Antonio Sagredo, il dovere della poesia, È un io che tenta disperatamente di stabilirsi come luogo di articolazione del senso e invece si ritrova attraversato da voci, suoni, maschere che non gli appartengono. È un io che recita sulla ribalta di un Teatro dell’assurdo. Il poeta recita un rito senza officianti, senza altare, e perfino senza fede. Una carriera poetica ha sempre una dimensione cortigiana, appartiene alla Corte è una plusvalenza della Corte e, come tale viene riconosciuta a Corte.
da IL DOVERE DELLA POESIA
Mi dicono che la finzione è il mio limite,
che dal marmo tracimano le memorie dei Morti.
Ti devo lasciare, Poesia, la mediocrità mi aspetta
per inventare un passato di cui nulla si conosce.
Inchiodato sulla soglia di una storta luce
era il mio passo deciso e la mente remota al di là
dei marosi e gli applausi di sale. Il canto delle mie mani
nei calici e nel sangue delle mie preghiere i misteri.
Il congedo della carne mi salutava con tardiva sapienza
quel mattino di leuca nei cori del decimo requiem.
Ai lutti era concesso il rimpianto di una corona viola.
Ossa – memoria della carne!
Si parlava tra vicoli e crocicchi di finte resurrezioni,
di angeli incurvati e ruvidi nel carparo ingiallito.
Corrotti dal salmastro i gesti macerati dell’attore salentino.
Da un carro di lauri lacrime di cartapesta cantavano.
Roma, 13\14 maggio 2025
io vedea passar gli antichi
mostri e gli eterni lutti.
(D’Annunzio)
Il dovere della poesia
Se sono stato generato dal fuoco
perché sono immobile sulla soglia con occhi arsi
e le mie ceneri sparse tra i marosi?
Fui presente alla mia esecuzione come un novello martire
d’altri tempi, e dal mio corpo pendula era la voce della luce,
una banderuola votata all’ignoto aragonese.
La condanna si fermò di botto quand’ero sul viottolo
a vaneggiare coi numeri delle rote, e fu un preludio
alla Notte del Cordoglio e nessun rimpianto d’ossa
mutò la mia preghiera in fittizia risurrezione,
quando dominai la luce e la voce, ma non la condanna.
Ma di quali sorgenti io vaneggio sul viottolo
segnato dalle rote come presagi dei Numeri?
Sul mio corpo la voce della luce fu presente alla esecuzione,
non il Martire immobile sulla soglia con occhi arsi.
E le mie ceneri ancora nel mare
se generate dal fuoco – sono accese?
Roma, 5\7 giugno 2025
Ancora ci sposiamo con Isotta
Ancora ci sposiamo con Isotta e le sue note.
Da preludi in deliquio e da specchi notturni
vediamo i suoni di pentagrammi viola,
e dai calici fra sponsali e attori
tracima un mancamento dal nero legno,
e mi rimprovera Pamina che la commedia
è ferma per un mio errore di spartito e di vocali
impastati a una partitura in disaccordo .
Che l’armonia io non so che sogni-accordi esegue
e non so quali strumenti in rivolta tacciono
se i suoni come trucioli non si spargono sul palco,
ma dal capestro dondola pigro il canto di una folle sinfonia.
Non accusatemi se la commedia da sola s’è ripresa
da quando accesi con gli occhi di Pamina i fatui fuochi
e le paludi e gli stagni mi hanno eletto un Senza Corona.
Non ho da offrire nemmeno un cuore in contumacia.
Roma, 9 giugno 2025
*
Soltanto versi e saluti al visionario
Soltanto versi e saluti al visionario
che i circoli evita per compassione
e alle rette vie che non sanno il centro
resta una pietas sfiorita sulla Terra.
E non c’è modo di affittare una stamberga
dove solo versi e canti alloggiano gratis.
E non si vogliono snaturare le tragedie
per un finale trionfale e una fittizia nemesi.
E ascoltiamo i suoni dei sogni scartati, accucciati
in un angolo ignoto di una oscura materia della conoscenza.
Da una radice sonora ad una sorgente viva un inizio per fissare
una meta che non sa cos’è una partenza e una domanda.
La luce dell’indicibile che ci sorvola e ci trascura
non sa che la creatura è l’unico punto inosservabile.
