 1796, uno scalcinato esercito di meno di 40.000 soldati guidati dal giovane e ancora inesperto generale Napoleone partì da Nizza per attaccare i piemontesi e gli austriaci che occupavano la Lombardia. La campagna della cosiddetta Armata d’Italia doveva essere solo un diversivo per spostare la guerra in territorio austriaco, ma si trasformò in un successo inaspettato dirompente. Di vittoria in vittoria il generale entrò presto a Milano, salutato in modo trionfale come “liberatore”, mentre gli austriaci ripiegarono verso il Trentino. L’arrivo di Bonaparte non era vissuto come un’invasione, ma come l’esportazione degli ideali rivoluzionari che avrebbero condotto l’Italia alla tanto agognata unificazione, liberandoci dalle ingerenze e dalle occupazioni delle altre monarchie europee conservatrici.

Un analogo sentimento l’abbiamo visto in tempi più recenti, con lo sbarco degli Americani che ci liberavano dal fascismo, ma che allo stesso tempo erano destinati a conquistarci non più militarmente, ma da un punto di vista politico, economico, culturale e sociale.

I territori conquistati-liberati da Napoleone in tutto il Paese si configurarono come “repubbliche sorelle” della Francia, che in Italia erano chiamate le “Repubbliche giacobine”, e nel 1802 confluirono nella Repubblica Italiana con capitale a Milano. Due anni dopo, però, Napoleone si incoronò imperatore di Francia, e in questa svolta che restaurava il potere assoluto, nel 1805 anche le repubbliche italiane confluirono nel Regno d’Italia di cui Bonaparte divenne il re.

Davanti a questo sconvolgimento geopolitico gli italiani si divisero: Napoleone era davvero un continuatore della svolta della Rivoluzione e liberatore dalla dominazione austriaca che unificava l’Italia o era invece un restauratore del potere assoluto, ennesimo conquistatore e saccheggiatore delle opere d’arte italiane?

Questa stessa duplice interpretazione riguardava anche la sua politica linguistica che puntava alla francesizzazione del nostro Paese.

La politica linguistica di Napoleone

La prima legge in proposito del 1803 introdusse il francese negli atti pubblici. All’epoca solo il Piemonte era stato annesso alla Francia, e la lingua francese fu adottata nei tribunali, nelle amministrazioni e anche nella scuola. Negli anni seguenti, lo stesso criterio di ufficializzazione del francese fu esteso agli altri dipartimenti italiani, e subito dopo la proclamazione del Regno d’Italia, nel 1806 fu emanato un Codice civile redatto in italiano e in francese, seguito da varie altre disposizioni governative in tema di lingua. Nonostante le disposizioni sulla carta, tra le teoria e la pratica ci fu però un notevole scarto e, poiché l’applicazione poneva problemi burocratici e richiedeva tempo, ci furono infinite proroghe un po’ ovunque a quelle direttive, che di fatto rallentarono e ostacolarono la politica linguistica francofona.

Ciononostante, i francesi sapevano bene quali fossero gli assi strategici dell’esportazione della loro lingua, visto che erano una potenza coloniale, e accanto all’amministrazione, anche la conquista della scuola era altrettanto fondamentale, ma di nuovo i problemi da risolvere erano tanti, a cominciare dalla formazione degli insegnanti.

In Piemonte la francesizzazione era più fattibile, visto che quella lingua era molto diffusa e che i Savoia avevano forti legami storici con la Francia e anche con la sua lingua. Già dal 1802 l’insegnamento del francese era stato introdotto nelle scuole primarie e secondarie, e nel liceo di Torino divenne anche la lingua dell’insegnamento, benché da alcuni sondaggi voluti da Napoleone sulla comprensione del francese risultava che la lingua veramente diffusa era il dialetto; spiccava sull’italiano persino tra le classi sociali più elevate che lo leggevano ma non lo parlavano abitualmente, e quando dovevano metterlo in pratica lo facevano con molte difficoltà e incertezze.

In un rapporto del prefetto del dipartimento del Po Loysel al direttore dell’istruzione pubblica, nel 1804, si leggeva che due anni dopo l’introduzione del francese nelle scuole, di fatto gli alunni avevano delle difficoltà a impararlo, perché in famiglia erano abituati a parlare in piemontese. Dunque, per ottenere dei risultati concreti, il francese avrebbe dovuto essere impartito sin dai primi anni di scuola. Se questa era la situazione nella zona più francofona del Paese, nelle altre parti d’Italia l’adozione del francese poneva problemi ancora maggiori, sia nelle amministrazioni sia nelle scuole dove i decreti che lo introducevano non incontravano solo ostacoli culturali, ma anche strutturali.

