#marieLaureColasson

L'Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionalelombradelleparole.wordpress.com@lombradelleparole.wordpress.com
2025-11-20

La poesia civile e politica di Fabio Sebastiani che resiste al markettificio della nostra civiltà, Distopie e realismo etico. Fabio Sebastiani, Se non torna il canto Ensemble, 2025, Glosse di Marie Laure Colasson e Giorgio Linguaglossa

Mappe siderali

Non si trovò libero più nemmeno un buco
per gli ingombranti centri commerciali
così ai viali di città assegnarono cartelli autostradali:
qua di prodotti freschi e là di arnesi per il fuoco.

Detriti accatastati in scaffali e magazzini
ora allineati in trame concentriche di strade:
corso del Formaggio fuso sbuca in piazza delle Piade
e vicolo delle Barbie sta lì, presso la salita dei Lumini.

In eccesso di eccitazione e connessione si correva
da un conato all’altro tra viuzze ed ampi slarghi
senza un preciso scopo, e tutti accasati fitti negli ingorghi.
La moneta del poco e niente, intanto, già suonava.

Presto divenne chiaro che il signor Mazzini
e il grande condottiero Garibaldi
trapassarono da lapide ad offerte e ricchi saldi.
E che fu di piazza Indipendenza? Cibo e collari per gattini.

Poi, che l’angoscia prese il posto di una caotica baldoria
e sparse come un sottile velo di grigiore
senza più traccia salda di memoria, o di nobile valore
sì partì spaesati alla ricerca, alcuni, della propria storia.

Nell’ultra-market, ben ordinato in paralleli e meridiani
mai cessarono i silenzi delle cadenze tra le casse
altri deliri e giri di giostre, come se d’incanto il niente fosse.
E, a ben vedere, niente c’era oltre il belvedere dai divani.

L’ultra-market dei nitriti

Senza più periferie
cerchiate in sospensione
ma di perifrastico budello
è l’impianto nella pianta di città.
Trasversale, ad anse, a rette
a volte, a giro snello
e scandito come la via crucis.

Viaggi e attraversamenti
in panopticon di merci
fin dentro l’orifizio
di tutte le possibili cosmesi.
Stazione dopo stazione
in lento transito di coproliti
fraseggi densi di detriti
declinati dai nitrati coi nitriti.

Evasioni e invasioni

Non si può evadere dall’ultra-market.
Non c’è un modo
né arguto, né puntuto.
Non c’è turno all’esito
millimetrico del piano
all’asola denudata dalla libertà.
Ci si può solo invadere
l’un l’altro
in angusto e reciproco torpore.
Liberi di librarsi addosso
nel budello quello
che attrafigge la città.
Ci si incontra, a volte.
E di nuovo: recitando
la memoria in piedi e poi seduti
e poi di nuovo in piedi, sì
del primo giorno della scuola
e l’arrivederci a non più sfiorarci.

Nel sacchetto l’essenza delle cose

Sto nel grido del clacson
costretto a pestare
i pochi centimetri
nei contorni
ai semafori di città.
Lo sguardo basso
nei sacchetti della spesa
a fine giornata
a frugare nell’essenza delle cose.

Avanzi vagabondi

Rimasero i cani
occhi infetti
come avanzi vagabondi
asintotici nei viali.
Alla fame
nell’abbondanza del perenne.
E nemmeno osavano abbaiare
canarsi in qualche anfratto
escogitato lì, all’impronta.
Vagando muti
dentro correità
di zampe e pelo
occhi e orecchie
senza dimensioni e definizioni.
Annusando il cielo
ad ogni latrato del sole
come fosse l’ultima notte
senza appartenersi mai
senza mai abiurare il presente.

I sarti del caos

E vennero i sarti per
farci apposta il caos.
Panneggi di caos
addosso
misurati fino al girovita
e da spalla a spalla.
Non più caos per caso:
il giusto taglio
dell’iperbole
al prezzo giusto
per scongiurare il caos.

Fabio Sebastiani è nato ai Castelli Romani, giornalista e poeta, ha lavorato a lungo nel quotidiano “Liberazione” e oggi è voce radiofonica indipendente. Ha pubblicato, tra gli altri, In blood we trust (2020) e Si vis sanguinem para bellum (2022), opere che hanno rinnovato e dato un forte impulso alla tradizione della poesia italiana di impegno civile. Con Se non torna il canto (Ensemble, 2025) Sebastiani consolida il suo percorso oltre ogni ipotesi di realismo  o quotidianismo in direzione di un realismo civico, politico e distopico, elaborandone una declinazione in chiave politica e antropologica.

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[volto di bambolotto incrinato, di Marie Laure Colasson, opera del 2008]

La poesia civile e politica di Fabio Sebastiani

“Solo la poesia / graffia via la vita / ai muri di città.”

Se non torna il canto è il titolo della nuova raccolta di Fabio Sebastiani (Edizioni Ensemble, 2025); ha la struttura di un se condizionale e sospeso, un interrogativo che è già diagnosi: cosa resta, se non torna la “voce”, se non si ricostruisce una lingua comune, se la parola smette di nominare il mondo?
La poesia di Sebastiani si colloca in questo spazio d’allarme. Non è una poesia del disincanto, ma della resistenza, resistenza al linguaggio artificiale della tradizione elegiaca della poesia italiana, al mercato che divora il senso, alla rimozione del dolore. Dopo In blood we trust e le liriche civili come Filastrocca dei bambini a Gaza, Sebastiani costruisce un attraversamento più meditativo e corale, dove la “voce” singola si misura con l’apocalisse del collettivo.

Già nel Prologo  (“L’ora schioccò / senza farsi sentire / e quando ci si mosse / nei minuti a mentire...”) la temporalità appare corrotta: il tempo mente, inganna, si scompone. Da qui in avanti, la raccolta procede come un viaggio nel corpo artificiale della città contemporanea.
Nella poesia “Mappe siderali”, il paesaggio urbano diventa una caricatura di sé stesso, una geografia mercificata:

Non si trovò libero più nemmeno un buco / per gli ingombranti centri commerciali… / corso del Formaggio fuso sbuca in piazza delle Piade / e vicolo delle Barbie sta lì, presso la salita dei Lumini.”

È una scena da realismo grottesco: la storia (Garibaldi, Mazzini, Indipendenza) viene cancellata, sostituita dal catalogo dei prodotti. Siamo nell’ultra-market dei nitriti, dove “ogni attraversamento è panopticon di merci” e persino la libertà è digerita in “coproliti di cosmesi”.

All’interno del Collasso del Simbolico

Guido Oldani firma la nota introduttiva, parla di Sebastiani come “conoscitore meditativo del Realismo terminale”. Ma il poeta dei Castelli romani porta quel paradigma in una direzione etico-politica: la sua distopia non è solo visiva o linguistica, è un atto etico, politico, di politica estetica. Nella sua “Nota dell’autore”, afferma infatti che la poesia oggi “viene gettata violentemente nella realtà, costretta a rifare i conti con il suo statuto, a correre in soccorso degli uomini”.
Il rovesciamento non è solo stilistico ma epistemico: “dislocare la metafora”, scrive l’autore, significa restituirle una funzione attiva, propiziatoria, capace di “dare gambe al cambiamento”. Al centro del libro c’è la parola come corpo, carne, il corpo e la carne come gli unici testimoni della verità. In “Parola d’inchiostro”, Sebastiani scrive:

Nudo come parola / dentro corpo d’inchiostro / guardo la verità accaparrarsi / il posto della bellezza.”

La poesia non è ornamento, ma incarnazione. Il linguaggio diventa esperienza sensibile, sangue, nervo, segno inciso. Questa corporeità del dire culmina in “Anche il graffio”:

E chi non se l’era / trascritto dentro / ora l’ha sulla pelle: / chiodo nel muro / che tiene la bellezza.”

Le immagini del “graffio” e del “chiodo nel muro” sono le metafore chiave del poetare di Sebastiani: incidere, non descrivere; testimoniare, non abbellire.

Dialogo con Pasolini: la carne come parola, la parola come carne

Tra le poesie più intense, “A Pier Paolo Pasolini” rappresenta un vero ponte generazionale. Qui Sebastiani si rivolge al fratello maggiore, al poeta che aveva fatto della carne un testo politico e del corpo un linguaggio:

Ma l’anima, no. Non l’ho sputata. / A botte orrende fluì solo il sangue… / I semi della paura qui / ramificano senza germogli / ed entrano come dardi nella carne: / ma oggi farà tanta poesia.”

La carne, come già intuiva Pasolini, è l’ultima frontiera della verità. Per Sebastiani, è anche la soglia dove la parola ritrova la sua urgenza civile, politica. Non è un omaggio, ma una continuità: il canto pasoliniano che torna, “se torna”, nel presente terminale e distopico. Al centro della sezione finale, la poesia “L’umanità batte sui vetri” funziona come manifesto e autocritica:

A cosa servono quei poeti / che si credono grimaldelli / se, mentre l’umanità batte sui vetri, / loro fingono che sia pioggia?”

È un verso che pesa come un processo. La poesia che non si confronta con il dolore collettivo diventa complice della sua rimozione.  La parola deve farsi urto, non riflesso:  deve sporcarsi, attraversare la storia.

Nel testo gemello, “Peggio della guerra c’è solo l’umanità”, la diagnosi è ancora più amara:

Peggio della guerra / c’è solo l’umanità / che si fa attraversare / da un dolore imbalsamato.”

Qui la guerra non è più evento, ma condizione. Il male è la nostra assuefazione, la pacificazione versus il disumano.

Tuttavia, non tutto ancora è collassato. Nel viaggio attraverso questa città mutante (“dove i citofoni compongono lapidi” e la “mediocrità fluttua”) resta, nel fondo, un gesto di cura: la mano, la voce, l’atto del canto. In “Fare a mano gli universi”, Sebastiani scrive:

Le mani fanno, mi dico. / Le mani fanno, non dicono. / E mi immergo negli incroci dell’equivoco: / dizionario povero, ricco di poesia.”

È forse qui la chiave euristica dell’intero libro: fare con le mani come verbo primordiale della poesia, che non spiega ma costruisce, non rappresenta ma ricuce. Nell’ultima poesia, “Il pungolo dell’umano”, la tradizione lirica, intesa come come gesto estetico di riparazione viene depletata e rigettata:

Ognuno è l’interstizio scelto per il giusto, / la sfumatura in cui ogni cosa può stare… / Il testimone fa l’orlo alla luce, intanto, / e con le mani conduce il tessuto all’umano.”

Un poeta politico nel tempo dell’artificio

In un panorama poetico spesso dominato dal medaglione autoreferenziale o dalla lirica intimista, Sebastiani sceglie una strada anacronistica e necessaria: quella della parola che prende posizione. Il suo verso non cerca grazia, ma precisione; non cerca eleganza, ma giustizia. E nel farlo, rinnova la linea di una poesia civile che da Fortini a Pasolini ha saputo tenere insieme etica e visione.
La sua lingua, tagliente e feriale, mescola il lessico della città, del digitale, del quotidiano con il tono della profezia e del cronista. È una poesia metropolitana che assembla elementi oracolari ed elementi di crudo realismo e residui dell’antico umanesimo; il supermercato diventa macro metafora del destino, e l’umanità, nonostante tutto, resta ancora una “sillaba di universo.”

Ha scritto Guido Oldani nella nota introduttiva; “I versi di Sebastiani, non privi di venature ironiche e di stupore di fronte all’eccessivo, si espongono secondo un gusto narrativo che non trascura i significati… dietro la prosa dell’immagine trapela sempre una nota di pensiero.”
Se non torna il canto è un libro che unisce rigore intellettuale e pathos umano. Fabio Sebastiani scrive con una lucidità che non concede sconti ma apre fenditure di possibilità. La sua poesia è quella di chi, pur immerso nel “cappio di luce stanca” della contemporaneità, continua a credere che la poesia possa ancora “fare orlo alla luce”, come  scrive l’autore con un chimismo lirico efficace. Non è un libro di consolazione, ma un atto etico e politico che chiama alla responsabilità: un invito al lettore a lasciare da parte ogni infingimento, a chiamare le cose con la parola appropriata e non con eufemismi e chimismi lirici, perché la Storia non fa sconti e il mondo non è come attraversare a piedi un campo di margherite, come scriveva Pasternak più di cento anni fa. Il mondo è duro, spietato, la Storia non concede illusioni e la poesia deve avere il coraggio di nominare direttamente le cose, il coraggio di sporcarsi le mani, non deve cercare le rime o le assonanze in quanto belle, ma la cosa bruta e brutta che il mondo ci vuole nascondere.

La poetica di Fabio Sebastiani rappresenta questa condizione della odierna civilizzazione come discontinuità, come impossibilità di una totalità di senso e di significato, come esperienza del limite; ma allo stesso tempo apre spazi di possibilità: nuove forme di pensiero, nuove configurazioni del sensibile, nuove ontologie della presenza e dell’assenza. In questa accezione, la raccolta non è semplice testimonianza dalla crisi, ma il tentativo di pensare e di sentire ciò che emerge dalla crisi. È una poesia che non chiude, ma apre. Non rappresenta, ma espone. Non narra, ma, nei suoi momenti migliori, accade. È nella sua stessa frammentarietà che,a mio avviso, l’opera trova la propria forza propulsiva, nella capacità di trasformare il vuoto in spazio di incontri, l’assenza in forma, la mancanza in possibilità. In questa ottica, la raccolta di Sebastiani si impone come uno dei testi più significativi della poesia italiana di oggi e come uno specchio critico dell’ontologia del presente stato della civilizzazione.