Come un vino schietto che non produce aceto
il giudizio finale scansa con un brindisi soave.
Roma, 10 giugno 2025
(tardo pomeriggio)
*
Quando il conteggio delle ossa ritornò dall’Anagrafe dei Morti
le mie ceneri truccarono il volto spalmato su uno specchio.
Un grugnito di campane si levò come un corale fra canne d’organo.
Dai merletti si rovesciò il liquido spettro di una resurrezione disattesa.
I tuoi occhi di potassio sono armille oscurate da rancidi tramonti,
come la Pietà Rondanini brillano da un’umida cantina romana.
La sua luce è un amaro trionfo per celebrare gli avanzi feriali,
da secoli le stazioni sono miracoli per una storia evanescente.
Lontano dalle lacrime sulla soglia rugosa
non vedo più i canti oltre i confini ignoti, e il pianto
non è più per me, e fra le mie dita si sciolgono gli occhi
come ghiacciai… le orbite si sono disseccate nel pozzo.
Non mi resta che ignorare il tragitto e con la lingua
marchiare bestemmie come monatti in lacrime e invocare
una voce senza pietà per un’alcova dove svernare la mia vita
guastata dalla Poesia, e poi il Nulla in ogni preghiera…
e l’inizio di una condanna.
Roma, 24-26\06\2025
Prove antiche
Non mi dovevi un addio per antonomasia,
è per un vuoto che si è appassito il tuo volto,
e non ho discrezioni da spartire e da innestare
con un famelico capriccio estremo.
Non ho una tua conferma per adulare l’arbitrio
di un riserbo, e per non aver celebrato il decoro
di un saluto notturno ti dovevo sulla scena,
per essere fedele, una fittizia trama cechoviana.
Ma un errore tragico prevede un assassinio,
una pausa e il bardo inglese in gramaglie nere.
Vestito di bianco in un corpo inerte il re regna ancora!
La sua spada fugge dal sangue e dal mortale enigma.
Il clamore di una fattucchiera sugli altari
rese la parola astiosa per i suoni
e i significati… una mazzata sul capo
di un poeta ingenuo e tranquillo come un muto
*
ossario in una teca antica e in un’epoca
trascorsa fra labirinti di grida, formule strane
che la retta via della fisica deformano in assiomi
innaturali… quanti numeri ancora da scoprire!
E se ne veniva il poeta per il sentiero distorto
dai suoi occhi – una campagna obliqua davanti
e il passo tardo e lento di un Francesco rassegnato
alle cadenze dei suoi versi inattuali – oggi, e per sempre?
La visione di un capestro lo tallonava sino alle viscere,
il suo piede non creava orme e né tracce per una fittizia
testimonianza – la sua storia in un corpo cavo
e solo le sue dita ancora sui leggii segnavano i pensieri.
Le tue conoscenze latine non bastano più,
soltanto per un traduttore straniero ha senso
la memoria, e la terra che ti reggeva i sogni
era desolata, marcia davanti a un rinascimento.
Roma, 29 giugno 2025
(ora terza)
*
Quel rogo di Tolosa vale di più di una croce.
Si dividono l’innocenza fra astragali e tribunali.
Il fuoco conosce il volo che il chiodo fissa
e la terra raccoglie le ceneri più che il sangue.
Il dubbio si addice alla croce e alla favola di Leone
e alla sua indulgenza che irritò Martino.
Non pensate che la fede sia una merce al mercato,
in compra-vendita soltanto la colpa è simile.
Tu mi dici di archiviare le parole e di lasciare alle ossa
dei suoni la crescita dei sensi e dei deliri.
Tu mi consigli l’uso delle metafore durante la veglia,
ma le visioni sono ribelli a una facile comprensione.
I delitti del pensiero e dell’azione sono il marchio
di chi con la voce sottrasse al gesto una disarmonia,
e della fede uno strumento irrazionale per giudicare
il trionfo dei tribunali e dei capestri per un canto senza gloria.
antonio sagredo-1971
*
Mi hai consigliato un sentiero già tracciato dalla storia –
un luogo del tempo che detesto più del giusto disinganno
di non poter immaginare altro se non quel vino materno
che i natali mi offrirono gelosi del mio benestare.
Ma i lampioni triviali di antiche e sfatte contrade
sono sospesi e spenti per un’aurora rancorosa.