Napoleone, però, se da una parte puntava alla francesizzazione dell’Italia, dall’altra parte sembrava farlo in modo rispettoso, senza la volontà di cancellare l’italiano, almeno dove era consolidato. Un decreto del 1809 sancì un’eccezione alla politica linguistica imperiale riconoscendo un “privilegio” nel Gran Ducato di Toscana, che consentiva di mantenere la propria lingua se non negli atti pubblici in generale, almeno nei tribunali, negli atti notarili e nelle scritture private. E questo avveniva perché in quella regione si parlava l’italiano più perfetto e puro, che altrove non era invece ancora consolidato. Il decreto istituiva allo stesso tempo un “premio annuale di 500 napoleoni (…) per gli autori le cui opere contribuiranno nel modo più efficace a mantenere la lingua italiana nella sua purezza.” Con questo spirito, nel 1811 Napoleone ricostituì l’Accademia della Crusca che trent’anni prima Leopoldo de’ Medici aveva sciolto, e nel rifondarla come ente autonomo le affidava l’assegnazione del premio istituito, la missione di conservare la purità della lingua, e il compito di occuparsi della quinta edizione del Vocabolario della lingua italiana.

Nonostante il riconoscimento e la valorizzazione dell’italiano si potesse leggere come la prova più evidente che non ci fosse alcuna volontà di imporre la lingua dei conquistatori ai conquistati, nel complesso, però, sulla politica napoleonica prevalsero i pareri negativi, e per molti rappresentava una minaccia che si intrecciava con quella della solita dominazione straniera. E i dibattiti furono molto vivaci.

La lingua come strumento di potere morbido

Il francese, già da tempo lingua dominante, conobbe in quegli anni una forte espansione. Nel 1796, Napoleone aveva eliminato ogni restrizione che limitava la libertà di stampa, il che determinò un’esplosione di nuovi periodici e riviste. Nel moltiplicarsi, questi giornali talvolta alternavano articoli in italiano ad altri direttamente in francese per raggiungere un pubblico internazionale e più ampio. Ma anche i pezzi in italiano erano spesso improntati alla diffusione della cultura francese, soprattutto del teatro o dei libri. Mettere in risalto i prodotti culturali francesi e la celebrazione della loro grandeur era funzionale anche alla diffusione della lingua, che a sua volta era strategica per la francesizzazione culturale. Qualche secolo prima era successo qualcosa del genere anche con la dominazione spagnola, che aveva favorito la circolazione di molte opere nella lingua dei conquistatori, da Cervantes alle grammatiche. In modo ben più consistente, in epoca napoleonica uscirono decine di grammatiche francesi, che si rivolgevano non solo alle scuole, ma a chiunque volesse apprendere agilmente la lingua.

Oggi avviene qualcosa di simile, ma con ordini di grandezza superiori, con la diffusione dell’inglese e con la celebrazione dell’egemonia culturale d’oltreoceano che permea l’intero panorama mediatico e culturale, dai film alla tv, dall’intrattenimento a internet. La differenza è che tutto ciò è oggi accettato in modo acritico con entusiasmo, mentre nell’Ottocento la polemica nei confronti della cultura e della lingua francese era accesissima.

Con spirito patriottico, un’ondata di intellettuali si scatenò contro la supremazia del francese, e nel 1810 il conte piemontese Carlo Vidua, in un carteggio con il torinese Cesare Balbo che a quei tempi era un funzionario napoleonico, discuteva su quale lingua scegliere per comporre un’opera storica che Balbo intendeva scrivere:

Resta la lingua da scegliere. Ma che potrò io dirti, che tu già non comprenda? Dirotti io, che per la tua carriera hai bisogno di studiar a fondo la Francese? Questa è la verità, che non solo tu capisci; ma che ti muove al segno di abbandonare la più bella lingua e la tua per lei. (Lettera n° 51 Al Sig, Cesare Balbo del 12 luglio 1810 in Lettere di Carlo Vidua pubblicate da Cesare Balbo, Torino, Giuseppe Pomba 1834, 3 voll., vol I, p. 174).

Vidua perorava in modo sentito la causa dell’italiano, pur comprendendo che il francese era strategico per Balbo, perché per un uomo nella sua posizione quella lingua era diventato un requisito per accedere alle cariche amministrative e far carriera. Ma non poteva credere che l’amico patriota volesse davvero abbandonare la propria lingua per “una straniera, ed a quale!”.

Oggi è l’inglese a essere strategico per chi vuol far carriera nel lavoro e in ogni altro ambito, e quando uno scienziato decide di pubblicare le sue ricerche in inglese lo fa anche perché, se pubblicasse in italiano il suo articolo non sarebbe altrettanto considerato né letto. Eppure nessuno sembra mettere in discussione i risvolti negativi di questa prassi e di queste scelte, anzi, l’abbandono dell’italiano in favore dell’inglese internazionale viene salutato come un fatto positivo, a partire dalle università che cancellano i corsi in italiano per insegnare direttamente in inglese.