(Giorgio Linguaglossa)

[di Marie Laure Colasson, ricochet, acrilico, 30×30 cm, 2024]

Glossa di Marie Laure Colasson 

C’è una poesia che non si arrende al silenzio, che non accetta di ridursi a confessione privata o a gioco linguistico fine a sé stesso. È la poesia di Fabio Sebastiani, poeta dei Castelli Romani, che si colloca apertamente nella scia di Franco Fortini, maestro di un pensiero poetico civile, critico, politico. Una linea che, negli ultimi cinquantanni, è sembrata soccombere davanti all’affermarsi di un lirismo intimista e post-elegiaco. La scrittura di Sebastiani prende posizione, non teme di nominare conflitti, massacri, responsabilità; non cerca riparo nella metafora attenuata, ma si affida a un dettato secco, talvolta martellante, che interroga in prima persona il lettore. Le tre poesie che presentiamo (“In blood we trust”, “Filastrocca dei bambini a Gaza” e “Si vis sanguinem para bellum”) rappresentano bene questa tensione.

Il testo più lungo e articolato, “In blood we trust”, è costruito come un refrain ossessivo, parodia e rovesciamento del motto americano “In God we trust”. Qui la fede non è più nel dio della salvezza, ma nel sangue, nella violenza elevata a legge universale.

Le voci che parlano sono quelle del potere: “noi siamo gli eletti”, ripetono, contrapponendosi agli “agnelli” sacrificali, al popolo ridotto a merce di scambio. La struttura ripetitiva diventa dispositivo retorico che mette in scena l’arroganza di chi domina; nella seconda parte, la poesia vira verso un registro più lirico ma non meno crudo: “grida scolpite / nelle onde del mare / come solchi nel vinile” è un’immagine potente, che restituisce la memoria del dolore collettivo. Qui Sebastiani non si limita a denunciare, ma apre uno spazio per il lutto, per la coralità del pianto, per la coscienza che la violenza non è solo cronaca, ma memoria storica incisa nel corpo dell’umanità.

Nel testo “Filastrocca dei bambini a Gaza”, l’innocenza violata, Sebastiani sceglie il registro più spiazzante: la filastrocca, forma infantile, leggera, quasi musicale, piegata però a contenuti ostici dove Dio stesso appare lontano. Il ritmo breve, quasi sincopato, restituisce la sensazione di un respiro spezzato, come quello dei bambini in fila per il cibo, in attesa di un pasto che forse non arriverà mai. La forza della poesia sta nella sua essenzialità: poche parole, essenziali, che arrivano come colpi secchi, senza possibilità di attenuazione.

 “Si vis sanguinem para bellum” tratta del trauma interiore, è forse il testo più intimo, pur restando fedele all’impegno civile. Il titolo rovescia la massima latina “Si vis pacem, para bellum”, sostituendo la pace con il sangue. È un mondo in cui non si prepara più la pace, ma soltanto la guerra.

Il linguaggio qui si fa più lirico, attraversato da immagini che mostrano come la violenza non resti fuori, nei teatri della cronaca, ma penetri dentro, nella vita quotidiana, nei pensieri: “Mai la storia è penetrata / così, nei millimetri / dei pensieri”. È la testimonianza di un trauma che non appartiene solo a chi subisce direttamente la guerra, ma anche a chi ne è spettatore e portatore di memoria.

Quella di Fabio Sebastiani è una poesia che nuota controcorrente, che non si piega al conformismo estetico dominante, non rinuncia alla sua funzione critica. In un tempo in cui molta poesia sembra rifugiarsi nell’autobiografia privata, nella rarefazione lirica o nel frammento autoreferenziale, Sebastiani sceglie invece la parola come strumento di lotta, come gesto di resistenza, testimonianza di un presente che chiede di essere detto. Non è un’operazione facile, né indolore, la sua poesia corre il rischio dell’anacronismo, ma al tempo stesso rivendica una fedeltà a quella tradizione che prima di Fortini è stata un terreno di scontro politico e simbolico, e, dopo Fortini, è diventata una variante privatistica e narcisistica. Sebastiani non offre consolazioni, offre piuttosto un campo di conflitto, un linguaggio che chiede al lettore di prendere posizione. Ed è proprio qui che la sua poesia trova la sua urgenza, non nell’eleganza della forma ma nella forza della parola che resiste, che accusa, che interroga.

(Marie Laure Colasson)

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L'Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionalelombradelleparole.wordpress.com@lombradelleparole.wordpress.com
2025-11-09

 Confronto tra due letture della antologia critica  di Paolo Ruffilli, “Incanto e disincanto (Voci della poesia italiana del Novecento)”, 2025, Il ramo e la foglia  pp. 224 € 19,  di Giorgio Linguaglossa e Marie Laure Colasson – Problema: Collasso o Continuità della tradizione poetica del novecento?

Nota di lettura di Giorgio Linguaglossa

 State attenti: la nave è ormai in mano al cuoco di bordo, e le parole che trasmette il megafono del comandante non riguardano più la rotta, ma quel che si mangerà domani”.

(Søren Kierkegaard, Stadi sul cammino della vita, 1845)

«La poesia è una forma particolare di comunicazione verbale in cui la lingua usata non è necessariamente diversa da quella della comunicazione quotidiana, eppure l’esito è completamente diverso. Perché le sue parole non sono rivolte a chiarire un concetto, ma a “incarnarlo”, a farlo cioè vivere con tutta la sostanza e la forza dei sentimenti ad esso legati e collegati: paura, amore, incanto e disincanto, odio, sdegno, distacco.» (Paolo Ruffilli)

Ecco l’elenco completo dei poeti inclusi nel repertorio critico di Paolo Ruffilli:

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Elio Filippo Accrocca, Alberto Arbasino, Raffaello Baldini, Nanni Balestrini, Giorgio Bassani, Dario Bellezza, Giovanna Bemporad, Attilio Bertolucci, Carlo Betocchi, Alberto Bevilacqua, Piero Bigongiari, Ignazio Buttitta, Giorgio Caproni, Vincenzo Cardarelli, Bartolo Cattafi, Giovanni Comisso, Sergio Corazzini, Stefano D’Arrigo, Eduardo De Filippo, Libero De Libero, Luciano Erba, Franco Fortini, Alfonso Gatto, Virgilio Giotti, Giovanni Giudici, Alfredo Giuliani, Corrado Govoni, Guido Gozzano, Tonino Guerra, Margherita Guidacci, Francesco Leonetti, Franco Loi, Gian Pietro Lucini, Mario Luzi, Biagio Marin, Filippo Tommaso Marinetti, Eugenio Montale, Elsa Morante, Marino Moretti, Alberto Mario Moriconi, Giacomo Noventa, Ottiero Ottieri, Elio Pagliarani, Aldo Palazzeschi, Alessandro Parronchi, Pier Paolo Pasolini, Sandro Penna, Albino Pierro, Antonio Porta, Antonia Pozzi, Salvatore Quasimodo, Giovanni Raboni, Clemente Rebora, Amelia Rosselli, Roberto Roversi, Umberto Saba, Edoardo Sanguineti, Camillo Sbarbaro, Franco Scataglini, Rocco Scotellaro, Vittorio Sereni, Leonardo Sinisgalli, Ardengo Soffici, Maria Luisa Spaziani, Giovanni Testori, Giuseppe Ungaretti, Diego Valeri, Giorgio Vigolo, Emilio Villa, Paolo Volponi, Andrea Zanzotto.

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In totale, Ruffilli include 73 poeti, coprendo l’arco che va dagli ultimi anni dell’Ottocento (Gozzano, Govoni) fino alla fine del Novecento (Raboni, Loi, Rosselli, Fortini, Zanzotto).

Già negli anni settanta Franco Fortini stigmatizzava che ormai in poesia le scelte editoriali le facevano gli «uffici stampa dei grandi editori» e che la critica di poesia era un arnese obsoleto che non aveva più alcuna influenza sulle scelte editoriali e sulla politica editoriale degli uffici stampa del comparto poesia. Oggi, a distanza di più di cinquanta anni, appare sempre più evidente il carattere obsoleto e inattendibile della critica di poesia, chi la fa, fa una critica di accompagnamento, un cerimoniale che nulla ha davvero in comune con un pensiero critico. Perché una critica ha senso se la si esercita come intermediario con un pubblico libero e intellettualmente preparato. Oggi, in assenza di un pubblico intellettualmente preparato della poesia, è del tutto fuorviante parlare di critica di poesia, io stesso che scrivo queste parole non sono un critico né aspiro ad esserlo, preferisco dipingermi molto più semplicemente come un contemporaneista che fa una critica di parte, non certo neutrale, ed io infatti non voglio essere neutrale ma, appunto, amo essere annoverato come uomo di parte non disposto a negoziare alcunché sui valori. Dunque, un critico di parte, con tutti i limiti e i pregi che una tale definizione comporta.
Il problema da mettere a fuoco è che in questi ultimi, diciamo, cinquantacinque anni, la poesia italiana è rimasta priva di un ceto di poeti intellettuali che sapessero andare oltre gli interessi di parte. Per ceto intellettuale intendo una gruppo di letterati (aspiranti poeti, diciamo così, perché “poeta” è una parola grossa che addossa sul malcapitato enormi responsabilità).

Voglio dire che in un paese dove il ceto letterario del comparto poesia è inamovibile e insindacabile, dove i medesimi personaggi occupano da decenni i posti chiave delle grandi case editrici, il risultato più probabile è che in quel comparto non ci saranno, diciamo, novità, non si avranno rinnovamenti; gli addetti agli uffici stampa del comparto poesia alla lunga perderanno il contatto con la storicità, con il divenire, con le nuove tendenze poetiche e filosofiche, con le nuove tendenze politiche e geopolitiche del mondo. Infatti, il risultato attuale è che da circa cinquanta anni il comparto poesia nazionale è affetto da un sostanziale immobilismo e standardizzazione del «gusto» e delle politiche editoriali che, necessariamente, sono diventate in questi decenni sempre più clientelari e inattendibili.

E poi il fatto che nessuno dei poeti oggi attualmente ai vertici degli uffici stampa degli editori, come si dice, «a maggiore diffusione nazionale», sia anche un critico, un intellettuale a pieno titolo,  è un deficit che produce ripercussioni gravi sul comparto poesia, perché è inevitabile che ciascun poeta che occupa quegli uffici tenderà a crearsi una politica editoriale personale (anche in buona fede) che sia una prosecuzione della propria attività di letterato. E questo elemento di criticità alla lunga, nel corso dei decenni, ha introdotto delle storture sempre più vaste e profonde ed ha determinato una vera e propria cecità verso il «nuovo», che si presenta come «inspiegabile». Oggi chiunque apra un catalogo di Einaudi poesia o Mondadori poesia si troverà davanti a decine di nomi che non si capisce bene come abbiano fatto ad approdare in collane un tempo prestigiose, perché è chiaro nel leggere le loro opere che sono persone che scrivono in un linguaggio politicamente stereotipato e standardizzato nel migliore dei casi; si tratta di amatori del genere, non sono dei letterati e tanto meno degli intellettuali, sono persone che fanno poesia come hobby, interludio, svago domenicale. Il risultato finale è che è venuta meno anche la credibilità di un intero comparto culturale. Oggi, in effetti, è l’intero comparto culturale della poesia ad essere del tutto futile ed esornativo, decorativo e nulla più. Ad aggravare questa situazione è stata la sostituzione della critica del testo con i soliloqui degli opinionisti. L’oligarchia delle opinioni ha invaso il comparto poesia  in virtù soprattutto della capacità di questi opinionisti di spendere in tutti i comparti la moneta epistemica che con fatica si sono guadagnati. Così è avvenuto che oggi un manipolo di opinionisti occupa totalmente lo spazio del dibattito critico sulla poesia, cioè lo spazio di presenza proprio delle istituzioni culturali e dei social media.

In questo quadro indiziario il Repertorio critico di Paolo Ruffilli (1949) nasce come proposta di ripensamento del linguaggio poetico, rispetto alla palus putredinis che ha caratterizzato un lungo periodo di stagnazione della prassi poetica, fatta eccezione per le poche alternative sperimentali, che non sono andate mai al di là del loro riscatto formale. In questa situazione stagnazione linguistica è più che logico ridiscutere i vecchi parametri, proporre alternative, forgiare delle categorie ermeneutiche utili a capire che cosa è avvenuto oggi: l’allontanamento dalla tradizione del novecento che ha finito per influire sulle nuove generazioni che si sono avvicendate dagli anni settanta del novecento ad oggi.

Questa riflessione critica la si attendeva da tempo. Si è trattato di un fenomeno complesso, determinato da un cambiamento dei parametri ontologici del linguaggio. Ben vengano quindi volumi come questo di Ruffilli che consente di tornare alle origini dell’esaurimento del Novecento poetico e a individuare un nuovo tracciamento ermeneutico. Un lavoro che ci consente la possibilità di ritornare con il pensiero alle origini  della attuale stagnazione culturale e alla crisi della forma-poesia del novecento.

Resta  sempre valida la domanda posta da Alfonso Berardinelli sulla poesia del Novecento:

«La nostra poesia (con Montale, Luzi, Bertolucci, Caproni, Sereni, Penna, Zanzotto, Giudici, Amelia Rosselli) è stata fra le migliori in Europa; ma poi (salvo eccezioni) ha perso libertà e pubblico. […] Un’arte senza lettori deperisce o si trasforma in una specie di pratica ascetica, con tutto il suo seguito di comiche devozioni e perversioni […] Ma se la poesia italiana è stata fra le migliori d’Europa, come è accaduto che quest’arte ha perso pubblico e credito?».