Per gli occhi di un polipo o di una medusa in fiamme
ho rinunciato al facile verso di una accademica puttana.
Roma, 2-3 luglio 2025
*
Non posso, non voglio stare dietro ai tuoi fantasmi spenti!
La Clinica della Felicità ha serrato i ranghi depressi.
E non ho voglia di altre succursali – alcove di libeccio antico
dove brillano per la gioia dei pensieri foschi labirinti.
E dai saloni alle stanze gli sguardi in fiamme degli specchi
respiravo indenne con tutti i mali della fattucchiera siciliana.
E qui, vuote, si mutarono in cripta salentina le orbite cave
e gli applausi dei marosi in sibillini variopinti caroselli.
Roma, 7\8\9 luglio 2025
*
Ascoltavo note rovinose e le raffiche mordaci dei sibili,
il vento e il gelo indugiavano nella fioritura angolare.
E la gola di mogano era interdetta per la secchezza dei suoni
turbata dal canto al gradino più basso di una ottava.
Il gesto sovrano era sospeso e la bacchetta in crisi
tardavano gli attacchi per il moto obliquo delle dita.
Il sentiero era un controfagotto a doppia curva.
Per ogni passo il suono di un timbro cavernoso.
Roma, 10\11-luglio 2025
*
Abbiate pietà almeno del poeta e dei suoi sogni, Poesia,
che non ti nascondi per errore, per calcolo o finta invenzione.
Il tragitto non prevede ponti, ma ricavi di errori e di parole
per non abbandonarti a un trionfo privo di visioni.
Attendere da Canossa un perdono e col capo chino una preghiera
è consegnare al potere la disfatta di un nuovo immaginare.
Ma il verso è come una vendetta che conduce al capestro il corpo
di chi senza il pensiero celebra una vittoria presunta senza appello.
E non rinnegare al suo futuro il mistero della parola
– questo sale che regna da secoli è una medicina senza tempo,
e più di una fede conosce gli inferni salutari e i malsani paradisi
che dell’ombra mutano la natura in luminosa ascensione.
La partenza in terza classe fu amata da Boris e Antonio,
che sull’umile legno, fra gli scarti dei vagoni, sognarono
le leggende di due giovani poeti… amici – e l’immortalità vinse
la violenta morte come la legge dei martiri conferma e sigilla.
Roma, 13 luglio 2025
(dall’ora terza alla quarta di leuca)
Maschere
Barattavo una resurrezione ad ogni crocicchio
e come un accattone chiedevo un obolo di cartapesta.
Il miracolo si era rifatto il trucco allo specchio
per essere nel riflesso una maschera carnale.
La stazione tra gli sbuffi catramosi attendeva
la gelosia di Otello tutta festosa, e di bianco pavesata
elargiva sorrisi e sospetti ad ogni trivio esangue
e sotto i lampioni la rossiccia parrucca brillava.
Se ne veniva braccato da quattro candelabri
accesi l’attore che ubriaco di parole saltava
le battute e, smemorato acrobata, giocava
tra le funi e sul palco… danzava la ciaccona.
Sospirava senza requie Otello come un Pierrot alla luna
per rovinare il modello della sua maschera arlecchina.
Sospirava Desdemona come una Ofelia schiacciata
tra i rovi e le canne di un malefico torrente.
Ma la fine dell’atto era prossima al suo trionfo
che fra quinte, palco e poltrone rovesciava
l’assenza in penosa confessione senza fine.
Gli attori decapitati si mutarono in sgraziati
esilaranti burattini.
(Roma, 16 luglio 2025)
Ermeneutica
I
C’è un punto di incandescenza, in Antonio Sagredo (1945), nel quale la parola perde ogni dovere e allo stesso tempo se lo assume con radicalità inaudita. Il dovere della poesia (2025) non è un titolo programmatico, non indica alcun programma o impegno, è il rovesciamento del guanto: la poesia non deve nulla a nessuno, se non forse al proprio stesso collasso. È in questo gesto di auto abrasione che Sagredo si fa riconoscere – come un attore che recita la parte della voce che lo smentisce, come un martire che assiste alla propria esecuzione e si domanda se la condanna non sia il vero preludio al linguaggio che lo possiede . E tuttavia, in questa nuova plaquette, il delirio linguistico che già dominava La Gorgiera e il Delirio si fa più compassato, più rarefatto, quasi inclinato verso una teologia negativa del verbo: non più solo la sfarzosa ipotiposi barocca che infilza icone e reliquie, ma un teatro della sottrazione in cui il poeta, come un residuo, marca le proprie ceneri e le interroga come uno stregone calmucco.