Carlo Denina

A fine Settecento, il letterato piemontese Carlo Denina, noto anche come l’abate di Rovello, auspicava che il francese prendesse il posto del latino nell’educazione religiosa, nella scuola e nell’amministrazione dei Savoia. Ma nel 1803, in piena era napoleonica, si spinse ben oltre, e arrivò a mettere in discussione persino l’italiano nella sua interezza in favore della lingua di Molière che avrebbe potuto unificare linguisticamente il nostro Paese in modo per lui più vantaggioso. In un Discorso sull’uso della lingua francese, l’introduzione ufficiale di quella lingua nello Stato era considerata propedeutica anche a una diffusione della stessa lingua sul piano nazionale e letterario:

Io non dubito (…) che la riunione del Piemonte alla Francia, e l’ordine venuto in seguito di usare negli atti pubblici la lingua francese in vece dell’italiana, debba anche cangiar tosto o tardi la lingua letteraria del paese. (…) Cotesto cangiamento di lingua sarà molto più vantaggioso che nocevole. Passato che sia quel turbamento, quel disturbo che arrecar deve nel primo arrivo, io tengo per cosa certissima che i nostri nipoti scriveranno in francese più facilmente assai che i nostri antenati e contemporanei abbiano potuto fare scrivendo in italiano.

Per fare in modo che il francese prendesse il posto dell’italiano, ancora una volta era necessario partire dalla scuola.

Oggi i linguisti “descrittivisti” che hanno rinunciato a intervenire sulla lingua – a parte regolamentare la femminilizzazione delle cariche o il politicamente corretto, che evidentemente sono interventi leciti – ci raccontano la favola che le lingue nascono dal basso, che non è possibile controllarle e altre strampalate affermazioni avulse dalla storia e dalla realtà. Dunque fanno finta di non vedere che l’attuale regressione dell’italiano è connessa all’espansione dell’inglese globale, e dipende anche dalle nuove politiche linguistiche di cui negano l’esistenza.

Infatti l’Europa da qualche decennio ha deciso di investire milioni di euro per creare le generazioni bilingui a base inglese, e di introdurlo nelle scuole a partire dai primi anni, come tutti sapevano bene fosse essenziale già nel Settecento. Questo metodo di evangelizzazione inguistica ben spiegato dal prefetto del dipartimento del Po, Loysel, si attua oggi nei confronti dell’inglese, in una svolta che risale alla riforma Moratti ai tempi delle famose tre “i” di Berlusconi (Internet, Impresa, Inglese) divenute la parola d’ordine da introdurre nelle scuole. La riforma Gelmini del 2008 ha ampliato il numero di ore di inglese e nel 2010 ha trasformato la conoscenza di questa lingua in un requisito anche per la formazione degli insegnanti che devono saperla, indipendentemente dalla disciplina che insegnano, a un livello pari al First Certificate dell’Università di Cambridge. Dalla scuola si è poi passati ai concorsi per la pubblica amministrazione: se in un primo tempo era obbligatorio conoscere una “seconda lingua”, con la riforma Madia l’espressione è stata sostituita con la “lingua inglese”, che è diventata obbligatoria; chi non la sa non può accedere ai concorsi, anche se esula dalle sue competenze lavorative, e anche se conosce altre lingue che non godono però di un analogo riconoscimento.

Il controllo della scuola

Nell’Ottocento, l’ascesa di Napoleone fu solo una meteora durata meno di un decennio. Nel 1815 arrivò la Restaurazione che riportò l’Italia alla situazione precedente, con il ritorno degli austriaci in Lombardia, e la disgregazione del Paese nei precedenti staterelli. La francesizzazione era fallita, ammesso che fosse stato possibile realizzarla, e l’italiano tornò in auge, anche se la gente parlava nel proprio dialetto e non c’era affatto un modello di italiano condiviso.

All’indomani dell’unità d’Italia del 1861, visto che l’italiano doveva essere introdotto in modo ufficiale, e in qualche modo insegnato e regolamentato in modo uniforme, fu istituita la Commissione Broglio, con il coinvolgimento di Alessandro Manzoni, per tentare di varare una politica linguistica che introducesse l’italiano proprio a partire dalle scuole. Manzoni e Broglio avrebbero voluto toscanizzare tutti a forza, con un programma di soggiorni studio degli insegnanti a Firenze, e l’invio di maestri toscani per il Paese che facessero scuola. Questa soluzione fu avversata da altri, qualcuno parlò di “dittatura del toscano” e vedeva in quella politica una sorta di progetto coloniale. Anche l’idea di un dizionario ufficiale di Stato fallì, perché non c’era un accordo su quale fosse il modello dell’italiano unitario da diffondere.

Nel frattempo, nel secondo Novecento, l’italiano unitario si è realizzato, sotto la spinta dell’industrializzazione dell’avvento del sonoro di cinema, radio e televisione, oltre che grazie alla scuola. Ma oggi le università puntano all’abbandono dell’italiano per insegnare direttamente in inglese, la stessa scelta che fanno gli scienziati. Se le riviste ai tempi di Napoleone puntavano alla diffusione della cultura e della lingua francese, oggi i mezzi di informazione celebrano la grandeur della nuova cultura Americana, che però è un sistema ben più pervasivo della conquista napoleonica, nel nuovo scenario di Internet, della globalizzazione e del nostro essere inglobati nell’anglosfera dal punto di vista politico, culturale, sociale, militare e in ogni altro aspetto.

La politica di Broglio-Manzoni fu duramente avversata e messa in discussione, per esempio dal glottologo Isaia Ascoli che si appellava alla malsana idea della “selezione naturale”, invece di una politica linguistica a cui era contrario. E la sua polemica con Manzoni sollevò un vespaio che per decenni infuocò letterati, intellettuali, linguisti, patrioti, editori, librettisti e l’intero Paese.