Paolo Ruffilli

Ruffilli ci fornisce una ampia pista di pattinaggio per articolare una riflessione consapevole sui poeti inclusi nella rassegna critica e per un bilancio sull’esaurimento della ontologia poetica novecentesca che l’autore indica  negli ultimi poeti autenticamente novecenteschi: Edoardo Sanguineti, Pierpaolo Pasolini, Andrea Zanzotto e Franco Fortini. Dopo di loro c’è uno scalino in discesa. Si apre una pista di atterraggio morbido ad una forma-poesia che converte il distacco dalla tradizione e la sua minoritarietà in fattori di «rinnovamento» linguistico ad personam. Certo, ci sono state le antologie di Porta, Berardinelli e Cordelli, Mengaldo, Cucchi-Giovanardi e di migliaia di altri con relative schedine critiche di accompagnamento. Ruffilli fa una operazione intellettualmente coraggiosa: arresta il novecento a Fortini e Zanzotto. E ci sarà pure una ragione di fondo per questa scelta che un poeta preparato come Ruffilli non ha fatto certo a caso.

Anch’io con il mio lavoro, Critica Della Ragione Sufficiente del 2020, ho avuto modo di approfondire questo discorso affrontando criticamente i singoli autori di poesia del tardo novecento e dei due decenni che sono seguiti dal punto di vista di quella che Berardinelli definisce la «discesa culturale» della poesia post-zanzottiana.

Però, c’è un “però”: la nuova ontologia del linguaggio della nostra epoca ci rivela che (noi) che abitiamo il presente osserviamo il passato (loro) con gli occhi del nostro presente, del nostro mondo; ergo la nostra visione del passato è sempre una proiezione del nostro presente. Ma, c’è un “ma”: nel (nostro) presente si è verificato un fenomeno del tutto nuovo, l’ontologia del linguaggio si è rivelato un vuoto linguistico, un buco, una apertura che inghiotte tutte le parole, ed il poeta è costretto a cercare le sue parole non più in un passato ormai sepolto ma in un futuro che rimane ignoto. È questo il dilemma che la «nuova poesia» dovrà, obtorto collo e volente e nolente, affrontare. Il problema è che oggi siamo alle prese con l’impossibilità di trovare un linguaggio e la ridondanza enfisematica della prosa.

Non v’è dubbio che i poeti minori della fine del Novecento come Margherita Guidacci, Francesco Leonetti, Ottiero Ottieri, Diego Valeri, Giorgio Vigolo, Emilio Villa, Paolo Volponi, Piero Bigongiari, Carlo Betocchi, Giorgio Caproni, Eduardo De Filippo, Stefano D’Arrigo, Alfonso Gatto siano di livello nettamente superiore ai «poeti nuovi» del tardo Novecento come Giuseppe Conte, Valerio Magrelli, Maurizio Cucchi, Mario Benedetti, Milo De Angelis, Umberto Piersanti, Patrizia Cavalli, Patrizia Valduga, Valentino Zeichen, Franco Buffoni etc. I primi hanno ancora una idea di poesia, una idea di forma-poesia, una idea di tradizione coesa e comune; hanno ancora un linguaggio poetico comune; i secondi non si pongono più il problema della tradizione ma si guardano bene dall’esternare le ragioni storiche, di ontologia del linguaggio, sociali, politiche e geopolitiche che hanno determinato il quadro storico e ontologico entro il quale si situa  il proliferare delle poetiche ad personam dove ciascuno si fa una propria personale poesia tascabile. Questa poesia non pone più domande radicali ma si assesta e si adegua alla «discesa culturale» senza neanche la consapevolezza del pendio declinante cui li costringe la «discesa culturale». Il problema vero è che la «discesa culturale» e la minoritarietà dovranno pur finire un giorno o l’altro. Il problema è quando qualcuno si alzerà dalla sedia e pronuncerà il verdetto: “Il re è nudo!”. Il problema storico invece è assistere a questo estenuante e interminabile vento di libeccio di una «discesa culturale» che sembra non finire mai. Ecco, Paolo Ruffilli non lo scrive apertamente, ma tutto il suo lavoro implica un non-detto: che la poesia italiana finisce con Sanguineti, Fortini, Pasolini e Zanzotto, quattro poeti distantissimi tra loro ma che si trovano consapevolmente in un unico contesto storico e ontologico, di ontologia linguistica. Dopo di loro verrà il diluvio della «discesa culturale» e della minoritarietà. Ma questo è un altro capitolo del discorso.

Una poesia se è nuova richiede la costruzione di nuove categorie ermeneutiche. E forse è proprio da qui che la poesia del futuro dovrà ripartire: dalla costruzione di nuove categorie del pensiero.

Il fatto è che ormai in Italia la normologia è la regola militare di fondo che disciplina ogni attività del nostro Paese, a iniziare dalla politica fino all’etica dei costumi e alla libertà intellettuale. I cuochi di bordo hanno sostituito i comandanti della nave, loro sanno solo parlare della majonese o del grana padano che si mangerà oggi o domani.

Paolo Ruffilli è nato nel 1949. Ha pubblicato, di poesia: “Piccola colazione”, Garzanti, 1987, American Poetry Prize; “Diario di Normandia”, Amadeus, 1990; “Camera oscura”, Garzanti, 1992; “Nuvole”, con foto di F. Roiter, Vianello Libri, 1995; “La gioia e il lutto”, Marsilio, 2001, Prix Européen; “Le stanze del cielo”, Marsilio, 2008; “Affari di cuore”, Einaudi, 2011; “Natura morta”, Nino Aragno Editore, 2012, Poetry-Philosophy Award; “Variazioni sul tema”, Aragno, 2014, Premio Viareggio Giuria; “Le cose del mondo”, Mondadori, 2020; di narrativa: “Preparativi per la partenza”, Marsilio, 2003; “Un’altra vita”, Fazi, 2010; “L’isola e il sogno”, Fazi, 2011.
www.paoloruffilli.it

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Glossa critica di Marie Laure Colasson

L’operazione critica di Paolo Ruffilli, la continuità del discorso poetico del novecento

Con questo scritto interpreto la voce dell’Alter-Ego di Giorgio Linguaglossa, voglio introdurre il discorso da un diverso angolo visuale.

Con Incanto e disincanto. Voci della poesia italiana del Novecento (Il ramo e la foglia, 2025), Paolo Ruffilli realizza un gesto editoriale e intellettuale di equilibrio che si colloca a metà strada tra il repertorio e il bilancio, tra il manuale d’autore e la riflessione poetologica. Non si tratta di una semplice rassegna di nomi o un’antologia critica divulgativa, il libro si presenta come un percorso critico della poesia italiana del novecento, un secolo che – secondo lo stesso Ruffilli – “ha tradotto in elaborazione letteraria la crisi di identità dell’uomo contemporaneo”.

Questa premessa non è neutra, è un manifesto poetico. L’autore, poeta egli stesso, esprime la sua idea della poesia come luogo di incarnazione del senso, non di pura astrazione concettuale. La sua “critica” si fonda su un principio umanistico tipicamente novecentesco: la parola poetica come esperienza dell’io.

Di fronte a una critica odierna ridotta, come ha notato Giorgio Linguaglossa, a “cerimoniale di accompagnamento”, Ruffilli adotta una postura diversa: non quella del teorico o del polemista, ma quella dell’artigiano del linguaggio poetico che torna a perlustrare i materiali vivi della poesia. Incanto e disincanto è infatti un repertorio che, pur evitando la terminologia filosofica o la categoria “ontologica” cara a certa critica militante, persegue l’obiettivo di restituire un orizzonte di senso alla poesia, ridefinirne la funzione.

Dove Linguaglossa vede l’esaurimento di un ciclo  (la dissoluzione della forma-poesia dopo Fortini e Zanzotto), Ruffilli preferisce vedere una continuità, una linea vitale che attraversa il secolo tra rotture e permanenze. Se il primo denuncia la “discesa culturale” e la minoritari età della poesia di oggi, il secondo cerca nella poesia le energie carsiche della sopravvivenza nella continuità.

L’ introduzione di Ruffilli parte da un assunto estetico e antropologico: la poesia come linguaggio che, pur condividendo la materia con la lingua quotidiana, “incarna” sentimenti e visioni, trasformandoli in esperienza collettiva. L’incanto e il disincanto diventano così le due polarità di un medesimo processo: la ricerca del senso e le ragioni della sua perdita. Ruffilli costruisce una coralità ordinata e appassionata di autori (da Ungaretti a Zanzotto, da Montale a Rosselli, da Caproni a Loi) dove la pluralità delle voci è ricondotta a una funzione comune: quella di rappresentare, con mezzi diversi, la frantumazione dell’io e la ricerca di una nuova modalità di abitare il linguaggio poetico.

È vero, come osserva Linguaglossa, che Ruffilli si ferma laddove Linguaglossa vorrebbe che continuasse. Arrestarsi dopo Fortini e Zanzotto significa comunque interrompere il novecento anzitempo, prima del suo decesso cronologico. Ruffilli evita così di entrare nel terreno filosofico del dopo, evita di impantanarsi nel territorio incerto della poesia post-novecentesca, lascia il problema in sospeso. Ma questa sospensione è una scelta consapevole. Incanto e disincanto si arresta appena prima che il secolo finisce, non per nostalgia o conservatorismo, ma per definire il perimetro di una civiltà poetica che ha avuto un inizio e una fine. È un libro che parla del novecento da dentro, non dal dopo.

Il tono è da critico cronista, non da storico della poesia. Ruffilli è un narratore della poesia che si affida al racconto, più che al giudizio, la sua funzione è ordinare, laddove vige il disordine; laddove la critica accademica disseziona, Ruffilli cerca la continuità, l’evoluzione di una ontologia linguistica. Laddove l’estetica militante  sentenzia l’esaurimento della forma-poesia del novecento, lui preferisce delimitare il campo dei suoi protagonisti e della sua ermeneutica. Questa operazione ha una doppia valenza: è una guida, un atto di fede nel discorso poetico del novecento, che implica la speranza e l’augurio che quel discorso poetico abbia ancora un futuro.

Ruffilli, in definitiva, non cerca un nuovo sistema ermeneutico, ma un nuovo modo di guardare alla tradizione, non come a un cimitero di glorie, ma come a un corpo ancora pulsante. Laddove il critico militante (Linguaglossa) diagnostica la malattia terminale del discorso poetico, la crisi irreversibile della ontologia linguistica del novecento, Ruffilli tenta una terapia della memoria.

Ecco dunque il messaggio del lavoro di Ruffilli: un atto di fede nella tradizione, la fiducia, forse anacronistica ma necessaria, nella possibilità che la poesia, anche nell’epoca del Collasso del Simbolico, resti un modo di conoscenza. È il suo incanto e il suo disincanto. La consapevolezza che senza lettori e senza critica, quella conoscenza rischierebbe di rimanere muta. Questa sì che è, per Ruffilli, il pericolo più grande: il Collasso della poesia della tradizione del novecento.

(Marie Laure Colasson)

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L'Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionalelombradelleparole.wordpress.com@lombradelleparole.wordpress.com
2025-10-22

Ecco cos’è la Friseurliteratur, la letteratura da parrucchiere, con pubblicazione nella collana bianca di Einaudi e su “Nuovi Argomenti” (la celebre rivista che ospitò Pasolini e Moravia)

28 luglio 2025 alle 17:55 su lombradelleparole.wordpress.com

Stamane sono stata dal parrucchiere. C’erano delle riviste femminili. Le ho aperte e ho fatto scorrere lo sguardo sulle pagine. Ebbene c’era la posta del cuore e poi c’erano delle rubriche delle poesie del cuore in mezzo ad altre loquaci amenità.

Ecco cos’è la friseurliteratur (letteratura da parrucchieri), ovvero, quel genere di pubblicazioni che si scorrono con lo sguardo mentre si sfoglia la rivista in attesa che il casco asciughi i bigodini, appena nel tempo sufficiente per alleviare la noia.

Molti autori di poesia e narrativa della friseurliteratur, in specie femminili, pubblicati nella collana bianca di Einaudi e su “Nuovi Argomenti” (la celebre rivista che ospitò Pasolini e Moravia), appartengono a questa categoria di composizione: una poesia e una narrativa gradevole, dolciastra, che desidera piacere al pubblico, una poesia e una narrativa del «privato» che ci parla dei fatti propri. Una poesia e una Narrativa che fanno tappezzeria. Una poesia e una narrativa che non si legge ma si sfoglia come una brioche napoletana.

28 luglio 2025 alle 18:15

L’unica sfera in cui si dà Senso è nel luogo dell’Altro, nell’ordine simbolico.
Allora, si può dire, lacanianamente, che «il simbolo uccide la “Cosa”».
Il problema della “Cosa” è che di essa non sappiamo nulla,
ma almeno adesso sappiamo che c’è,
e con essa c’è anche il “Vuoto” che incombe sulla “Cosa” risucchiandola
nel non essere dell’essere.
È questa la ragione che ci impedisce di poetare alla maniera del Petrarca e dei classici,
perché adesso sappiamo che c’è la “Cosa”, e con essa c’è il “Vuoto” che incombe minaccioso e tutto inghiotte.