Già a partire da La lettera rubata Lacan concede alla parola e alla “lettera” un’altra funzione da quella di supporto della significazione, dove la parola e la lettera diventano cose di cui si può farne tutt’altro che leggerle: rubarle, bruciarle, nasconderle, manometterle, conservarle, restituirle; in quanto non sono più medium del senso, ma oggetti per far circolare godimenti. In senso lacaniano, Sagredo usa una lingua algebrica imbevuta di desiderio e di godimento, fatta di impossibili a dire, di equivoci, di depositi che una storia del tutto singolare ha lasciato sul fondo, una lingua con la quale si cerca di fare altro che comunicare e significare. Sagredo è poeta della lalangue più che della lingua. La sua scrittura risponde alla spinta pulsionale descritta da Lacan: un godimento che non mira al senso ma alla sua disfatta, una felicità repressa che affiora come sintomo di un linguaggio che non riconosce genealogie se non nella propria dissipazione e dissoluzione, perché “il poeta degli immondezzai è più vicino alla verità che non il poeta delle nuvole” come scriveva Rozewicz negli anni cinquanta. Non c’è tradizione che possa rivendicarlo, l’idioletto sagrediano non eredita, deraglia. Se nella prefazione al precedente volume di poesia di Sagredo parlavo della “perdita di valore all’interno della catena del valore rappresentata dalla tradizione”, qui tale perdita si estremizza in forma di liturgia rovesciata: il poeta recita un rito senza officianti, senza altare, e perfino senza fede. Ciò che resta è una teatralità spettrale, un repertorio di maschere che si pavoneggiano nel momento stesso in cui vengono nominate, come se la nominazione fosse già un tradimento.
In questa nuova plaquette la dissoluzione della catena del valore non assume l’aspetto del virtuosismo distruttivo, ma quello di una consapevolezza infida: la poesia è ormai un relitto che continua a parlare dopo che la nave è affondata. Non assistiamo all’ebbrezza barocca che trasborda nel Sagredo degli anni precedenti, ma a una sorta di malinconica scansione postuma di una lira neroniana. Se la tradizione è un corpo morto, Sagredo conta le ossa di quel corpo, come nel verso dedicato all’“Anagrafe dei Morti”, e scopre che il conteggio non restituisce alcun ordine, ma un riflesso distorto, una biacca sul volto stesso del linguaggio. Di qui quell’insistenza su ceneri, martiri, roghi, condanne, capestri: non è un simbolismo, è la testimonianza della miseria del Simbolico, il suo aderire a un godimento strutturalmente eccedente. Il poeta si ritrova così tra le mani un linguaggio in frantumi, e ne fa la sola forma possibile; non mira a riorganizzarlo in un sistema, ma lo lascia proliferare come un’oscena verità che si afferma non grazie al senso, ma nonostante esso.
Questa poesia non ha più trama, plot, racconto; non può averne, proprio in quanto si tratta di una narrazione post-edipica. Sagredo si muove in uno spazio senza inizio né fine, senza Padre e senza Figlio, dove il Finale, la finalità senza scopo e/o con scopo di kantiana memoria non può più governare alcun evento. Il verso slegato dalla necessità di una progressione, non si dà nello sviluppo frastico, ma solo nella sua torsione, nella deviazione dal senso e dal sensorio, è un ritorno impuro a ciò che non è più puro. A ogni “soglia” (il termine ritorna con insistenza) non c’è passaggio, ma inciampo. Ogni scena è un altrove che si richiude su sé stesso. Il linguaggio non conduce, si presenta e basta; appare come un residuo di una voce che ha smarrito la propria fonte. Da qui quell’impressione di essere sempre “sulla soglia”, “sul viottolo”, tra “calici”, “requiem”, “stazioni”, “carte”, “marosi”: una geografia che non ha confini, solo interstizi. È proprio questa mancanza di luogo che spinge il poeta a riscriversi continuamente come un attore smemorato che tenta la trama e ne trova solo gli scarti.