Oggi invece, davanti all’anglicizzazione dell’italiano che ha reso il modello toscano un ricordo del passato, e davanti all’anglificazione della scuola, tutto tace. Non c’è alcuna resistenza né consapevolezza del fatto che si tratta di un progetto coloniale. La nuova classe dirigente dei figli di Denina ha sposato l’inglese, a quanto pare. Sul piano interno gli anglicismi vengono preferiti e legittimati, e su quello internazionale si difende la soluzione dell’inglese, in un appiattimento culturale di accettazione del globish che arriva dall’interno, davanti al quale la visione coloniale di Napoleone era un progetto da principianti. E dietro la bufala della selezione naturale si cela una ben precisa politica linguistica anglofila che non può che favorire la lingua del più forte e la regressione dell’italiano.

https://diciamoloinitaliano.wordpress.com/2024/07/08/anglomani-figli-di-denina/

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Tra pochi giorni sarà formalizzata la decisione dell’università di Bologna che ha deciso di sopprimere il corso di Economia del Turismo in italiano che si svolge a Rimini. Dal prossimo anno diventerà “Economics of Tourism and Cities” e si terrà solo in lingua inglese.

Qual è la novità? Il corso in inglese era già stato introdotto e già esisteva: la novità è che viene abolito quello in italiano per insegnare solo in inglese.

Questa decisione ha suscitato le proteste sia dei cittadini, che vogliono studiare nella propria lingua madre visto che è un loro diritto e che pagano le tasse, sia dalle associazioni degli albergatori che spiegano come quell’indirizzo di studi avesse da sempre un fortissimo legame con il territorio. In pratica gli studenti che uscivano da quel corso trovavano subito lavoro nelle realtà alberghiere locali. E l’offerta formativa di quella facoltà richiamava a Rimini moltissimi studenti giovani provenienti da ogni regione d’Italia. La sua cancellazione per passare all’inglese punta soprattutto agli studenti stranieri, che però una volta formati non lavoreranno a Rimini ma torneranno nei propri Paesi, anche perché se non parlano in italiano cosa li può trattenere?

Visto che nessuno o quasi dà voce al malcontento, l’associazione/portale Italofonia ha mobilitato tutti gli Attivisti dell’italiano predisponendo un modulo per inviare una protesta digitale indirizzata all’Università e in copia al Ministero dell’Università e Ricerca, all’accademia della Crusca, e ai giornali locali.

In pochi giorni sono partite centinaia e centinaia di proteste, tanto che il Resto del Carlino ha titolato: “Pioggia di mail all’Università: Salvate il corso in italiano”.

Intanto, la pioggia si fa sempre più fitta, e l’ateneo – spiazzato – ha dovuto rispondere attraverso una dichiarazione che lo stesso giornale ha riassunto in nuovo pezzo: “Corso di laurea in inglese: Una scelta condivisa“.

La risposta non ascolta né tiene conto dei pareri contrari e dei cittadini, annuncia di continuare nella strada intrapresa, e rivolta la frittata sostenendo che si tratterebbe di una “scelta condivisa” (da chi? dai vertici della scuola-azienda che non racconta di come l’associazione Promozione Alberghiera si sia invece espressa in senso contrario, secondo le testimonianze raccolte) appellandosi alle solite tiritere:

Le scelte che riguardano i progetti didattici sono il risultato di un percorso ben definito, lungo e con diversi passaggi. Un corso di laurea ha una gestazione pluriennale. Si tratta di scelte meditate, non certo di decisioni prese dall’oggi al domani. L’inglese è una lingua che apre al mondo. Per il territorio è un’opportunità (…) Dopo un’attenta e ponderata valutazione, abbiamo optato per l’inglese come lingua ufficiale del corso, scelta in linea con l’elevato livello di internazionalizzazione che caratterizza tradizionalmente il campus di Rimini.”

Queste scelte “meditate” seguono gli interessi dell’ateneo, che non coincidono con quello dei cittadini e degli italiani. Attraverso la manipolazione delle parole, la cancellazione dell’italiano e le difficoltà degli studenti si trasformano in un’imprecisata “opportunità per il territorio”. Il concetto di “internalizzazione” cela invece l’insegnamento in inglese e solo in inglese – non nelle lingue straniere e all’insegna del plurilinguismo – e forse si potrebbe meglio parlare di colonizzazione linguistica e di dittatura dell’inglese, visto che questa strana “internalizzazione” a senso unico implica l’anglificazione della formazione dei Paesi non anglofoni. Come se tutti i turisti tedeschi, spagnoli, francesi e gli altri che giungono in Italia si esprimessero normalmente in inglese (altra bufala che non risponde alla realtà).

Dietro questa visione c’è in gioco il diritto di studio nella nostra lingua madre, una partita vitale per l’italiano.