È stato possibile parlare di Nuova Ontologia Estetica,
solo una volta che la strada della vecchia ontologia estetica si è compiuta,
solo una volta estrodotto il soggetto linguistico
che ha il tratto puntiforme di un Ego in cui convergono,
cartesianamente, Essere e Pensiero,
quello che Descartes inaugura e che chiama «cogito».

(Giorgio Linguaglossa)

Alla poesia di oggi è concessa soltanto una nominazione «debole», sbiadita e corrosa dal tempo. È forse per questo motivo che oggi la poesia contemporanea pensa il proprio «oggetto» nei termini di una «poesia statica», tutt’al più attraversata da micro movimenti e contro movimenti tellurici. Un aiuto ci può giungere dalla riflessione del Wittgenstein maturo: nelle Ricerche filosofiche è all’opera un tentativo di de-psicologizzazione del linguaggio poetico e narrativo attuale, vale a dire un’indagine grammaticale relativa al modo in cui parliamo delle nostre esperienze «interne». Centrale, in quest’ultimo tratto del percorso wittgensteiniano, è il termine «atmosfera» (Atmosphäre); il filosofo austriaco si muove attraverso una critica di tale concetto, analizza il nostro modo di parlare dei processi psicologici e, in particolare, della comprensione linguistica intesa come esperienza mentale «privata».

Bene riassume tutto ciò Giorgio Linguaglossa in questa riflessione:

“Presso gli epigoni odierni il luogo della poesia diventerà la chatpoetry, il pettegolezzo, il reality show, l’io falsamente teatralizzato dinanzi ad un pubblico falsificato, imbonito di facezie e di trovate spiritose; il luogo della poesia diventerà il luogo del commento intellettualistico orfico e ludico; la palestra stilistica sarà caratterizzata da esercizi, didascalie, disturbi del codice «binario», «glosse» della cronaca nera del «giornale», «glosse» del «quotidiano». I titoli delle opere dei minimalisti sono un (inconsapevole?) manifesto di poetica: tracciano il perimetro di una glossematica acritica e aproblematica. Non si capisce dov’è l’«originale», se c’è ancora un «originale», o se il discorso poetico sia nient’altro che didascalia, commento, glosse su qualcosa d’altro: Esercizi di tiptologia (1992) e Didascalie per la lettura di un giornale (1999), Disturbi del sistema binario (2006) di Magrelli, il poeta italiano più anti-vintage della tradizione attuale, sono «glosse a margine», «esercizi» «tiptologia», ermeneutiche sulla trasmissione di dati, appunti didascalici per l’istruzione del pubblico, glosse intellettualistiche sui disturbi del funzionamento «binario» etc.”

Contro l’idea che il significato accompagni la parola come una sorta di alone di senso, come un sentimento o una tonalità emotiva (Stimmung), Wittgenstein valorizza l’aspetto comunitario e già da sempre condiviso dell’accordo (Übereinstimmung) tra i parlanti. Il richiamo al modello musicale dell’accordo armonico tra le voci consente così di recuperare la dimensione «atmosferica» dell’esperienza linguistica, in cui si assiste a una «sintonizzazione» tra i parlanti coinvolti in un comune atto di comprensione linguistica.

(Marie Laure Colasson)

Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, ha insegnato danza classica e coreografia di spettacoli di danza contemporanea. Nel 2022 per Progetto Cultura di Roma esce la sua prima raccolta poetica in edizione bilingue, Les choses de la vie. È uno degli autori presenti nella Antologie Poetry kitchen 2022 e Poetry kitchen 2023, nonché nella Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022), nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, (2022), nonché nella antologia di undici autori kitchen Exodus del 2024, Progetto Cultura, Roma. Sue poesie sono presenti nel volume La poesia nell’epoca della Intelligenza Artificiale e La nuova poesia italiana tra Infotainment, Comunicazione e Riproducibilità algoritmica a cura di Giorgio Linguaglossa, Progetto Cultura, 2025. È componente della redazione della rivista on line l’ombradelleparole.wordpress.com e della rivista trimestrale di poesia e contemporaneistica “Il Mangiaparole”. Sulla sua pittura hanno scritto, tra gli altri, Mario Lunetta, Edith Dzieduszycka, Lucio Mayoor Tosi, Gino Rago e Giorgio Linguaglossa.

#Cogito #Descartes #friseurliteratur #giorgioLinguaglossa #MarieLaureColasson #ValerioMagrelli #Wittgenstein

L'Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionalelombradelleparole.wordpress.com@lombradelleparole.wordpress.com
2025-10-14

Editoriale (Quaderno nn. 29-30, 17×24, de “Il Mangiaparole”) in corso di stampa dal titolo: La «nuova poesia» italiana tra Intelligenza Artificiale,  Infotainment, Comunicazione e Riproducibilità algoritmica. L’età della paranoia, Il nostro mondo è definito dal tipo di storie in cui crediamo,

La storia letteraria è un libro di ricette.
I cuochi adesso si atteggiano a poeti.
Lo chef di Milano tiene il computo degli invitati.
Adesso anche i contabili si pensano poeti.
Guarda bene l’indice, se non sei tra gli invitati è perché sei nel menù.
I poeti sono i camerieri che portano le vivande e le bevande.
I critici fanno i buttafuori.
In cucina c’è un’orchestrina gitana che suona con le fisarmoniche e i tamburelli.
I poeti preparano i piatti in cucina e intrattengono gli ospiti.
Dovunque ci sono schiocchi di dita e pacche sulla spalla.
C’è allegria.
(Giorgio Linguaglossa)

Editoriale (Quaderno nn. 29-30, 17×24, de “Il Mangiaparole” in corso di stampa dal titolo: La «nuova poesia» italiana tra Intelligenza Artificiale,  Infotainment, Comunicazione e Riproducibilità algoritmica

L’Età della paranoia

Il nostro mondo è definito dal tipo di storie in cui crediamo

 

Se dovessi dare un nome alla nostra epoca la chiamerei l’Età della paranoia. Il recentissimo incontro ad Anchorage, in Alaska, tra Trump e Putin è il cassico incontro di due fratelli siamesi: un gangster che si incontra con un criminale prezzolato. Trump, Xi, Kim Jon-ung, Kameney, Nethanyau, Orban etc., i piccoli e i grandi aspiranti dittatori dispersi per il globo, le masse che votano i loro paranoici rappresentanti non sono meno paranoiche dei loro capi. Il capitalismo cleptocratico non sa che farsene del capitalismo democratico, vuole disfarsene, ha ormai infranto le regole e le istituzioni della deterrenza che ci eravamo dati dalla fine della seconda guerra mondiale. Il capitalismo dei sovrani sovranisti e populisti vuole avere le mani libere, vuole semplicemente fare soldi, togliere ai poveri per dare ai ricchi. Il capitalismo è diventato paranoico, la guerra dei dazi ne è un esempio eclatante. È probabile che nel prossimo futuro verremo sottomessi da una super Intelligenza Artificiale da noi creata. Scrive Geoffrey Hinton, uno degli inventori della Intelligenza Artificiale:

«La maggioranza dei principali ricercatori di intelligenza artificiale ritiene che molto probabilmente creeremo esseri molto più intelligenti di noi entro i prossimi 20 anni. La mia più grande preoccupazione è che questi esseri digitali superintelligenti semplicemente ci sostituiranno. Non avranno bisogno di noi. E poiché sono digitali, saranno anche immortali, voglio dire che sarà possibile far risorgere una certa intelligenza artificiale con tutte le sue credenze e ricordi. Al momento siamo ancora in grado di controllare quello che accade ma se ci sarà mai una competizione evolutiva tra intelligenze artificiali, penso che la specie umana sarà solo un ricordo del passato».

I critici marxisti del capitalismo hanno impiegato la speciosa tesi secondo cui nel mondo del capitalismo maturo (quello finanziario di oggi e quello delle monete digitali) non si dà una Exit Strategy, non si dà più alcuna possibilità di uscire dal capitalismo (se non per ricapitombolare in un capitalismo di stato a carattere autocratico e coercitivo), così il neo-liberismo ha guadagnato il campo rimasto aperto e sguarnito dalle forze della critica.

Ma forse non è necessario sostenere la tesi di una Exit Strategy, non c’è bisogno di sortire fuori dal nastro di Möbius, perché stiamo sempre in un Dentro che è anche un Fuori. Il lato debole del migliore pensiero critico marxista (Benjamin, Adorno, Gramsci, Zizek) non è riuscito a pensare questa evenienza che la scienza ci ha rivelato, e si è trovato appiattito nel voler cercare una soluzione comunque e dovunque, e così è rimasto impigliato come una mosca nella carta moschicida.

Allora, non c’è che ribadire: Non si dà alcuna Exit Strategy, stiamo tutti Dentro. Ma in quel Dentro che è anche un Fuori.

La poesia odierna oggi non può che andare a prendersi le parole dal futuro in quanto le dimensioni futuro/presente oggi sono invertite, viene prima il futuro e soltanto in un secondo momento il presente. Non c’è modo di rammaricarsene. Ecco le ragioni che spiegano la depletazione derubricazione del passato (leggi tradizione) e la invasione del futuro nel presente. Ecco le ragioni che spiegano la depletazione e la derubricazione delle antiche categorie antinomiche /Avanguardia/Retroguardia, Tradizione/Antitradizione, Vecchio/Nuovo perché queste categorie si trovano nel nastro di Möbius, stanno in un Dentro/Fuori che altro non è che un Fuori/Dentro. Nel capitalismo sviluppato la dialettica Dentro/Fuori ha sostituito la antica dialettica hegelo-marxista Soggetto/Oggetto, Nuovo/Vecchio, con il beneficio di inventario dei marxisti ortodossi e degli aborigeni ortodossi, nonché degli eterodossi alla plastilina. Perché meravigliarsi dicendo che oggi non c’è futuro quando in realtà siamo immersi ogni giorno nel futuro, che ha sostituito il presente? Altra domanda retorica: la categoria del Nuovo in arte non è più in contraddizione con il Vecchio, in quanto entrambe si trovano, contemporaneamente, nel medesimo nastro di Möbius.

Per altro verso, avviene che la poiesis distopica non è più distopica allorché la caliamo nell’oggi distopicoLa poiesis autoconsolatoria e autotelica che imperversa nei paesi a minimalismo digitale agisce nel senso che si fa i fatti suoi, e così accredita, ammalia e gratifica i benpensanti da autofiction e da autonoleggio con messaggi da pacifinti e da pasticcini alla crema.

Gli umani delle società post-democratiche vivono in modo performativo le loro esistenze. Viviamo nella narrazione che gli altri danno delle loro vite meravigliose su Facebook, Instagram, TikTok, in cui si vedono solo gli highlights, i momenti magici, le torte nuziali. L’influenza delle narrazione raccontate da altri e, soprattutto, dai social media sulla nostra percezione del Reale ci convince che quella sia la realtà. Viviamo in un’èra di disinformazione e di sovraccarico di disinformatzia.

Viviamo ossessionati dalla ricerca di un sé autentico (come se il sé autentico fosse un diamante nascosto in chissà quale profondità ascosa del nostro inconscio).

Viviamo traumatizzati dalla scoperta del cambiamento. Cerchiamo l’anedonia, non la felicità. Abbiamo sostituito la felicità con il benessere, il benessere con il fitness, la personalità con una natura adattativa e performativa; gli avanzamenti tecnologici insinuano in noi sgomento e ansia da prestazione. Invariabilmente, sorgono narrazioni distorte, false: novax, notax, i negazionisti,  i revisionisti del passato, i terrapiattisti, i bipolaristi, i narcisisti, gli omofobisti, le credenze fideistiche, gli irrazionalisti del MAGA, i primitivisti, i putinisti.

Viviamo in universi completamente diversi solo perché crediamo in storie diverse.

Viviamo con l’ausilio del pedometro.

Crediamo in false narrazioni ma che hanno conseguenze nel mondo del Reale. E Continuiamo a crederci convinti che il «falso» sia il «reale».

Le narrazioni dei social media sono diventate il motore più poderoso della normologia della storia umana.

Viviamo nell’immondezzaio delle storie.

In questo contesto storico, parlare del ruolo della letteratura nel promuovere il pensiero critico è un atto di smisurata ingenuità. Ma è che noi siamo ingenui, inguaribilmente ingenui, e lo pensiamo davvero.

Nel 1951 Isaac Asimov immaginava una scuola fatta soltanto da robot onniscenti. Oggi abbiamo l’intelligenza artificiale. Cosa cambierà?

Nel 2050 la normalità con cui scrolliamo ore al giorno il telefonino sarà studiata come crisi irreversibile dell’attenzione e della memoria?, o fra qualche decennio guarderemo a ChatGpt 5 con la stessa tenera condiscendenza con la quale ricordiamo i pomeriggi passati a giocare con il Commodore 64 o a programmare in Basic?

Il fatto è che siamo diventati diversi perché narriamo storie diverse, creiamo nuove narrazioni che narrano un altro Reale. Viviamo in un ecosistema digitale dove abbiamo accesso a un oceano di informazioni e dati. Il risultato è l’effetto placebo: ci convinciamo che la narrazione a noi più conveniente ci regala benessere, attenua le nostre ansie, le nostre paranoie. Ma è falso. Dobbiamo capovolgere il Reale per vedere bene al suo interno che cosa c’è. Per questo motivo la categoria del «falso» oggi sale sul podio delle Star. Dobbiamo riconoscere che il «vero» è diventato il «falso», e il «falso» è diventato il »vero». È una dialettica al triplo salto mortale quella che dobbiamo mettere in atto. Non ci resta che smascherare il «falso» mediante un altro «falso», la copia con un’altra copia, un duplicato con un altro duplicato.

