La poesia civile e politica di Fabio Sebastiani che resiste al markettificio della nostra civiltà, Distopie e realismo etico. Fabio Sebastiani, Se non torna il canto Ensemble, 2025, Glosse di Marie Laure Colasson e Giorgio Linguaglossa
Mappe siderali
Non si trovò libero più nemmeno un buco
per gli ingombranti centri commerciali
così ai viali di città assegnarono cartelli autostradali:
qua di prodotti freschi e là di arnesi per il fuoco.
Detriti accatastati in scaffali e magazzini
ora allineati in trame concentriche di strade:
corso del Formaggio fuso sbuca in piazza delle Piade
e vicolo delle Barbie sta lì, presso la salita dei Lumini.
In eccesso di eccitazione e connessione si correva
da un conato all’altro tra viuzze ed ampi slarghi
senza un preciso scopo, e tutti accasati fitti negli ingorghi.
La moneta del poco e niente, intanto, già suonava.
Presto divenne chiaro che il signor Mazzini
e il grande condottiero Garibaldi
trapassarono da lapide ad offerte e ricchi saldi.
E che fu di piazza Indipendenza? Cibo e collari per gattini.
Poi, che l’angoscia prese il posto di una caotica baldoria
e sparse come un sottile velo di grigiore
senza più traccia salda di memoria, o di nobile valore
sì partì spaesati alla ricerca, alcuni, della propria storia.
Nell’ultra-market, ben ordinato in paralleli e meridiani
mai cessarono i silenzi delle cadenze tra le casse
altri deliri e giri di giostre, come se d’incanto il niente fosse.
E, a ben vedere, niente c’era oltre il belvedere dai divani.
L’ultra-market dei nitriti
Senza più periferie
cerchiate in sospensione
ma di perifrastico budello
è l’impianto nella pianta di città.
Trasversale, ad anse, a rette
a volte, a giro snello
e scandito come la via crucis.
Viaggi e attraversamenti
in panopticon di merci
fin dentro l’orifizio
di tutte le possibili cosmesi.
Stazione dopo stazione
in lento transito di coproliti
fraseggi densi di detriti
declinati dai nitrati coi nitriti.
Evasioni e invasioni
Non si può evadere dall’ultra-market.
Non c’è un modo
né arguto, né puntuto.
Non c’è turno all’esito
millimetrico del piano
all’asola denudata dalla libertà.
Ci si può solo invadere
l’un l’altro
in angusto e reciproco torpore.
Liberi di librarsi addosso
nel budello quello
che attrafigge la città.
Ci si incontra, a volte.
E di nuovo: recitando
la memoria in piedi e poi seduti
e poi di nuovo in piedi, sì
del primo giorno della scuola
e l’arrivederci a non più sfiorarci.
Nel sacchetto l’essenza delle cose
Sto nel grido del clacson
costretto a pestare
i pochi centimetri
nei contorni
ai semafori di città.
Lo sguardo basso
nei sacchetti della spesa
a fine giornata
a frugare nell’essenza delle cose.
Avanzi vagabondi
Rimasero i cani
occhi infetti
come avanzi vagabondi
asintotici nei viali.
Alla fame
nell’abbondanza del perenne.
E nemmeno osavano abbaiare
canarsi in qualche anfratto
escogitato lì, all’impronta.
Vagando muti
dentro correità
di zampe e pelo
occhi e orecchie
senza dimensioni e definizioni.
Annusando il cielo
ad ogni latrato del sole
come fosse l’ultima notte
senza appartenersi mai
senza mai abiurare il presente.
I sarti del caos
E vennero i sarti per
farci apposta il caos.
Panneggi di caos
addosso
misurati fino al girovita
e da spalla a spalla.
Non più caos per caso:
il giusto taglio
dell’iperbole
al prezzo giusto
per scongiurare il caos.
Fabio Sebastiani è nato ai Castelli Romani, giornalista e poeta, ha lavorato a lungo nel quotidiano “Liberazione” e oggi è voce radiofonica indipendente. Ha pubblicato, tra gli altri, In blood we trust (2020) e Si vis sanguinem para bellum (2022), opere che hanno rinnovato e dato un forte impulso alla tradizione della poesia italiana di impegno civile. Con Se non torna il canto (Ensemble, 2025) Sebastiani consolida il suo percorso oltre ogni ipotesi di realismo o quotidianismo in direzione di un realismo civico, politico e distopico, elaborandone una declinazione in chiave politica e antropologica.