Italofonia ha intervistato un’albergatrice nonché mamma di uno studente che ha spiegato disperata:

Mio figlio e gli altri ragazzini della sua classe non possono più scegliere. Vede, noi siamo a Rimini, qui c’è il cuore del turismo, noi viviamo di turismo, e questa facoltà era molto ambita dai ragazzi di zona.  Ed era già in due lingue, ma separate: un percorso di Economia del Turismo, in italiano, pensato per le esigenze del territorio, e Turismo Internazionale, in inglese. Ora questa scelta è stata tolta. E questo li metterà in difficoltà.

Passando dal punto di vista dei cittadini a quello di un esperto come Michele Gazzola [1], economista dell’Università dell’Ulster che ci ha risposto appoggiando il nostro appello, le motivazioni di queste scelte che portano all’anglificazione della formazione universitaria nascono da un preciso interesse economico.

La parola chiave per comprendere ciò che è in atto da tempo e che nei prossimi vent’anni potrebbe esplodere in modo ancora più profondo è “razionalizzazione”, ci ha scritto Gazzola, che ha così sintetizzato la questione:

Le università hanno prima aperto corsi paralleli in italiano e in inglese, e adesso stanno chiudendo quelli in italiano perché costa troppo averne due uguali, e perché tanto sanno che con un corso in inglese possono coprire sia il mercato nazionale (sempre più piccolo a causa della denatalità) sia quello internazionale. Tanto lo studente italofono non ha scampo, può studiare in italiano solo in Italia (e in pochissimi altri posti all’estero), quindi se lo si priva del corso in italiano non andrà via.

L’ateneo di Bologna, insomma, pensa solo ai propri interessi e a reclutare gli studenti stranieri per fare numero e batter cassa – è il bel modello delle nuove scuole-aziende che hanno come “mission” il profitto — ed è poco interessato al diritto allo studio in italiano. Dietro le motivazioni ufficiali c’è proprio il fatto che il numero degli iscritti non è poi così interessante per l’Università che si vuole allargare a scapito della qualità della didattica e delle esigenze reali degli studenti del nostro Paese.

Il progetto di cancellazione dell’italiano dalla scuola alta

Tutto è iniziato al Politecnico di Torino che nell’anno accademico 2007-2008 ha avviato i primi corsi in inglese rendendoli gratuiti, al contrario di quelli in italiano, per fare in modo che partissero con un buon numero di iscritti. Ma così facendo discriminava il pubblico pagante che voleva studiare in italiano.

Il secondo episodio, ancora più grave perché ha costituito il precedente che ha fatto saltare il sistema, è avvenuto nel 2012, quando il Politecnico di Milano ha deciso di estromettere l’italiano dalla formazione di ingegneri e architetti che avrebbero potuto studiare solo in inglese. Maria Agostina Cabiddu [2], docente di Istituzioni di diritto pubblico, ha raccolto le proteste di un agguerrito gruppo di insegnanti che, dopo un appello al presidente della Repubblica Mattarella, si sono rivolti al Tar della Lombardia che ha dato loro ragione.

Ma l’ateneo e il Miur – cioè il Ministero dell’istruzione italiano che pare lavorare in favore dell’inglese – non hanno accettato il verdetto e si sono opposti. Dopo lunghi e complicati corsi e ricorsi in cui è intervenuta anche la Corte Costituzionale, è finita con una sentenza (a mio avviso “cerchiobottista”) che da una parte sanciva la “primazia” della lingua italiana nell’università, ma ammetteva i corsi in inglese con una logica di buon senso e proporzionalità che però non era definita, ma lasciata alla discrezione delle parti. E nell’atto finale della vicenda è andata a finire che il Politecnico se ne è infischiato della “primazia” sancita solo sulla carta, e ha continuato a erogare corsi quasi esclusivamente in inglese con una concezione della proporzionalità diciamo così “discutibile”. In sostanza lo spirito della legge viene aggirato con il semplice inserimento di qualche sporadico corso in italiano, magari delle materie più marginali.

Tutto ciò non era affatto destinato a rappresentare un caso isolato, fa parte di un preciso progetto – imposto dall’alto in modo surrettizio e senza interpellare gli italiani – che negli anni successivi si è diffuso in modo sempre più preoccupante. Gli altri atenei-aziende aspettavano solo la via spianata per seguire la stessa strategia per loro più remunerativa. E infatti, Maria Agostina Cabiddu, un’altra importantissima voce che ha raccolto il nostro appello, ha commentato:

Ci eravamo mossi a suo tempo proprio perché avevamo capito che si trattava di un progetto pilota.

Quello che è avvenuto negli anni successivi e quello che sta avvenendo in questi giorni è l’allargamento di questo modello, che dopo tanti altri casi è da poco stato perseguito anche dalla Bocconi di Milano, ma soprattutto rischia di estendersi anche alle scuole secondarie, come ho già denunciato a proposito del liceo Avogadro di Torino.

La novità delle proteste di Rimini è che a mettere in discussione questo progetto “italianicida” e “linguicista” [3] non ci sono solo associazioni come Italofonia e comunità virtuali come quella degli Attivisti dell’italiano, ma anche gli stessi imprenditori, le associazioni degli albergatori, e i cittadini che lottano – mi sembra impossibile doverlo raccontare – per il diritto alla studio nella propria lingua madre!