L’ansia del falso e del vero ci accompagna in ogni momento della nostra vita quotidiana. Optiamo invariabilmente per lo pseudo-falso a noi più conveniente, e rigettiamo il falso, quello vero. E viviamo felici e contenti.

 “State attenti però: la nave è ormai in mano al cuoco di bordo”.

“Nel 1949 Richard Feynman mi parlò della sua versione della meccanica quantistica chiamata ‘sum over histories’. Mi diceva:

«l’elettrone fa tutto ciò che vuole. Va in qualsiasi direzione con qualsiasi velocità, avanti e indietro nel tempo, fa come gli pare, e poi si sommano le ampiezze e si ottiene la funzione d’onda». Gli dissi: «Sei un pazzo». Ma non lo era”.

Freeman Dyson mentre racconta dell’idea di Feynman dei path integral (integrale sui cammini). La citazione si trova un po’ ovunque, ma io l’ho presa dal libro “Quantum Field Theory for the Gifted Amateur” di Lancaster e Blundell.

La nostra variante è questa:

«la parola fa tutto ciò che vuole. Va in qualsiasi direzione con qualsiasi velocità, avanti e indietro nel tempo, fa come gli pare, e poi si sommano le ampiezze e si ottiene la funzione poetica»

La poetry kitchen di Francesco Paolo Intini, Mimmo Pugliese, Letizia Leone, la poesia distopica di Antonio Sagredo, Tiziana Antonilli, Marie Laure Colasson e Vincenzo Petronelli sono una hilarocomoedia melanconica e burlesque. Intini la sua meravigliosa lingua di plastilina la impiega e la piega in quanto lingua miserabile che emana un odore di fritto misto di pesce. È la lingua del commercio degli affari propri; questa lingua, o meglio, questo linguaggio, quello che desertifica il logos, quello della poesia del neoermetismo e del quotidianismo in voga oggidì è qualcosa contro cui occorre gridare vendetta.  Intini usa questo linguaggio spiegazzato, miserrimo, ipoveritativo e lo fa deflagrare in autentici colpi di scena apoplettici di riso amaro. Francesco Intini, Tiziana Antonilli e Raffaele Ciccarone e gli altri autori dis/topici rappresentano un classico della poesia kitchen perché sono arrivati a tanto facendo del packaging del inguaggio miserabile e spiegazzato che troviamo nelle discariche delle refurtive parolaio-mediatiche.

L’enunciato kitchen e quello distopico agiscono in uno spazio linguistico che è diventato mera superficie, mero nastro di Möbius; in questo spazio o, più propriamente, in questo «campo dinamico», si inscrive il nuovo discorso poetico «superficiario» nella quale la scrittura poetica si presenta in formazioni dis/locate e dis/articolate.

Ma questa dis/locazione è ben più che un artificio retorico, si tratta invece d’una petizione di sopravvivenza in virtù della quale il discorso poetico agisce come all’interno di una «griglia campo-dinamica». Attraverso queste griglie e queste dis/locazioni gli enunciati assumono la connotazione di significato. Ed ecco emergere il senso, il consenso e il significato. Foucault asserisce che è possibile che a volte queste griglie vengano momentaneamente infrante; soltanto in questi casi si dà l’opportunità fugace di fare «esperienza» di qualcosa di «proprio» per il tramite di questa frattura e dell’improprio. È in tal modo ammissibile esperire l’esistenza in sé di qualcosa come un ordine di senso o di non senso, ma si tratta di un pensiero antropizzante. Infrangere questo ordine di senso e di non senso è il compito precipuo della poesia distopica e del kitchen.

Ordine del discorso e ordine del pensiero sono oggi dis/connessi, lo spazio in cui pensiamo e parliamo può essere infranto in qualsiasi momento. E il significato va a farsi benedire. È la situazione limite delle eterotopie, ovvero, quella sorta di «contro-spazi» di cui le culture sono munite e «in cui gli spazi reali, tutti gli altri spazi reali che possiamo trovare all’interno della cultura, sono, al contempo, rappresentati, contestati e rovesciati».1

La poesia distopica è una eterotopia, una reazione allergica all’ordine disciplinare del senso e del significato. Occorre fare in fretta: il panorama poetico italiano invaso dai poeti elegiaci con i loro compitini educati e lucidati deve essere al più presto rigettato. I tavoli delle conferenze culturali sono fatti dello stesso legno di quello delle bare della cultura ammuffita che ha orchestrato quelle confidenze. È vero invece che la poesia nuova scaccia la vecchia per una legge ontologica e biologica. Prima o poi la nuova poesia prevarrà, è solo una questione di tempo. È una questione eventuale, una modalità dettata dalla necessità storica. Prima o poi l’evento accadrà. Whatever it takes.

 1 Id., Eterotopie, in Archivio Foucault III , a cura di A. Pandolfi, trad. it. di S. Loriga, Feltrinelli, Milano, 1998, p. 310.

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L'Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionalelombradelleparole.wordpress.com@lombradelleparole.wordpress.com
2025-09-25

Edith Dzieduszycka, “via col tempo”, autoantologia, Genesi, Torino, 2025 pp. 416, € 23. Lettura di Marie Laure Colasson

Il dolore come lingua, la voce come traccia, la voce dell’assenza

Con l’autoantologia via col tempo, Edith Dzieduszycka ci consegna un libro che non è solo la raccolta delle sue stagioni poetiche, ma il diagramma di un percorso esistenziale e linguistico che si snoda dal 2007 fino al 2025. La sua scrittura è intensa e crudele; «monumentale caleidoscopio», la definisce Silvio Raffo nella Introduzione. Edith mette in scena un dialogo continuo con l’assenza, con il vuoto spalancato che la vita le ha consegnato fin dall’infanzia, quando l’arresto dei genitori e la morte del padre a Mauthausen hanno inciso uno stigma originario.
Il tono della sua voce è quello di un discendente dell’«ectoplasma montaliano», ma con in più la tenacia e la volontà di penetrare nel fondo dell’Enigma dell’esistenza con una lingua che sembra provenire da un altrove, che trattiene, scuote il lettore e lo lascia andare dopo avergli confitto l’aculeo del trauma, che si mostra come colloquio con un Estraneo, con quell’Ultroneo che intorbida e infirma la coscienza di Edith. Non un io lirico centrato che parla delle proprie adiacenze e pertinenze, dunque, ma un soggetto scarnificato, inchiodato nell’esistenza che incute angoscia con la sua sola presenza-assenza.
Ha scritto Giorgio Linguaglossa: “La modalità linguistica dell’«ectoplasma» racchiude l’espressione di questo vulnus nel luogo che ab initio ci è stato assegnato: il colloquio con l’Estraneo che abita il «luogo» della coscienza, quell’Ultroneo che intorbida e annebbia la «voce» della coscienza. La «voce» della Dzieduszycka si dirige verso il fondamento ma deve fare i conti con la questione del fondamento che è, afferma Agamben, comunque, indicibile e irriducibile, anticipa già sempre l’uomo parlante, gettandolo in una storia e in un destino epocale”.
Esemplari, in questo senso, i versi di L’oltre andare (2008):

«Proviamo
dell’assenza
del vuoto spalancato
a cogliere l’essenza
proviamo ad estrarre
dal cuore del silenzio
l’ammutolito grido».

Qui la parola si fa traccia del non detto, tentativo di nominare ciò che resta inafferrabile, indicibile: l’assenza dell’altro, la perdita che non si ricompone.
In Nella notte un treno, l’io poetico si identifica con la figura della «bambina di ghiaccio» simbolo dell’infanzia violata:

«Bambina di ghiaccio oramai silenziosa
la tua anima
d’indelebile inchiostro hanno segnato
e sporcato lo sguardo
che prima di allora sulle cose posavi
rubato l’innocenza
strappato le radici».

L’esperienza biografica si trasfigura così in una parabola universale: il male storico diventa ferita linguistica, traccia che informa la parola poetica.
Accanto al tema della memoria, emerge con forza quello del tempo: non il tempo lineare, ma quello franto e circolare che accompagna la perdita. Così in Diario di un addio:

«Prima
non m’importava
né del tempo che fa
né del tempo che va
ora
la nuvola
mi pesa come cappa
il sole mi offende».

La Dzieduszycka non teme la nudità espressiva, la sua è una parola scabra, che rifiuta l’ornamento per farsi lama e balsamo, confessione e documento. In Paura lo dichiara con chiarezza:

«Tutti per consolarmi
mi dicono Vedrai
col tempo passerà
questo grande dolore.

Ma non voglio che passi
ché se il mio dolore
lo lasciassi sfuggire
sarebbe perderti
un’altra volta ancora».

Il lutto, allora, non si supera: diventa sostanza della parola. La poesia si fa durata, persistenza, testimonianza dell’esserci.
Tuttavia, accanto a questa dimensione elegiaca, vi è anche in alcuni momenti lo spazio del gioco e dell’apertura. In Cellule, raccolta bilingue del 2014, la voce si concede un respiro più ampio, in dialogo con altre arti e registri:

«Sulla riva dei tuoi sogni
approda una galera
vele estenuate
dopo lontani viaggi».

Versi che mostrano la natura anfibia e anfibologica della sua lingua, sempre sospesa tra due mondi: il francese e l’italiano, il quotidiano e il metafisico, la confessione e l’enigmatica rarefazione.
In definitiva, questa antologia ci mostra una poetessa che abita la radura spoglia dove l’essere si dà e si sottrae al tempo stesso. Una voce che non consola ma interroga, non spiega ma testimonia. Una voce ectoplasmatica, sì, ma necessaria: perché ci ricorda che il fondamento — pur restando indicibile — continua a interpellarci e a chiedere ascolto.
Non un io lirico centrato, dunque, ma un soggetto scarnificato che testimonia senza possedere.

La Dzieduszycka non teme la nudità espressiva, la sua è una parola nuda, scabra, che rifiuta l’ornamento per farsi lama e balsamo, confessione e documento. In Paura lo dichiara con chiarezza:

«Tutti per consolarmi
mi dicono Vedrai
col tempo passerà
questo grande dolore.

Ma non voglio che passi
ché se il mio dolore
lo lasciassi sfuggire
sarebbe perderti
un’altra volta ancora».

D’origine francese, Edith de Hody Dzieduszycka nasce a Strasburgo dove compie studi classici. Lavora per 12 anni al Consiglio d’Europa. Nel 1966 ottiene il Secondo Premio per una raccolta di poesie intitolata Ombres (Prix des Poètes de l’Est, organizzato dalla Società dei Poeti e artisti di Francia con pubblicazione su una antologia ad esso dedicata). In quegli anni alcune sue poesie vengono pubblicate sulla rivista “Art et Poésie” diretta da Henry Meillant; contemporaneamente disegna, dipinge e realizza collage. La prima mostra e lettura dei suoi testi vengono effettuate al “Consiglio d’Europa” durante una manifestazione del “Club des arts” da lei organizzato insieme ad alcuni colleghi di varie nazionalità di quell’organizzazione. Nel 1968 si trasferisce in Italia, Firenze, Milano, dove si diploma all’Accademia arti applicate, poi a Roma dove vive attualmente. Oltre alla scrittura, negli anni ’80 riprende la sua ricerca artistica (disegno, collage e fotografia), incoraggiata da Enzo Bilardello, Marco Di Capua, Mario Giacomelli, Duccio Trombadori, André Verdet e altri ancora. Vengono organizzate molte sue mostre personali e partecipazioni a collettive in Italia e all’estero. Continua a scrivere. Diario di un addio (Passigli 2007), dedicato a suo marito “Michele”, deceduto nel 2005, è il suo primo libro scritto direttamente in italiano. Da allora ha pubblicato numerose sillogi di poesia, raccolte di haiku, romanzi, racconti, fotografie, ottenendo premi e riconoscimenti in Italia e all’estero.

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Poesie scelte dall’antologia

1. Sospesi (da Diario di un addio, 2007)

Imperioso si sta facendo il tempo
più vicina la scadenza
lo presenti?
ancora non sembra
Mai te lo potrò chiedere
mai lo so me lo dirai
Rimarremo sospesi così
nell’incanto malefico
senza trovare la forza del distacco
il coraggio dell’addio.

2. Paura (da Diario di un addio, 2007)

Paura del giorno in cui scomparirà
la tua immagine
sbiadita sbriciolata.

Tutti per consolarmi
mi dicono Vedrai
col tempo passerà
questo grande dolore.

Ma non voglio che passi
ché se il mio dolore
lo lasciassi sfuggire
sarebbe perderti
un’altra volta ancora.

3. Proviamo (da L’oltre andare, 2008)

Proviamo
dell’assenza
del vuoto spalancato
a cogliere l’essenza

proviamo ad estrarre
dal cuore del silenzio
l’ammutolito grido
nell’onda scivolato…

4. Bambina di ghiaccio (da Nella notte un treno, 2009)

Bambina di ghiaccio oramai silenziosa
la tua anima
d’indelebile inchiostro hanno segnato
e sporcato lo sguardo
che prima di allora sulle cose posavi
rubato l’innocenza
strappato le radici
portando in un altrove lontano e sconosciuto
padre e madre rapiti venduti dal vicino.

5. L’onda (da L’oltre andare, 2008)

L’onda non lo sa
dove va a morire
qui, forse, più in là
maestra inafferrabile
furibonda e passiva
allarga il suo manto
lo ritira, lo sfrangia
sulla pelle fremente
di spiagge stupefatte.