Ciò che resta, allora, è un io ipertrofico ma non perché si affermi, bensì perché non riesce più a contrarsi nella posizione canonica dell’autore. È un io che esplode (o implode) perché non sa più dove collocarsi: un io psicotico, un io ostrogoto, non per ragioni cliniche ma strutturali e congiunturali propri della nostra attuale fase di civilizzazione. L’io si presenta come un contenitore di resti, di scarti, un dispositivo di transito per voci che non gli appartengono. Sagredo non è certo un poeta confessionale, è un poeta della possessione lalanguica e del ritorno delle parole rimosse che hanno “per ogni passo il suono di un timbro cavernoso”. Ma, significativamente, in questa nuova plaquette la possessione non giunge più in forma di furia iconoclasta, bensì in forma di esaustione, di resa lucida: “non posso, non voglio stare dietro ai tuoi fantasmi spenti”, scrive l’autore, e l’affermazione suona come un congedo dalla propria stessa retorica.
Non a caso, una delle linee più sottili che attraversano la plaquette è quella del teatro: attori, maschere, commedie sospese, partiture in errore, candelabri, scene mute. Tutto concorre a delineare la poesia come ultimo luogo del gesto, come scena di un dramma non più rappresentabile ma ancora, ostinatamente, recitato. L’attore sagrediano è un sopravvissuto, uno smargiasso triste e ilare che continua lo spettacolo dopo l’incendio del teatro, un ente che danza, come un fachiro, su un pavimento in cenere. E tuttavia, la poesia non rinuncia al proprio dis/quilibrio visionario, anzi lo custodisce come unica àncora possibile contro la dissipazione generale del simbolico.
In questo senso, sì, in Sagredo c’è una affinità con la “linguisteria” lacaniana. La sua poesia è una “lalangue” allo stato puro, un dispositivo pulsionale in cui il significante gode di sé stesso e si disfa del significato e del senso nel mentre che gode. Ciò che in altri poeti distopici e kitchen si manifesta come figurazione o immagine, qui si incarna come scossa, terremoto linguistico, torsione del suono, coazione a ripetere del delirio di un accattone che accumula resti e scarti (“barattavo una resurrezione ad ogni crocicchio/ e come un accattone chiedevo un obolo di cartapesta”). Non c’è allegoria, non c’è allegria, c’è sintomo, il rimosso di zattere significanti che si sono “rifatti il trucco allo specchio”; non c’è metafora, c’è risonanza, magnitudini; non c’è tradizione, c’è un cumulo di detriti che continua a brillare perché non ha più un luogo in cui essere depositato.
Il dovere della poesia si rivela per ciò che è: non un tributo, ma una bestemmia; non un compito, ma un reato; non un dogma, ma la resa di un soggetto ormai completamente esposto alla magnificenza e magnitudo oscura della parola, che non salva e non redime, ma ferisce, infirma. La poesia non deve niente a nessuno perché il poeta stesso è ormai debitore soltanto del proprio fallimento. E proprio in questo fallimento, in questa luce che “non domina la condanna”, l’autore salentino trova la sua irriducibile grandezza.
Se tutto è evaporato, se il simbolico è in rovina, se la storia non può raccontare nulla, allora la poesia può soltanto mostrarsi come fallimento, come resto, come l’orbita vuota di un cadavere che continua a ruotare e rotolare tra “candelabri” e “sbuffi catramosi”, con un volto truccato (“una maschera arlecchina… che danza la ciaccona”), che ride di un riso non suo, come una preghiera di un pagliaccio che nessun dio ascolta. È forse qui la felicità repressa del poeta, che non risiede nel compimento dell’atto, ma nel gesto che, come Sisifo, ricomincia, ancora una volta e per sempre a portare sulle spalle il dolore di cartapesta delle parole avulse e celibi, proprio dove la notte del linguaggio sembra giunta al termine della oscurità.
II
Antonio Sagredo, poeta salentino di adozione romana, pone in essere il tentativo di significantizzare il godimento, costruire una lingua di rappresentazioni non rappresentative, in cui parole senza senso, sonorità vuote offrono l’esempio evidente di una via che consiste nel cercare nella lettera della parola un tenente-luogo della parola mancante.