Tutto ciò è inaccettabile. Ed è inaccettabile che la cancellazione dell’italiano dalle scuole avvenga nel silenzio mediatico – a parte un giornale locale come il Resto del Carlino – e nel vuoto di prese di posizioni di intellettuali e politici.

La speranza è che le nostre proteste possano almeno riaprire un dibattito. La decisione dell’Università di Bologna sembra ormai presa, anche se formalmente sarà ufficializzata entro il 29 febbraio. Ma è importante far arrivare più voci possibili di dissenso per cercare di fare in modo che altri atenei, prima di scegliere di andare in questa direzione, debbano tenere conto anche delle resistenze dei cittadini oltre ai numerini del proprio “businness plan”.

Chi vuole aiutare i riminesi, gli albergatori, Italofonia e soprattutto il diritto allo studio in italiano e la lingua italiana si faccia sentire, e si unisca al nostro appello.

In meno di 30 secondi puoi aderire alla protesta sottoscrivendo e inviando un messaggio precompilato, ma è possibile personalizzarlo a piacere, attraverso il modulo a fine di questo articolo.

Grazie.

Antonio Zoppetti

——–

Note
[1] Per approfondire la questione: Michele Gazzola, “La ‘anglificazione’ dell’università in Europa è evitabile?Analisi e proposte per una università plurilingue” (2023).
[2] Maria Agostina Cabiddu ha curato: L’italiano alla prova dell’internalizzazione (goWare ed Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA, 2017).
[3] Il linguicismo è concetto introdotto dalla finlandese Tove Skutnabb-Kangas: come il razzismo e l’etnicismo discriminano sulla base delle differenze biologiche oppure etnico-culturali, il linguicismo è la discriminazione in base alla lingua madre, che porta a giudizi sulla competenza o non competenza nelle lingue ufficiali o internazionali.

https://diciamoloinitaliano.wordpress.com/2024/02/19/la-partita-per-estromettere-litaliano-dalluniversita-e-la-protesta-che-parte-da-rimini/

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Di Antonio Zoppetti

Qualche giorno fa, scanalando tra i programmi televisivi mi sono imbattuto in una trasmissione in cui un amabile e colto esperto di antiquariato stava stimando un oggetto di porcellana di una signora intenzionata a venderlo. Il nome del programma – anzi format – come sempre era in inglese, Cash or Trash, solo affiancato da un’esplicazione in italiano (Chi offe di più?) con la stessa logica commerciale dei titoli di film che non vengono più tradotti. Nel caso serva un rafforzo in italiano di solito viene inserito in seconda posizione, dopo l’inglese, una scelta non casuale e ben ponderata che serve a imporre questa lingua, e allo stesso tempo a stabilire una ben precisa gerarchia. L’inglese ha la precedenza perché è lingua di prestigio e superiore.

Tornando ai fatti, l’autorevole esperto ha cominciato a esaminare l’oggetto per valutarne l’epoca, la fattura e tutto il resto, e a proposito dell’integrità si è accorto che il valore era sminuito dal particolare che la base era lievemente scheggiata, in altre parole presentava delle sbeccature o sbrecciature (ma si può dire anche sbocconcellature). Indicando quel difetto ha detto più o meno:

“Vede qui? Queste si chiamano chips, e sono una sorta di sbeccature, potremmo dire.”

Proviamo ad analizzare quest’ultima frase in profondità per sviscerare, come faceva Freud, il substrato psichico che produce questo tipo di linguaggio.

PUNTO 1 – Il contesto comunicativo “verticale”

Partiamo dal ruolo dell’esperto, che mette in scena la sacralità di cui colui che sa, e dunque spiega a chi non sa. La comunicazione con la venditrice non è sullo stesso piano (diciamo orizzontale), la donna si trova nella condizione inferiore tipica del discente. Il suo stato psicologico è quello di chi riceve e pende dalle labbra del maestro. Tutto quello che ha in mente è probabilmente solo sapere il prezzo della sua mercanzia, l’obiettivo primario, ma nell’essere edotta allo stesso tempo scopre che ciò che inficia il valore del suo manufatto si chiama “chips”, parola che di sicuro non conosce, o meglio avrà già sentito ma con altro significato, quello di patatine.

Un po’ di tempo fa in un locale ho ordinato una birra e ho chiesto di avere anche due patatine. Il ragazzo mi ha chiesto: “Chips?”.
“Patatine”, gli ho risposto. “Sì, ma chips?” Ha insistito. A quel punto ho capito il suo dilemma. Non sapeva se volessi un piatto di patatine fritte calde e fumanti, a pagamento, o se intendessi una ciotola con le patatine confezionate che come le noccioline accompagnano gli aperitivi e sono in omaggio. “Patatine normali, quelle del sacchetto” ho specificato. “Ah, perfetto, le chips!” Ha concluso.