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[volto di bambolotto incrinato, di Marie Laure Colasson, opera del 2008]
La poesia civile e politica di Fabio Sebastiani
“Solo la poesia / graffia via la vita / ai muri di città.”
Se non torna il canto è il titolo della nuova raccolta di Fabio Sebastiani (Edizioni Ensemble, 2025); ha la struttura di un se condizionale e sospeso, un interrogativo che è già diagnosi: cosa resta, se non torna la “voce”, se non si ricostruisce una lingua comune, se la parola smette di nominare il mondo?
La poesia di Sebastiani si colloca in questo spazio d’allarme. Non è una poesia del disincanto, ma della resistenza, resistenza al linguaggio artificiale della tradizione elegiaca della poesia italiana, al mercato che divora il senso, alla rimozione del dolore. Dopo In blood we trust e le liriche civili come Filastrocca dei bambini a Gaza, Sebastiani costruisce un attraversamento più meditativo e corale, dove la “voce” singola si misura con l’apocalisse del collettivo.
Già nel Prologo (“L’ora schioccò / senza farsi sentire / e quando ci si mosse / nei minuti a mentire...”) la temporalità appare corrotta: il tempo mente, inganna, si scompone. Da qui in avanti, la raccolta procede come un viaggio nel corpo artificiale della città contemporanea.
Nella poesia “Mappe siderali”, il paesaggio urbano diventa una caricatura di sé stesso, una geografia mercificata:
“Non si trovò libero più nemmeno un buco / per gli ingombranti centri commerciali… / corso del Formaggio fuso sbuca in piazza delle Piade / e vicolo delle Barbie sta lì, presso la salita dei Lumini.”
È una scena da realismo grottesco: la storia (Garibaldi, Mazzini, Indipendenza) viene cancellata, sostituita dal catalogo dei prodotti. Siamo nell’ultra-market dei nitriti, dove “ogni attraversamento è panopticon di merci” e persino la libertà è digerita in “coproliti di cosmesi”.
All’interno del Collasso del Simbolico
Guido Oldani firma la nota introduttiva, parla di Sebastiani come “conoscitore meditativo del Realismo terminale”. Ma il poeta dei Castelli romani porta quel paradigma in una direzione etico-politica: la sua distopia non è solo visiva o linguistica, è un atto etico, politico, di politica estetica. Nella sua “Nota dell’autore”, afferma infatti che la poesia oggi “viene gettata violentemente nella realtà, costretta a rifare i conti con il suo statuto, a correre in soccorso degli uomini”.
Il rovesciamento non è solo stilistico ma epistemico: “dislocare la metafora”, scrive l’autore, significa restituirle una funzione attiva, propiziatoria, capace di “dare gambe al cambiamento”. Al centro del libro c’è la parola come corpo, carne, il corpo e la carne come gli unici testimoni della verità. In “Parola d’inchiostro”, Sebastiani scrive:
“Nudo come parola / dentro corpo d’inchiostro / guardo la verità accaparrarsi / il posto della bellezza.”
La poesia non è ornamento, ma incarnazione. Il linguaggio diventa esperienza sensibile, sangue, nervo, segno inciso. Questa corporeità del dire culmina in “Anche il graffio”:
“E chi non se l’era / trascritto dentro / ora l’ha sulla pelle: / chiodo nel muro / che tiene la bellezza.”
Le immagini del “graffio” e del “chiodo nel muro” sono le metafore chiave del poetare di Sebastiani: incidere, non descrivere; testimoniare, non abbellire.
Dialogo con Pasolini: la carne come parola, la parola come carne
Tra le poesie più intense, “A Pier Paolo Pasolini” rappresenta un vero ponte generazionale. Qui Sebastiani si rivolge al fratello maggiore, al poeta che aveva fatto della carne un testo politico e del corpo un linguaggio:
“Ma l’anima, no. Non l’ho sputata. / A botte orrende fluì solo il sangue… / I semi della paura qui / ramificano senza germogli / ed entrano come dardi nella carne: / ma oggi farà tanta poesia.”
La carne, come già intuiva Pasolini, è l’ultima frontiera della verità. Per Sebastiani, è anche la soglia dove la parola ritrova la sua urgenza civile, politica. Non è un omaggio, ma una continuità: il canto pasoliniano che torna, “se torna”, nel presente terminale e distopico. Al centro della sezione finale, la poesia “L’umanità batte sui vetri” funziona come manifesto e autocritica:
“A cosa servono quei poeti / che si credono grimaldelli / se, mentre l’umanità batte sui vetri, / loro fingono che sia pioggia?”