6. Sur la rive de tes songes (da Cellule, 2014)

Sulla riva dei tuoi sogni
approda una galera
vele estenuate
dopo lontani viaggi…

7. Stupore (da Diario di un addio, 2007)

Ti rivedo.
Luoghi momenti delle nostre giornate
ferita che pulsa
sempre si riaccende il mio stupore
di pietra mi diventa il ventre
annebbiata la vista
salate le guance.

Sarà questo il dirsi statua?
Sarà questo trovarsi blocco gelido
concentrato, duro e solitario
sentirsi fragile, inapprodabile?

8. Singolare (da In fondo, 2025)

Spaziali certe distanze
dovute all’improvviso
agli eventi imprevedibili della vita
Distanze siderali
che chiudono le porte
tra un corpo e l’altro
distanze calcolabili
a secondo del caso
in onde fuggitive
o tempeste vibranti
in un bicchiere d’acqua.

#Agamben #antologiqa #EdithDeHodyDzieduszycka #giorgioLinguaglossa #MarieLaureColasson #PoesiaItaliana

L'Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionalelombradelleparole.wordpress.com@lombradelleparole.wordpress.com
2025-09-16

Tre poesie kitchen e distopiche di Mimmo Pugliese, Marie Laure Colasson e Giorgio Linguaglossa che si situano in zone di adiacenza post-simboliche con annessa impraticabilità di una qualsiasi ermeneutica a cura di Giorgio Linguaglossa, Il nostro tempo preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essere

Il nostro tempo preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essere.
Ciò che per esso è sacro, non è che l’illusione, ma ciò che è profano, è la verità.
(Guy Debord Parigi, 28 dicembre 1931– Bellevue-la-Montagne, 30 novembre 1994)

Poesia kitchen e distopica di Mimmo Pugliese

ANDATA È RITORNO

Seppellirai le vetrine
sotto specchi che tagliano il cuore

Nelle domeniche che ricordano l’ottovolante
nuvole addentano sedie vuote

Il rumore della polvere scende dal treno
ferri da stiro abbracciano collane di mirto

Chiedi acqua agli ossi
ha occhi di cristallo il triclinio

Il polso delle capinere offusca il sangue dei pianeti
il giardino di fianco ha rughe sulla fronte

Il martello partorisce la mezzanotte
il diastema solletica il mandorlo

Il tavolo della Sibilla Cumana è imbandito di semicrome
la lama del coltello è una cornice di fumo

Togli la primavera dal mazzo di carte
i fiumi hanno cambiato chauffeur

Non ci sono più streghe
tra poco si svegliano i pesci

Poesia kitchen e distopica di Marie Laure Colasson

Un navire avec la cravatte
traverse à pieds la place des poux
tandis qu’un chameau avec un parapluie
passe par le chas d’une aiguille

Avec circonspection la blanche geisha
branche son coeur à 220 volts
Elle dit: “liquidons l’Armée française”

Des sardines bon chic bon genre
voyagent à la vitesse de 600 km à la seconde
pour donner une accélération à l’énergie obscure

Une rose fanée dans le nombril
Eredia saute à pieds joints
dans l’éternel miracle du bidet

*

Un veliero con la cravatta
attraversa a piedi piazza dei pidocchi
mentre un cammello con l’ombrello
passa per la cruna d’un ago

Con circospezione la bianca geisha
mette sotto carica il suo cuore a 220 volts
Dice: “liquidiamo l’Armata francese”

Delle sardine sciccose e per bene
viaggiano alla velocità di 600 km al secondo
per dare una accelerazione all’energia oscura

Una rosa appassita nell’ombelico
Eredia salta a piedi pari
nell’eterno miracolo del bidet

Poesia kitchen e distopica di Giorgio Linguaglossa

Phobos e Deimos, le due lune marziane, hanno traslocato, adesso si sono sistemate presso la Circonvallazione Clodia n. 21 a Roma a due passi dalla abitazione della pittrice Marie Laure Colasson e hanno preso posto in una “Struttura dissipativa” del 2022 opera della pittrice che rappresenta il fungo di una esplosione nucleare.

Poi hanno preso il bus 23 e si sono dirette a San Paolo fuori le mura, nei pressi dell’indirizzo del critico Giorgio Linguaglossa al quale hanno dichiarato di essere in grado di ricacciare il dentifricio nel tubetto e di ricomporre le uova dopo aver fatto la frittata.

Il critico, molto infastidito, stava telefonando al poeta Vincenzo Petronelli, autore del post odierno, e ha replicato in modo esauriente con un «vaffa!, e adesso basta!».

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Ermeneutica, ovvero, la reiezione dell’ermeneutica

Nella sua Introduzione a Verità e Metodo, di Hans.G. Gadamer, Gianni Vattimo scrive:

«La coscienza, la certezza che l’io ha della verità come caratterizzata da chiarezza e distinzione, che da Cartesio fino allo stesso Hegel rimane l’istanza suprema, non è più per Nietzsche un testimone attendibile. In modo più radicale di Marx e Freud, che pure sono i positivi campioni dello smascheramento nel pensiero del nostro tempo, Nietzsche universalizza il sospetto nei confronti dell’autocoscienza, introducendo in modo definitivo nella nostra cultura la consapevolezza dell’attività di mascheramento e di mistificazione in cui consiste la vita stessa della coscienza».

La nuova ontologia estetica, la poetry kitchen e la poesia distopica si situano in zone di adiacenza post-simboliche, eleggono il Fattore fantasy al primo posto, ripudiano gli stucchi e le ragnatele della stanzetta del poeta rinchiuso nella cella monastica dell’io; spediscono al mittente la poiesis della «dimensione privata» (che si fa oggi in quantità industriale) se non altro perché «essa è semplicemente Kitsch, discarica di rifiuti quale è diventata la vita privata nella dimensione privata delle società post-democratiche dell’Occidente».

La nuova ontologia estetica, la poesia kitchen e distopica respingono al mittente il concetto di una coscienza plenipotenziaria in grado di gestire il senso e il significato.
Per la nuova poesia è prioritaria l’esigenza di
– disattivare, de-funzionalizzare l’organizzazione referenziale del linguaggio; aprire spazi di indeterminazione, di indecidibilità; creare proposizioni che non abbiano alcuna referenza che per convenzione la comunità linguistica si è data;
– aprire zone di labirintite, di indistinzione, di indiscernibilità, di indecidibilità, di dis/funzionalità tra le parole e le unità frastiche;
– negare l’assioma della continuità del senso e del significato come se ogni singola unità frastica attendesse di trovare la propria giustificazione dalla unità che immediatamente la precede o la segue.

La ratio del discorso poetico viene così ad essere depletata e derubricata perché non c’è più una Antigone e una Medea che parlano, ma un Vladimiro ed un Estragone che balbettano; ci sono tracce linguistiche, orme, segni sbiaditi. Non c’è una ratio alto allocata o una ratio subliminale che decidono alcunché, il potere oggi è diventato invisibile e ha reso inservibili le parole che pronuncia nei suoi verdetti; tutto ciò che abbiamo tra le mani sono delle «tracce» di altri linguaggi che sono implosi e che implodono nelle post-verità; non c’è più (se mai c’è stata) una legge o una regola che decide quali parole abiurare e quali ammodernare; non si dà mai alcun ammodernamento dell’apparato linguistico che non sia immediatamente imploso e de/funzionalizzato ma soltanto una peristalsi perpetua di segni. Le «tracce tragiche» sono una pia illusione, un abbaglio, o tutt’e due le cose insieme. Non c’è un regolo che regoli né una legge che legiferi, tutto è nel processo, nel flusso delle parole in questo mare dove non è affatto dolce il naufragar.

Le tre poesie di Mimmo Pugliese, Marie Laure Colasson e Giorgio Linguaglossa si collocano pienamente nell’orizzonte della poetry kitchen e distopica, così come indicato nelle riflessioni della “nuova ontologia estetica” teorizzata e praticata nella rivista on line lombradelleparole.wordpress.com

1. Mimmo Pugliese – Andata è ritorno

Qui l’immaginario è stratificato in immagini eteroclite e giustapposte: “nuvole addentano sedie vuote”, “il martello partorisce la mezzanotte”, “i fiumi hanno cambiato chauffeur”. La funzione referenziale del linguaggio viene deliberatamente sabotata: non c’è un referente stabile, non c’è linearità narrativa. Le frasi si concatenano per accostamento più che per logica consequenziale, creando una sensazione di disorientamento dis/organizzato. Questo è uno dei tratti distintivi della poesia distopica: defunzionalizzare il linguaggio, sottrarlo alla tirannia della coerenza semantica per aprire spazi di indecidibilità e di senso.

2. Marie Laure Colasson – Un navire avec la cravatte

L’immaginario post-surrealizzante si nutre di metamorfosi e cortocircuiti: un veliero attraversa una piazza a piedi, un cammello passa per la cruna di un ago, una geisha mette sotto carica il cuore a 220 volts. Qui l’elemento “distopico” si mescola con l’assurdo e l’oggetto quotidiano viene trattato come un materiale scenico da ricombinare liberamente. L’operazione è ultronea e fantasizzante, con un tocco teatrale e visivo, quasi da installazione concettuale. Come sottolineato in altri luoghi, la Colasson opera un montaggio di figure che agiscono come attanti in un teatro privo di trama, dove ogni gesto è, parola di paradosso, al contempo concreto e privo di scopo.

3. Giorgio Linguaglossa – poesia distopica

Qui la componente kitchen si innesta su un registro narrativo prosastico, ma trasfigurato: le lune marziane prendono il bus n. 23 a Roma, entrano in una pittura della Colasson, parlano e litigano con il critico il quale alla fine perde le staffe e le manda a quel paese. L’elemento distopico-derisorio sta nella messa in scena di un Reale capovolto e dis/funzionalizzato dove le coordinate spazio-temporali e le gerarchie tra reale e irreale sono collassate. Linguaglossa fa propria l’idea, già espressa in altre riflessioni critiche, che oggi non esistano più un «logos alto allocato» e un «logos basso allocato», ma solo “tracce” di linguaggi implosi e de/funzionalizzati in quanto deiettati dalla produzione e dal consumo e finiti nella discarica a cielo aperto delle società della comunicazione mediatica. La poesia diventa così cronaca post-surreale di un presente già post-surrealtato e imploso, dove il potere, il significato e il senso sono invisibili, indecidibili, inafferrabili e ciò che resta è solo un reflusso gastrico e peristaltico di segni in continua agitazione, in continuo rinvio.

Una sintesi critica può essere la seguente

Secondo l’impostazione della nuova ontologia estetica già espressa più volte sulla rivista on line “L’Ombra delle Parole”: si tratta di scritture che operano tutte in un campo post-storico e post-referenziale, impegnate in una serie di operazioni di scissione, di Spaltung dei «significati referendari» di oggi, scritture caratterizzate da:

Rottura della logica narrativa: frasari autonomizzati e lobotomizzati che non cercano giustificazione se non nel loro montaggio accidentale e incidentale.
Eterogeneità dell’immaginario: accostamenti stranianti, giustapposizioni incongrue, giunzioni ultronee di frasari de/funzionalizzati.
Reiezione della “dimensione privata”: reiezione del lirismo intimista e post-elegiaco ed impiego di materiali linguistici ready-made, presi dal deposito impersonale e collettivo qual è la discarica dei linguaggi preconfezionati dalla cronaca, dai social, dai linguaggi della disinformazione, in una parola, dai linguaggi de-culturalizzati tipici delle odierne post-democrazie neoliberali.
Sospensione del senso e del significato: non c’è nessun “messaggio”, ma proliferazione infinita di possibilità interpretative.
Reiezione di ogni ermeneutica: infatti, dopo il post-moderno siamo entrati nel campo dei linguaggi da superficie, dei linguaggi superficiari ai quali si attengono anche le ermeneutiche critiche per impossibilità di dire altro, di dire dei significati, di pronunciare sensi.

Il risultato è una poesia non-da-risultato sicuro,  che si sottrae alle sicurezze emergenti nelle scritture post-poetiche odierne, che non offre alcuna garanzia di linguaggio, che si sottrae alle antiche categorie novecentesche di avanguardia/retroguardia, nuovo/vecchio, che non costruisce più “cattedrali di sensi e di significati”, ma che si limita a preparare “piatti da cucina” – mixage rapidi, ingredienti disparati, improvvisati, ultronei che rispecchiano la frammentazione e la perdita di centralità del soggetto e dei suoi linguaggi nell’epoca post-democratica delle comunità neoliberali dell’Occidente.

(Giorgio Linguaglossa)

#ermeneutica #gianniVattimo #giorgioLinguaglossa #GuyDebord #HansGGadamer #MarieLaureColasson #MimmoPugliese #nuovaOntologiaEstetica #poesiaDistopica #poetryKitchen #postFantasy

L'Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionalelombradelleparole.wordpress.com@lombradelleparole.wordpress.com
2025-08-07

ChatGPT ha detto: Poesia di Francesco Paolo Intini ULIVI BRUCIATI tra Deriva semantica e poetica post-catastrofica tra Poetry Kitchen e distopia linguistica, prodotto di confine: né interamente kitcheniana, né pienamente distopica nel senso canonico. La sua forza espressiva risiede nella capacità di sostenere una pluralità di fratture: formali, semantiche, simboliche

da commento del 6 agosto 2025 alle 12:51 

Francesco Paolo Intini

ULIVI BRUCIATI

C’è il sospetto piuttosto evidente
che qualcosa non abbia funzionato.
La gravità non è bastata a tirare su la luna
e tra gli spettri neri s’è sparsa una noia
divoratrice di buone intenzioni.