La poesia di Sagredo agisce come un laboratorio in cui il linguaggio non è più chiamato a significare, ma a significantizzare il godimento. È questo il punto centrale da cui occorre ripartire per comprendere fino in fondo la struttura profonda della sua scrittura. Se tutto ciò che apparteneva alla funzione simbolica (forma, trama, eredità, autorità) è evaporato nell’aria, come nel celebre passo marxiano, allora la poesia diviene il luogo in cui il significante, ormai orfano di senso, tenta comunque di catturare ciò che per sua natura è refrattario a ogni cattura: il reale del godimento. Sagredo, più di ogni altro poeta italiano della sua generazione, mette in atto questo processo in modo radicale, rifiutando qualsiasi rassicurazione figurativa, qualsiasi rappresentazione riconoscibile, costruendo invece una lingua fatta di immagini senza referente, di sonorità vuote, di parole che non descrivono ma vibrano. In questa vibrazione c’è la pulsione, quella che Lacan chiamava lalangue, lo strato sonoro e opaco del linguaggio dove la parola non significa ma gode, dove non comunica ma insiste.
Quando Sagredo accumula reliquie, martiri, ceneri, roghi, maschere, non sta costruendo un immaginario simbolico: sta mettendo in scena ciò che resta del linguaggio dopo il crollo del Simbolico. Le sue figure non rappresentano nulla, sono rappresentazioni non rappresentative, come se la poesia fosse costretta a far sorgere immagini non per dire il mondo, ma per registrare il tremore della sua assenza. È questo il meccanismo per cui ogni parola sagrediana diventa una lettera, una specie di corpo sonoro che conserva la traccia del godimento senza poterla tradurre. Sagredo non cerca il senso, cerca la lettera. E nella lettera cerca quel “tenente-luogo” che ospita la parola mancante, come se la poesia fosse l’unico spazio ancora capace di far risuonare il vuoto che la attraversa. Così le sue parole sembrano spesso prive di significato, ma non sono mai insignificanti; sembrano arbitrarie, ma obbediscono a una necessità interna, a una forza che le sovrasta. Ciò che appare come perdita di senso è in realtà un guadagno di intensità, un aumento di pressione del significante sul corpo del linguaggio.
In questo ordine di discorso si comprende perché in Sagredo l’io esploda (o imploda) e si ritiri allo stesso tempo. La sua ipertrofia non è narcisistica, ma sintomatica: è il sintomo di una metastasi giunta all’ultimo stadio, l’io non domina la scena, vi è travolto. È un io che tenta disperatamente di stabilirsi come luogo di articolazione del senso e invece si ritrova attraversato da voci, suoni, maschere che non gli appartengono. È un io che recita perché non può fare altro, perché la parola lo possiede. E proprio per questo la poesia diventa teatro, non nel senso figurativo del termine, ma nel senso del tribunale: un luogo in cui la voce dell’accusa sopravvive senza un soggetto-colpevole che la garantisca, in cui la lingua si mette in moto indipendentemente dall’io che la pronuncia. L’attore sagrediano salta le battute, dimentica il copione, perde la trama perché la trama non esiste più; non recita un personaggio, recita la caduta del personaggio. Il teatro di Sagredo è la scena di un Simbolico in rovina che continua a parlarsi sul mento.
La poesia diventa allora un tentativo di catturare il reale proprio nel punto esso in cui frigge e sfugge. Le immagini di Sagredo (i capestri, le ossa, le stazioni, le candele, i requiem) funzionano come lettere del Reale: non rappresentano il reale, lo marcano. L’immagine è un colpo sul significante, una trafittura. Da qui il suo oscillare continuo tra sacro e profano, tra sublime e grottesco, tra lutto e parodia. Non è un gioco estetico, è il risultato del fatto che il godimento non è mai collocabile in un registro unico. Quando Sagredo parla del “martire immobile sulla soglia con occhi arsi” o delle “mie ceneri ancora nel mare”, non compone un quadro simbolista, ma crea una fenditura nel linguaggio, un luogo in cui la parola scopre la propria impotenza, e tuttavia continua a parlare.