È un verso che pesa come un processo. La poesia che non si confronta con il dolore collettivo diventa complice della sua rimozione. La parola deve farsi urto, non riflesso: deve sporcarsi, attraversare la storia.
Nel testo gemello, “Peggio della guerra c’è solo l’umanità”, la diagnosi è ancora più amara:
“Peggio della guerra / c’è solo l’umanità / che si fa attraversare / da un dolore imbalsamato.”
Qui la guerra non è più evento, ma condizione. Il male è la nostra assuefazione, la pacificazione versus il disumano.
Tuttavia, non tutto ancora è collassato. Nel viaggio attraverso questa città mutante (“dove i citofoni compongono lapidi” e la “mediocrità fluttua”) resta, nel fondo, un gesto di cura: la mano, la voce, l’atto del canto. In “Fare a mano gli universi”, Sebastiani scrive:
“Le mani fanno, mi dico. / Le mani fanno, non dicono. / E mi immergo negli incroci dell’equivoco: / dizionario povero, ricco di poesia.”
È forse qui la chiave euristica dell’intero libro: fare con le mani come verbo primordiale della poesia, che non spiega ma costruisce, non rappresenta ma ricuce. Nell’ultima poesia, “Il pungolo dell’umano”, la tradizione lirica, intesa come come gesto estetico di riparazione viene depletata e rigettata:
“Ognuno è l’interstizio scelto per il giusto, / la sfumatura in cui ogni cosa può stare… / Il testimone fa l’orlo alla luce, intanto, / e con le mani conduce il tessuto all’umano.”
Un poeta politico nel tempo dell’artificio
In un panorama poetico spesso dominato dal medaglione autoreferenziale o dalla lirica intimista, Sebastiani sceglie una strada anacronistica e necessaria: quella della parola che prende posizione. Il suo verso non cerca grazia, ma precisione; non cerca eleganza, ma giustizia. E nel farlo, rinnova la linea di una poesia civile che da Fortini a Pasolini ha saputo tenere insieme etica e visione.
La sua lingua, tagliente e feriale, mescola il lessico della città, del digitale, del quotidiano con il tono della profezia e del cronista. È una poesia metropolitana che assembla elementi oracolari ed elementi di crudo realismo e residui dell’antico umanesimo; il supermercato diventa macro metafora del destino, e l’umanità, nonostante tutto, resta ancora una “sillaba di universo.”
Ha scritto Guido Oldani nella nota introduttiva; “I versi di Sebastiani, non privi di venature ironiche e di stupore di fronte all’eccessivo, si espongono secondo un gusto narrativo che non trascura i significati… dietro la prosa dell’immagine trapela sempre una nota di pensiero.”
Se non torna il canto è un libro che unisce rigore intellettuale e pathos umano. Fabio Sebastiani scrive con una lucidità che non concede sconti ma apre fenditure di possibilità. La sua poesia è quella di chi, pur immerso nel “cappio di luce stanca” della contemporaneità, continua a credere che la poesia possa ancora “fare orlo alla luce”, come scrive l’autore con un chimismo lirico efficace. Non è un libro di consolazione, ma un atto etico e politico che chiama alla responsabilità: un invito al lettore a lasciare da parte ogni infingimento, a chiamare le cose con la parola appropriata e non con eufemismi e chimismi lirici, perché la Storia non fa sconti e il mondo non è come attraversare a piedi un campo di margherite, come scriveva Pasternak più di cento anni fa. Il mondo è duro, spietato, la Storia non concede illusioni e la poesia deve avere il coraggio di nominare direttamente le cose, il coraggio di sporcarsi le mani, non deve cercare le rime o le assonanze in quanto belle, ma la cosa bruta e brutta che il mondo ci vuole nascondere.
La poetica di Fabio Sebastiani rappresenta questa condizione della odierna civilizzazione come discontinuità, come impossibilità di una totalità di senso e di significato, come esperienza del limite; ma allo stesso tempo apre spazi di possibilità: nuove forme di pensiero, nuove configurazioni del sensibile, nuove ontologie della presenza e dell’assenza. In questa accezione, la raccolta non è semplice testimonianza dalla crisi, ma il tentativo di pensare e di sentire ciò che emerge dalla crisi. È una poesia che non chiude, ma apre. Non rappresenta, ma espone. Non narra, ma, nei suoi momenti migliori, accade. È nella sua stessa frammentarietà che,a mio avviso, l’opera trova la propria forza propulsiva, nella capacità di trasformare il vuoto in spazio di incontri, l’assenza in forma, la mancanza in possibilità. In questa ottica, la raccolta di Sebastiani si impone come uno dei testi più significativi della poesia italiana di oggi e come uno specchio critico dell’ontologia del presente stato della civilizzazione.