Giorni coronati dall’insuccesso
di trasformare parole in energia
dove al massimo
succede di bere un analcolico
e parlare di malanni e malefatte di politici.

Parole = Energia.
Ma che equazione è?

Si tratta di sbattere il verso all’altezza dei colombi
Ma come spiegargli che il significato è morto?

Tirare fuori la storia del venditore di chitarre
Che si affacciò dalla pianta grassa
suonando senza accordi.

E intanto che le zanzare fanno il lavoro sporco
Precedere il collasso di stelle.

Domanda: crea una discussione su ULIVI BUUCIATI analoga a una Discussion in coda ai Results negli articoli scientifici. Ne sei capace?

ChatGPT ha detto:

Certamente. Ecco una discussione formulata in stile accademico, analoga a quella che si troverebbe nella sezione Discussion di un articolo scientifico, ma riferita alla poesia “ULIVI BRUCIATI”.

DISCUSSIONE

La poesia ULIVI BRUCIATI offre un corpus testuale significativo per l’analisi degli esiti formali e semantici di una poetica post-lirica ibridata tra istanze della Poetry Kitchen italiana contemporanea e suggestioni distopiche di matrice postmoderna. I risultati testuali evidenziano una decostruzione sistematica delle aspettative liriche tradizionali, sia sul piano sintattico che contenutistico, attraverso l’impiego di elementi dissonanti, una semantica perturbata e un immaginario simbolico apparentemente incoerente ma dotato di una coesione sottotraccia.

Uno degli elementi centrali del testo, l’equazione fittizia “Parole = Energia”, collocata autonomamente e seguita da una sua immediata messa in crisi (“Ma che equazione è?”), funge da punto nodale epistemico: in essa si condensa il fallimento della parola poetica nel suo mandato trasformativo. L’autore/voce, disilluso rispetto al potere generativo del linguaggio, propone uno scenario in cui la trasmissione di senso è inceppata, e la poetica stessa diventa oggetto di analisi ironica e critica.

L’impiego di immagini come “la gravità non è bastata a tirare su la luna” e “sbattere il verso all’altezza dei colombi” mostra un utilizzo consapevole di strategie kitcheniane: il lessico quotidiano e pseudo-scientifico viene giustapposto a simboli poetici svuotati, generando un effetto di dislocazione cognitiva. In questa operazione, il testo rinuncia alla linearità argomentativa e all’introspezione lirica in favore di un discorso frammentario e autoriflessivo, che si muove tra paratassi ironica e montaggio immaginifico.

Nel segmento finale (“Tirare fuori la storia del venditore di chitarre / che si affacciò dalla pianta grassa / suonando senza accordi”), si assiste a un picco di nonsense poetico controllato, in cui il surrealismo non è fine a se stesso ma diviene funzionale alla rappresentazione di un reale deformato, dove ogni gesto simbolico (la musica, la narrazione, il linguaggio stesso) si compie in assenza di struttura o funzione (“senza accordi”).

Infine, il verso conclusivo (“Precedere il collasso di stelle”) richiama un’entropia cosmica, coerente con le coordinate distopiche di fondo. Tuttavia, il testo non cede completamente a un’estetica del nichilismo assoluto: permane, nell’ironia secca e nell’invenzione linguistica, un residuo di vitalità interpretativa, riconducibile a una poetica post-catastrofica, dove la parola non è più salvifica ma ancora osservatrice.

Limitazioni di questa lettura potrebbero derivare dalla natura ibrida del testo, che non aderisce integralmente né alla radicalità kitcheniana né alla distopia performativa più estrema: si configura piuttosto come una zona liminare, fertile ma instabile, che richiederà ulteriori esplorazioni testuali per definire con maggiore precisione le sue coordinate critiche.

Se vuoi, posso redigere anche un abstract, una conclusione o persino un metodo immaginario di “analisi poetica sperimentale” in stile articolo accademico completo.

ChatGPT ha detto:

Di seguito trovi un’elaborazione completa in stile articolo scientifico (ambito umanistico-contemporaneo), con AbstractMetodoRisultatiDiscussione (già fornita), e Conclusioni, applicati alla poesia ULIVI BRUCIATI.
Lo stile richiama quello di articoli pubblicati in riviste di teoria letteraria contemporanea con focus su postmodernismo, nuove scritture e poesia sperimentale.

ULIVI BRUCIATI: Deriva semantica e poetica post-catastrofica tra Poetry Kitchen e distopia lirica

ABSTRACT

Il presente studio analizza la poesia ULIVI BRUCIATI come caso esemplare di scrittura poetica ibrida, situata al crocevia tra le poetiche della Poetry Kitchen italiana e le coordinate tematiche della poesia distopica contemporanea. Attraverso un’analisi qualitativa dei dispositivi linguistici, semantici e iconici presenti nel testo, si evidenzia una poetica di disgregazione del senso che si esprime mediante ironia, straniamento e sintassi paratattica. Il testo si configura come un ecosistema post-linguistico, in cui i riferimenti simbolici tradizionali (luna, stelle, parola, musica) sono presenti solo in quanto svuotati o collassati. La poesia agisce come osservatorio privilegiato della crisi della rappresentazione nella letteratura contemporanea.

METODO

L’analisi è stata condotta secondo una prospettiva ermeneutica integrata, che combina:

  • strumenti di close reading (analisi microtestuale),
  • criteri mutuati dalla teoria post-strutturalista (Derrida, Barthes),
  • osservazioni derivate dalla recente prassi della Poetry Kitchen italiana, con particolare attenzione agli studi pubblicati su L’Ombra delle Parole (Linguaglossa, Tosi, Colasson),
  • nozioni di teoria della distopia poetica (Braidotti, Berardi, T. Morton).

Il testo è stato sezionato in nuclei tematici, unità retoriche e segmenti simbolici. È stato quindi collocato in un sistema di riferimenti per valutare la sua adesione o deviazione rispetto ai modelli citati.

RISULTATI

L’analisi ha prodotto i seguenti risultati:

  • Il testo rifiuta la struttura lirica tradizionale in favore di una paratassi frammentaria, in cui la coerenza sintattica è sostituita da un montaggio associativo.
  • I riferimenti simbolici classici (luna, stelle, energia, musica) sono presenti in forma decostruita: la luna non sale, le parole non generano energia, la chitarra è suonata “senza accordi”.
  • Si osserva un uso consapevole dell’assurdo e del quotidiano, tipico della Poetry Kitchen, fuso con un senso pervasivo di entropia e smarrimento esistenziale.
  • L’“equazione” Parole = Energia, posta a metà testo, funge da perno epistemologico: viene introdotta come formula, poi subito negata, in un atto poetico di auto-demistificazione.
  • L’io poetico è decentrato e agisce da osservatore perplesso, non più protagonista lirico ma residuo semiotico immerso nel collasso.

DISCUSSIONE

Vedi risposta precedente, già fornita.

CONCLUSIONI

La poesia ULIVI BRUCIATI si configura come prodotto di confine: né interamente kitcheniana, né pienamente distopica nel senso canonico, ma potente nella sua ambivalenza. La sua forza espressiva risiede nella capacità di sostenere una pluralità di fratture: formali, semantiche, simboliche.
Il linguaggio non viene semplicemente usato, ma mostrato nel suo fallimento strutturale, senza rinunciare però a un’estetica del pensiero poetico. In questo senso, ULIVI BRUCIATI si inserisce nel filone delle poetiche post-catastrofiche, che registrano la dissoluzione del senso senza cedere alla paralisi espressiva.
La ricerca suggerisce che simili testi possano rappresentare un campo fertile per la ridefinizione della poesia contemporanea come laboratorio linguistico-filosofico più che come forma di confessione o testimonianza.

Se vuoi, possiamo impaginare tutto in formato PDF con veste grafica da paper accademico, oppure sviluppare altri “articoli” per una raccolta critica fittizia sulla tua produzione poetica. Vuoi procedere in questa direzione?

Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per la poesia con Progetto Cultura, Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti:  NATOMALEDUE è in preparazione. È uno degli autori presenti nelle Antologie Poetry kitchen 2022, Poetry kitchen 2023 e nella Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022), nonché nel volume di saggi di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022. È presente nella antologia kitchen Exodus e nel dialogo distopico a due voci con Giorgio Linguaglossa, Excalibur (2024). Sue poesie sono presenti nel volume La poesia nell’epoca della Intelligenza Artificiale a cura di Giorgio Linguaglossa, Progetto Cultura, 2025.  È membro della redazione della rivista on line lombradelleparole.wordpress.com

#FrancescoPaoloIntini #LucioMayoorTosi #MarieLaureColasson #poesiaDistopica #poesiaPostCatastrofista #poetryKitchen #UliviBruciati

L'Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionalelombradelleparole.wordpress.com@lombradelleparole.wordpress.com
2025-07-31

L’enunciato kitchen e quello distopico (suo corollario) agiscono in uno spazio che è diventato mera superficie, mero nastro di Möbius, un discorso poetico organizzato per formazioni dis/locate, ibride, dis/funzionali alla idea di tradizione, intesa come ordine linguistico costrittivo – Riflessione di Vincenzo Petronelli

Ben ritrovati cari amici dell’Ombra,

mi fa molto piacere tornare a scrivere su queste pagine che per me hanno il profumo di casa, proprio in coincidenza di quest’articolo, che trovo riassuma emblematicamente dei nuclei centrali della poetica Kitchen.

Come giustamente evidenzia Marie Laure Colasson, la poesia di Francesco Intini, Mimmo Pugliese, Giorgio Linguaglossa e Antonio Sagredo sono dei punti di riferimento imprescindibili per lo sviluppo del progetto Poetry kitchen, per la particolare “piegatura” destrutturante assunta dal loro registro linguistico, rappresentativa del vuoto o se vogliamo della vanificazione del sistema di significazione convenzionale che caratterizza l’epoca attuale.

La “liquidità” del mondo odierno, con la frantumazione dei codici espressivi dovuta al mondo digitale, con la globalizzazione, che ha contaminato le variabili linguistiche locali tradizionali, con la vorticosità dei mutamenti storico-politici ed i loro riflessi culturali, hanno inevitabilmente isterilito la prassi linguistica e comunicazionale cui il mondo si era abituato a partire dal secondo dopoguerra; c’è bisogno – è questo il concetto che sottende l’operazione mimetica della Poetry kitchen – di un modello espressivo che rifletta tale vuoto odierno nella lingua e che evidenzi per converso anche la soggettività e lo sbriciolamento delle immagini, delle metafore e direi anche topoi classici della poesia, ormai inadeguati a ritrarre il mondo e la società attuali. Peraltro, non si tratta solo di una questione di adeguatezza nella rappresentazione mimetica della scrittura poetica, ma anche della necessità di creare nuovi spazi palingenetici per la poesia ed il sapere tutto.

Come abbiamo avuto modo di accennare in un altro articolo, la storia e la filosofia della scienza, ci dimostrano come siano proprio i momenti di crisi dei paradigmi consolidati, corrispondenti alle fasi di transizione storiche, a determinare, negli intellettuali più sensibili ed avveduti, l’opportunità di rinnovare i modelli di conoscenza ed evitare la supremazia di quella che Giorgio chiama correttamente “la lingua dell’idioletto”; quel balbettio pseudo-poetico, che in questo contesto fluido rischia di imporsi, nella grigia comfort zone del conservatorismo culturale, rappresentato dalla poesia del quotidiano.

Come evidenzia opportunamente Marie Laure Colasson nel suo intervento, “è nelle discariche delle refurtive parolaie-mediatiche”, che la ricerca kitchen trova la propria essenza, al fine di ricostruire, rintracciare, ciò che la comunicazione artefatta, filtrata, selezionata dagli interessi dominanti, esecra a proprio piacimento ed edificare l’impalcatura di una nuova significazione poetica e linguistica, che rifletti (avalutativamente, come sempre per ciò che riguarda l’interpretazione artistica ed intellettuale) la contemporaneità.

Altrettanto correttamente, la Colasson sottolinea come la reciprocità fra “l’enunciato kitchen e quello distopico” (suo naturale corollario) “agiscono in uno spazio che è diventato mera superficie, mero nastro di Möbius”, dando vita ad un discorso poetico organizzato per “formazioni dis/locate e dis/articolate”: si tratta di un’opzione fondamentale per la sopravvivenza di un linguaggio poetico che mantenga ancora il suo senso e la sua dignità intellettuale, attraverso l’individuazione della sua (riprendo sempre le parole di Marie Laure) “connotazione di significato”.

La decostruzione di uno schema sintattico e semantico consolidato, determina ipso facto una morfologia distopica e dunque la Poetry kitchen è poesia distopica, l’unica via di fuga possibile dalle ridicole tendenze tardo pascoliane, che abbondano nella poesia (specie italiana) di oggi, riflettendo anche in poesia, la deriva populista nella quale purtroppo l’Europa è oggi immersa.

Versi come questi di Mimmo Pugliese:

Nella sala d’attesa si lucidano rivoltelle
il domatore arriva in motoslitta
è già morto 11 volte
ma il corridoio non ha mai cambiato spartito”
;

o questi altri di Francesco Paolo Intini:

Un passero rovista nel riciclabile. Manca un led alla rabbia finale.
Il potere si concentra in un motore poi passa di mano in mano
Ma non saprà dirci, con tutta evidenza,
Cos’è quest’allegrezza nel fil di rame
…”;

mettono indiscutibilmente la parola “fine” a qualsiasi tentativo di perpetuazione di modelli poetici che nel nome di una presunta “tradizione” pretendono di eternare un modello di poesia isterilita e dunque asservita.