È proprio in questo punto che Sagredo diventa poeta radicalmente contemporaneo perché affida alla poesia il compito più difficile, quello di sospendere la mancanza di senso delle parole. In un tempo in cui l’immaginazione collettiva è saturata di immagini, storie, trame piene di significato prefabbricato, Sagredo pratica il contrario, una scrittura che si sottrae al senso, che espone il proprio vuoto, che non cerca la coerenza narrativa ma la fissione del linguaggio. Non è un rifiuto della forma, ma un attraversamento della sua dissoluzione. E se nella prefazione alla raccolta ancora inedita parlavo della “perdita di valore” come cifra della condizione post-storica, Sagredo trasforma quella perdita in gesto poietico, non tenta di colmare il vuoto della tradizione, ne fa la materia stessa della sua poesia.
Così, “Il dovere della poesia” diventa l’enunciazione paradossale di questo compito: la poesia non ha doveri se non quello di testimoniare la propria impotenza, di portare alla luce la parola mancante, di custodire il residuo della voce dopo la scomparsa del senso. È un dovere che non salva, non illumina, non redime. È un dovere che condanna e libera allo stesso tempo, perché permette alla poesia di esistere non come rappresentazione del mondo, ma come luogo dell’irriducibile. In questo compito, Sagredo si rivela uno dei pochissimi poeti di oggi capaci di misurarsi con il dopo-Simbolico senza cedere alla nostalgia né alla frivolezza postmoderna. Egli attraversa il linguaggio come un territorio bruciato, e, nel farlo, restituisce alla poesia la sua forma più nuda e più perigliosa: quella di una voce che continua a echeggiare anche quando nessuno può più garantirne il senso.
(Giorgio Linguaglossa)
Antonio Sagredo è nato a Brindisi il 29 novembre 1945 (pseudonimo Alberto Di Paola) e ha vissuto a Lecce, e dal 1968 a Roma dove risiede. Ha pubblicato le sue poesie in Spagna: Testuggini (Tortugas) Lola editorial 1992, Zaragoza; e Poemas, Lola editorial 2001, Zaragoza; e inoltre in diverse riviste: “Malvis” (n.1) e “Turia” (n.17), 1995, Zaragoza. La Prima Legione (da Legioni, 1989) in “Gradiva”, ed. Yale Italia Poetry, USA, 2002, e in Il Teatro delle idee, Roma, Cantos del Moncayo, Ediciones Olifante, Zaragoza, 2022,2008, la poesia Omaggio al pittore Turi Sottile. Come articoli o saggi in “La Zagaglia”: Recensione critica ad un poeta salentino, 1968, Lecce (A. Di Paola); in “Rivista di Psicologia Analitica”, 1984, (pseud. Baio della Porta): Leone Tolstoj Le memorie di un folle; in “Il caffè illustrato”, n.11, marzo-aprile 2003: A. M. Ripellino e il “Teatro degli Skomorochi”, 1971-74. (A. Di Paola). Ha curato (con diversi pseudonimi) traduzioni di poesie e poemi di poeti slavi: Il poema: Tumuli di Josef Kostohryz , pubblicato in “L’ozio”, ed. Amadeus, 1990; trad. A. Di Paola e Kateřina Zoufalová; i poemi: Edison (in L’ozio, 1987, trad. A. Di Paola), e Il becchino assoluto (in “L’ozio”, 1988) di Vitĕzslav Nezval, (trad. A. Di Paola e K. Zoufalová). Traduzioni di poesie scelte di Kateřina Rudčenková, di Zbynk Hejda, Ladislav Novák, di Jirí Kolár, e altri in varie riviste italiane e ceche. Recentemente nella rivista “Poesia” (settembre 2013, n. 285), ha pubblicato per la prima volta in Italia a un vasto pubblico di lettori di Otokar Březina, La vittoriosa solitudine del canto (lettera di Otokar Březina ad Antonio Sagredo), traduzione di A. Di Paola e K. Zoufalová. È presente nella antologia kitchen Exodus (undici voci di Avatar disseminati nel cosmo) con Progetto Cultura (2024). Sue poesie sono presenti nel volume La poesia nell’epoca della Intelligenza Artificiale e La nuova poesia italiana tra Intelligenza Artificiale, Infotainment, Comunicazione e Riproducibilità algoritmica, entrambi i volumi a cura di Giorgio Linguaglossa, Progetto Cultura, 2025.Sempre nel 2025 pubblica la plaquette Il dovere della poesia.
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