Qualcosa di simile mi è accaduto in un’altra occasione in una specie di profumeria quando cercavo un regalo natalizio. Il negozio era grande – e veniva presentato dunque come uno store, mica come un semplice negozio – e abbastanza affollato. Curiosavo tra gli scaffali con in mano il prodotto scelto, e mi si è avvicinato un commesso chiedendomi se avevo bisogno di una bag. Credevo mi volesse vendere un sacchetto da regalo, e gli ho domandato quanto costasse. “No, una bag”, ha risposto indicandomi delle borse per i clienti che servivano per contenere i prodotti da presentare alla cassa, come i carrelli della spesa.

In tutti e tre gli esempi abbiamo a che fare con un meccanismo piuttosto simile. L’addetto ai lavori – detentore del linguaggio – impone una terminologia in inglese al cliente, invece di usare l’italiano. Lo fa in modo inconsapevole, con spirito educativo e in questo modo insegna la newlingua all’interlocutore, che la impara ed è ora pronto a ripeterla.

PUNTO 2 – Differenziazione dei significati e cancellazione dell’italiano

…Si chiamano chips, e sono una sorta di sbeccature, potremmo dire.
In una frase manipolatoria come questa, l’introduzione dell’inglese si porta con sé una giustificazione che nasce dalla volontà di farlo apparire più preciso o prestigioso (dunque ai vertici della gerarchia e della diglossia). Ho chiamato questo meccanismo “non-è-proprismo” perché consiste nel fare credere che la parola inglese abbia una sua necessità, e dunque si differenzierebbe dall’analoga parola che abbiamo sempre usato nella nostra lingua madre. De Amicis, nell’Idioma gentile, aveva caricaturato questo atteggiamento con la macchietta del visconte La Nuance, sempre pronto a dimostrare che ogni francesismo possedesse una presunta differente sfumatura di significato, una nuance appunto, che l’italiano non avrebbe. Oggi avviene lo stesso con l’inglese che nell’entrare idefinisce tutta l’area semantica delle parole già esistenti, e nel farlo sottrae loro un ambito e le fa regredire (se si impone chips che fine faranno sbeccatura, sbrecciatura o sbocconcellatura già oggi poco conosciute, benché tecnicamente perfette per descrivere i fatti?). Ed ecco che l’esperto, nell’introdurre “chips” spiega che è una “sorta di sbeccatura”. In questo modo lascia intendere che non è proprio come una semplice sbeccatura, è di più: e infatti gli addetti ai lavori dicono così. Probabilmente anche il commesso della profumeria sarebbe stato pronto a spiegare che una bag non è proprio una borsa, un sacchetto o una sportina, e il barista mi avrebbe spiegato che le chips sono le patatine confezionate, al contrario di un piatto di patatine. Il fatto che tutto ciò sia semplicemente falso, e che in inglese non esista affatto questa differenza, sembra non avere alcuna importanza. Anzi sembra non possedere nemmeno una sua realtà.

PUNTO 3 – L’alienazione linguistica

In Psicopatologia della vita quotidiana Sigmund Freud indagava sulle disfunzioni della memoria e interpretava i lapsus, la dimenticanza dei nomi o delle parole straniere non come dei fatti casuali, ma come dei meccanismi inconsci di rimozione che si impongono sulla nostra coscienza. E scriveva:

“I vocaboli di uso corrente della lingua madre non possono, nei limiti del normale funzionamento delle nostre facoltà, cadere nella dimenticanza. Ovviamente, per quanto riguarda i vocaboli di una lingua straniera, le cose stanno diversamente. In questo caso, la tendenza a dimenticarli esiste…”.

Questa convinzione ritorna spesso nel saggio, anche a proposito dei lapsus linguae:

“Mentre il materiale usato nei discorsi fatti nella lingua materna non sembra soggetto a dimenticanza” sono invece frequenti i lapsus.

Freud è ormai stato abbandonato e superato, ma è interessante notare quanto questa visione sia inapplicabile all’odierna realtà dell’italiano, e degli italiani, che sembrano invece dimenticare la lingua madre per sostituirla con quella inglese in un processo che lo psicanalista avrebbe di sicuro ricondotto alla “rimozione” e che potremmo meglio definire attraverso il concetto di “alienazione linguistica”.
In una trasmissione come Cash or Trash ogni oggetto datato, d’epoca, della nonna, o “retrò” (alla francese) è denominato vintage, mentre non c’è l’oggettistica di “lusso” bensì il luxury, pronunciato sempre rigorosamente in inglese, nonostante sia un termine ben più lungo dell’italiano, a proposito di chi blatera che il ricorso all’inglese dipenderebbe dal fatto che è più sintetico e maneggevole.

La verità è un’altra, e la solita: il passaggio dall’italiano all’inglese nasce invece da un processo di alienazione dovuto al considerare quella lingua superiore e più prestigiosa, e dunque è dovuto a un complesso di inferiorità nei confronti della propria lingua madre. Questo è il vero motore, a volte inconsapevole, istintivo o inconscio (per dirla con Freud) che emerge attraverso processi di giustificazione come quelli indicati al punto 2) e attraverso meccanismi come quelli del punto 1) che – come i lapsus – sono inconsci, ma allo stesso tempo se sono analizzati in profondità rivelano una forma mentis che deriva dal pensare in inglese invece che in italiano.