(Giorgio Linguaglossa)
[di Marie Laure Colasson, ricochet, acrilico, 30×30 cm, 2024]
Glossa di Marie Laure Colasson
C’è una poesia che non si arrende al silenzio, che non accetta di ridursi a confessione privata o a gioco linguistico fine a sé stesso. È la poesia di Fabio Sebastiani, poeta dei Castelli Romani, che si colloca apertamente nella scia di Franco Fortini, maestro di un pensiero poetico civile, critico, politico. Una linea che, negli ultimi cinquantanni, è sembrata soccombere davanti all’affermarsi di un lirismo intimista e post-elegiaco. La scrittura di Sebastiani prende posizione, non teme di nominare conflitti, massacri, responsabilità; non cerca riparo nella metafora attenuata, ma si affida a un dettato secco, talvolta martellante, che interroga in prima persona il lettore. Le tre poesie che presentiamo (“In blood we trust”, “Filastrocca dei bambini a Gaza” e “Si vis sanguinem para bellum”) rappresentano bene questa tensione.
Il testo più lungo e articolato, “In blood we trust”, è costruito come un refrain ossessivo, parodia e rovesciamento del motto americano “In God we trust”. Qui la fede non è più nel dio della salvezza, ma nel sangue, nella violenza elevata a legge universale.
Le voci che parlano sono quelle del potere: “noi siamo gli eletti”, ripetono, contrapponendosi agli “agnelli” sacrificali, al popolo ridotto a merce di scambio. La struttura ripetitiva diventa dispositivo retorico che mette in scena l’arroganza di chi domina; nella seconda parte, la poesia vira verso un registro più lirico ma non meno crudo: “grida scolpite / nelle onde del mare / come solchi nel vinile” è un’immagine potente, che restituisce la memoria del dolore collettivo. Qui Sebastiani non si limita a denunciare, ma apre uno spazio per il lutto, per la coralità del pianto, per la coscienza che la violenza non è solo cronaca, ma memoria storica incisa nel corpo dell’umanità.
Nel testo “Filastrocca dei bambini a Gaza”, l’innocenza violata, Sebastiani sceglie il registro più spiazzante: la filastrocca, forma infantile, leggera, quasi musicale, piegata però a contenuti ostici dove Dio stesso appare lontano. Il ritmo breve, quasi sincopato, restituisce la sensazione di un respiro spezzato, come quello dei bambini in fila per il cibo, in attesa di un pasto che forse non arriverà mai. La forza della poesia sta nella sua essenzialità: poche parole, essenziali, che arrivano come colpi secchi, senza possibilità di attenuazione.
“Si vis sanguinem para bellum” tratta del trauma interiore, è forse il testo più intimo, pur restando fedele all’impegno civile. Il titolo rovescia la massima latina “Si vis pacem, para bellum”, sostituendo la pace con il sangue. È un mondo in cui non si prepara più la pace, ma soltanto la guerra.
Il linguaggio qui si fa più lirico, attraversato da immagini che mostrano come la violenza non resti fuori, nei teatri della cronaca, ma penetri dentro, nella vita quotidiana, nei pensieri: “Mai la storia è penetrata / così, nei millimetri / dei pensieri”. È la testimonianza di un trauma che non appartiene solo a chi subisce direttamente la guerra, ma anche a chi ne è spettatore e portatore di memoria.
Quella di Fabio Sebastiani è una poesia che nuota controcorrente, che non si piega al conformismo estetico dominante, non rinuncia alla sua funzione critica. In un tempo in cui molta poesia sembra rifugiarsi nell’autobiografia privata, nella rarefazione lirica o nel frammento autoreferenziale, Sebastiani sceglie invece la parola come strumento di lotta, come gesto di resistenza, testimonianza di un presente che chiede di essere detto. Non è un’operazione facile, né indolore, la sua poesia corre il rischio dell’anacronismo, ma al tempo stesso rivendica una fedeltà a quella tradizione che prima di Fortini è stata un terreno di scontro politico e simbolico, e, dopo Fortini, è diventata una variante privatistica e narcisistica. Sebastiani non offre consolazioni, offre piuttosto un campo di conflitto, un linguaggio che chiede al lettore di prendere posizione. Ed è proprio qui che la sua poesia trova la sua urgenza, non nell’eleganza della forma ma nella forza della parola che resiste, che accusa, che interroga.
(Marie Laure Colasson)
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