E a questo punto bisogna abbandonare l’approccio psicologico del singolo parlante e passare dalla “psicolinguistica” alla “sociolinguistica”, perché affermare che le “sbeccature si chiamano chips” non ha a che fare con un disturbo mentale di un singolo individuo, ma con una mania compulsiva, che appartiene alla nostra società, dove ogni singolo individuo tende a comportarsi e a replicare una tendenza collettiva.

PUNTO 4 – I centri di irradiazione sociali della lingua

Gramsci è stato uno dei primi a porsi la questione della lingua come fatto sociale, e più che alle grammatiche dei linguisti guardava a quella “grammatica” che “opera spontaneamente in ogni società”, quella che si segue “senza saperlo” e che tende a unificarsi in un territorio da sola e senza essere normata (Antonio Gramsci, Quaderno 29 [XXI], § 2.), in altre parole: al linguaggio popolare.
Questa grammatica “immanente nel linguaggio stesso” nasce da una serie complessa di fattori che si intrecciano, e una lingua nazionale unitaria prende forma attraverso questi processi complessi quando esiste una necessità. La lingua che prende forma nel popolo è perciò l’imitazione (e il ripetere) dei modelli linguistici che arrivano dall’alto, cioè dalla classe dirigente, e il processo di “conformismo linguistico” – cioè il propagarsi di una lingua che tende a codificarsi in un certo modo condiviso e riconosciuto da tutti – avviene attraverso i “focolai di irradiazione” della lingua che negli anni Trenta aveva individuato nella scuola, nei giornali, negli scrittori sia d’arte sia popolari, nel teatro, nelle riunioni civili di ogni tipo (da quelle politiche a quelle religiose), nel cinema e nella radio. La lingua, come prodotto sociale, nasce in questi luoghi e da queste interazioni.
Trent’anni dopo Pasolini si era accorto che i nuovi centri di irradiazione della lingua erano ormai i centri industriali del nord, e che la nuova lingua tecnica e industrializzata arrivava da lì, e se tutti da Palermo a Milano parlavano di “frigorifero” era perché quella parola nasceva ed era diffusa dall’industrializzazione.

Oggi i nuovi centri di irradiazione della lingua non sono più nell’asse Milano-Torino come negli anni Sessanta, provengono direttamente dall’anglosfera, e la lingua che importiamo in modo diretto da fuori d’Italia entra in modo crudo e senza essere mediata da alcun processo di adattamento, traduzione o creazione di parole nostre. Queste parole spesso non coincidono con “cose” nuove, tutt’altro: sostituiscono le parole della nostra lingua materna che il povero Freud considerava impossibili da dimenticare, ma che invece dimentichiamo e gettiamo via, come è accaduto al calcolatore abbandonato per il computer, e come nel caso di una sbeccatura che diviene chip. Ma anche come nel caso di chi parla di reputation invece di reputazione, di vision invece di visione, di underdog invece di sfavorito, di cashback invece di rimborso e via dicendo. In questi ultimi casi la lingua materna resiste, ma finisce per diventare meno prestigiosa rispetto ai suoni in inglese, dunque possiede uno status sociale inferiore, che ne mette a rischio la sopravvivenza e il futuro.
In altre parole, nella riorganizzazione culturale e linguistica dei nostri tempi al centro della newlingua che non arriva affatto dal basso, come in molti vorrebbero far credere, c’è il costruire l’esigenza e la necessità – per dirla con Gramsci – dell’inglese. Il commesso che ti offre la bag, il barista che ti parla di chips… stanno creando la “necessità” di queste nuove parole in inglese.

Intanto, rispetto all’epoca di Freud, Gramsci e Pasolini, i nuovi centri di irradiazione della lingua si sono arricchiti non solo della televisione, ma anche del mondo digitale, pensato in inglese ed espresso in inglese. E dopo l’epoca delle riunioni religiose o politiche i nuovi fari che ci illuminano di inglese sono rappresentati dalla lingua dell’informatica che non viene tradotta, così come accade nel lavoro, nella scienza, nelle pubblicità… dove gli anglicismi sono predominanti.
La forma mentis di chi ti insegna che le sbeccature si chiamano chips è quella di chi è stato plasmato a ragionare nella lingua superiore, e la diffonde in modo inconsapevole come un colonizzatore, per il semplice fatto che la sua mente è ormai stata colonizzata. Esattamente come è colonizzata quella dei linguisti che ci spiegano che esistono i prestiti di necessità, una concettualizzazione che apparentemente descrive questa necessità, ma che nella realtà la presuppone, introduce e impone, facendo finta di dimostrarla con pseudo-argomentazioni imbarazzanti.

https://diciamoloinitaliano.wordpress.com/2024/02/05/psicopatologie-dellinglese-quotidiano/

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2022-06-15

@quattro_bit @Snowden ai tempi del liceo aborrivo l'italiano e bramavo la diffusione del #milanese. Ora pur amando la lingua del bardo mi trovo a difendere l'#italiano da una triste e strisciante #anglificazione, segno di una dilagante ignoranza di chi l'italiano dovrebbe padroneggiarlo, essendo strumento di lavoro: i #giornalisti.
Ad ogni modo, W tutte le lingue, *specialmente* quelle locali

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