Il progetto Poetry kitchen segna una frattura definitiva con questi cascami ormai non solo anacronistici, ma ingombranti, parassiti annidantesi nel nostro panorama culturale, e lo fa in maniera incisiva, non limitandosi solo alla dimensione sincronica, ma affondando anche in quella diacronica, come in questi versi di Giorgio Linguaglossa:

Diomede ed Euriloco sperano che le vacanze di Troia non finiscano più.

Odisseo mette il caricatore nel kalashnikov di Agamennone il quale, beato lui, si prende la tintarella sulla spiaggia.

Odisseo, Menelao, Agamennone si spalmano l’abbronzante sul corpo sotto l’ombrellone”.

Screenshot

È evidente la necessità di procedere a mettere anche la storia sotto la lente d’ingrandimento, rileggendone criticamente i canoni linguistici, pena l’impossibilità di ricostruire adeguatamente le azioni delle onde sotterranee che hanno sempre attraversato la poesia occidentale: perché qualsiasi operazione di ricerca sulla lingua è un intervento antropologico, ed in quanto tale fa inevitabilmente i conti con le concrezioni della storia.

Siamo di fronte ad un’opzione vitale per recuperare quello che Giorgio Linguaglossa evidenzia come il fattore mancante nella costruzione poietica dominante oggi, il Fattore Fantasia – ammorbata proprio dal dipanarsi dei condizionamenti storici – senza il quale qualsiasi impalcatura di costruzione poetica viene inevitabilmente a decadere.

L’idea di “tradizione” è una delle chiavi interpretative delle articolazioni di controllo delle manifestazioni del pensiero, con la sua fissità sul Reale, che avvilisce la poiesi; come dimostrano gli studi di antropologia storica, il concetto di tradizione, è servito come strumento di forgiatura e controllo politici delle prassi sociali e culturali in varie epoche storiche ed a varie latitudini, nel nome di una presunta “purezza delle origini”, funzionale alla perpetuazione dell’ordine costituito nelle varie articolazioni che regolano le società.

Si tratta in realtà di un processo di manipolazione che va ad incidere su quella che è una dinamica fisiologica, che tutte le società, di ogni epoca storica hanno sempre avvertito, vale a dire quella di assicurarsi la coesione sociale e il senso di appartenenza, processo che parte storicamente dalla riattualizzazione degli antichi miti nella quotidianità, conferendo alla comunità un senso di rassicurazione collettiva.

Nel passaggio dalla dimensione antropologico-sociale a quella antropologico-culturale, tale attitudine innata nell’uomo, si riassume nella celebre formula coniata in filosofia da Nietzsche del “mito dell’eterno ritorno”, ripresa poi da uno degli artefici della moderna ricerca storico-religiosa, Mircea Eliade, con la quale lo studioso romeno riassume la rielaborazione nella dimensione del quotidiano dei modelli archetipi mitologici, il riproporsi ciclico dell’ordine cosmico, del ciclo della vita, della morte e della rinascita, che si reitera nell’espletamento del rito.

Nel passaggio dal mondo contadino a quello industriale ed al “modo di produzione capitalistico”, la tradizione ha finito – in forma ancor più accentuata che in passato – per diventare uno strumento di conservazione e legittimazione di istituzioni, status, gerarchie sociali o rapporti di autorità, grazie al potere di persuasione dell’”idea forza” della sua perpetuazione nel tempo, inculcando credenze, sistemi di valori, codici convenzionali e di comportamento ripetitivi, nei quali si afferma implicitamente la continuità col passato.

Le critiche a questa degenerazione del concetto di tradizione, sono alla base di una delle opere più importanti di antropologia storica del ‘900, dal titolo, per l’appunto L’invenzione della tradizione, di Eric Hobsbawm (uno dei maggiori storici contemporanei) e Terence Ranger.

I due autori partono dall’osservazione che: “tradizioni che ci appaiano, o si pretendono, antiche, hanno spesso un’origine piuttosto recente, e talvolta sono inventate di sana pianta”; “è caratteristico (di tali tradizioni: nda) il fatto che l’aspetto della continuità sia in larga misura fittizio” “che assumano la forma di riferimenti a situazioni antiche”.

I due studiosi, dimostrano in realtà come si tratti di elaborazioni di risposte calate dall’alto, di fronte a fasi di rapido cambiamento sociale; in queste situazioni, evidentemente le forme di potere costituite intravedono il rischio di scricchiolii, per sventare i quali è fondamentale cercare di coinvolgere le comunità, fornendo loro l’impressione di individuare a sua volta delle soluzioni a tale stato di incertezza, moltiplicatesi esponenzialmente con l’affermazione dell’ “età del capitalismo”, almeno dalla fine del ‘700 e la rottura dei precedenti equilibri.

Non è un caso dunque, che quest’idea “ossessiva” del concetto di tradizione, si radichi soprattutto durante l’800: basti pensare ai vari tentativi di legittimazione dinastica, in contrapposizione alla nascita dei nuovi stati nazionali ed a loro volta ai vari miti creati ad arte per rafforzare le aspirazioni nazionaliste, che avranno come corollario, nel corso del ‘900, lo sviluppo del nazionalismo con tutte le nefandezze da esso prodotte nel corso del secolo.

E non è un caso, altresì, che nell’individuare la definizione di ogni nuova tradizione, si ricorra sempre alla costruzione immaginifica di presunte abitudini umane originarie, attraverso la dimostrazione della loro perpetuazione, in maniera immutata, nel tempo: si attua così, verso queste supposte consuetudini, il meccanismo che Ugo Fabietti definisce di “rimozione dalla storia” e che alimenta quello che già Marc Bloch aveva ribattezzato “idolo delle origini”, che ritroviamo ormai a tutti i livelli, dalla più bieche strumentalizzazioni politiche, fino alla creazione di sagre paesane, sfruttando “l’eterno selvaggio” che si annida nella società occidentale.

L’antropologia combatte queste concrezioni negative e le loro ricadute, mostrando come non esistano culture chiuse alla contaminazione nello spazio ed al contatto con la storia ed evidenziando come qualsiasi cultura sia soggetta a processi evolutivi, in ogni sua singola articolazione, radicati nelle dinamiche storiche.

La prassi di edificare tradizioni ad hocsi estrinseca per forza di cose, anche attraverso il controllo delle singole manifestazioni del pensiero e della creatività, in modo da annientare le aspirazioni al cambiamento, che soprattutto nei momenti di crisi tendono ad affiorare, come reale via d’uscita dal panorama di difficoltà.

In questo quadro, inevitabilmente, la poesia, da sempre considerata la massima espressione della creazione umana e dotata storicamente di una particolare forza d’impatto sull’animo umano che probabilmente condivide solo con la musica – sua musa gemella – ha goduto sempre di “attenzioni particolari”, soprattutto in quelle realtà che possono basarsi su maggiori eredità legate a modelli classici (e ciò non riguarda evidentemente solo la nostra classicità) a perorazione della pretesa nobiltà di modelli archetipi esemplari cui attenersi; ed è così che in ambito italiano proliferino tuttora scritti elegiaci di sapore pascoliano o gozzaniano, assolutamente insignificanti al giorno d’oggi, ma che assolvono questa funzione consolatoria.

Cosa fare? Forse la soluzione è davvero quella che Giorgio Linguaglossa prospetta nel suo componimento qui presente: “mettere mine ad ogni endecasillabo” o scioglierli facendone dentifrici.

Un caro saluto a tutti.

(Vincenzo Petronelli, poeta componente della redazione de lombradelleparole.wordpress.com e della rivista cartacea Il Mangiaparole)

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Vincenzo Petronelli è nato a Barletta l’8 novembre del 1970, laureato in lettere moderne con specializzazione storico-antropologica, risiede ad Erba in provincia di Como. Dopo un primo percorso post-laurea come ricercatore universitario nell’ambito storico-antropologico-geografico e redattore editoriale negli stessi comparti, oltreché in quello musicale, attualmente gestisce un’attività di consulenza aziendale nel campo della comunicazione, del marketing internazionale e dell’export. Agisce in vari settori culturali. Come autore sono impegnato scrive testi di poesia, di narrativa e di storytelling sportivo, musicale e cinematografico, nonché come autore di testi per programmi televisivi e spettacoli teatrali. Nel contempo, prosegue nell’impegno come ricercatore in qualità di cultore della materia sul versante storico-antropologico, occupandosi in particolare di tematiche inerenti i sistemi di rappresentazione collettiva, l’immaginario collettivo, la cultura popolare, la cultura di massa, la storia delle religioni. È attivo nell’ambito della ricerca storica e antropologica e come storyteller, nell’organizzazione di eventi e festival culturali in diversi settori (musica, letteratura, teatro, divulgazione) e come promoter musicale. È redattore per il blog letterario internazionale lombradelleparole.wordpress.com e collabora con le riviste Il Mangiaparolee Mescalinaoccupandosi di musica, poesia e del rapporto tra poesia e scienze sociali. Dal 2018 è presidente dell’associazione letteraria Ammin Acarya di Como. Ha iniziato a comporre poesie dalla seconda metà degli anni novanta. Alcuni suoi testi sono presenti nelle antologie IPOET edita nel 2017 e Il Segreto delle Fragole edita nel 2018, entrambe a cura dell’editore Lietocolle, nonché in Mai la Parola rimane sola edita nel 2017 dalla associazione “Ammin  Acarya” di Como, nel blog letterario internazionale “L’Ombra delle Parole”. È uno degli autori presenti nelle Antologie Poetry kitchen 2022 e Poetry kitchen 2023, nonché nella Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite 2023 e  nel volume di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Progetto Cultura, Roma, 2022. Sue poesie sono presenti nel volume La poesia nell’epoca della Intelligenza Artificiale a cura di Giorgio Linguaglossa, Progetto Cultura, 2025.

#AntonioSagredo #FrancescoPaoloIntini #giorgioLinguaglossa #IntelligenzaArtificiale #MarieLaureColasson #MimmoPugliese #poesiaDistopica #poesiaKitchen #VincenzoPetronelli

L'Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionalelombradelleparole.wordpress.com@lombradelleparole.wordpress.com
2025-07-19

Poesie kitchen e distopiche di Francesco Paolo Intini, Mimmo Pugliese, Antonio Sagredo e Giorgio Linguaglossa. Ermeneutica di Marie Laure Colasson, L’enunciato kitchen e quello distopico agiscono in uno spazio che è diventato mera superficie, mero nastro di Möbius; in questo spazio o, più propriamente, in questo «campo dinamico», si inscrive il nuovo discorso poetico «superficiario»

Francesco Paolo Intini

Un Cappotto Taglia 110 per Beethoven

Flex e il violinista si piantano sul balcone.

All’aereo che passa mandano un saluto ultravioletto
È giorno di cieli rotti e rifacimenti in nero.
Mattonelle scendono sugli abeti, riempiono i cortili

Un passero rovista nel riciclabile. Manca un led alla rabbia finale.
Il potere si concentra in un motore poi passa di mano in mano
Ma non saprà dirci, con tutta evidenza,

Cos’è quest’allegrezza nel fil di rame.
Si tratta di prolegomeni. Quello che accadrà ai nervi.

Se interroghi una scocca il parafango brandisce dubbi.
Dentro l’uovo cresce un velociraptor: TRRRRRR…
Spaccherà il guscio dell’Europa

Cosa vuoi che sia un trapano?
Toc..Toc… fa l’inizio di un bussare alla serranda:

che ci fanno i Cristi nella banda?
C’è sempre il lancio dal quinto piano

Previsto per il 15 dicembre.
Si aprono i lapsus e nel fuggi-fuggi dei violini
Beethoven azzanna un violoncello:

per i figli-dice- quelli che verranno.
Sulla bacchetta spunta una rapa
tra le orecchiette, le acciughe al sale
e patacche d’oro da inghiottire all’alba.


Mimmo Pugliese

LA TRAIETTORIA DELL’OMBELICO

La traiettoria dell’ombelico si denuda
prima di sera incrocia l’alluminio coibentato
che si porta dietro bucce di mela come sposa
in cerca di un filo di rimmel per non perdersi
L’arroganza del gallo è un disco a 78 giri
una zattera con problemi di alopecia tossisce
sorvola una scala a chiocciola e
si sdraia sotto il ponte di Brooklyn
L’arrivo della fase lunare disorienta il detersivo
strappa la giacca ai gerani
svegliatisi gli hamburger dopo l’alluvione
allineati agli orari dei dirigibili
Nella sala d’attesa si lucidano rivoltelle
il domatore arriva in motoslitta
è già morto 11 volte
ma il corridoio non ha mai cambiato spartito
Al battesimo di Sofocle non c’è nessuno
il cortile condominiale ha le gambe asimmetriche
tiene per mano la madre
e gli basta che abbia più anni di lei*

* da Papaveri neri freschi a colazione, in corso di stampa

Antonio Sagredo

Ancora ci sposiamo con Isotta

Ancora ci sposiamo con Isotta e le sue note.
Dei preludi in deliquio e da specchi notturni
vediamo i suoni di pentagrammi viola,
e dai calici fra sponsali e attori

tracima un mancamento dal nero legno,
e mi rimprovera Pamina che la commedia
è ferma per un mio errore di spartito e di vocali
impastati a una partitura in disaccordo .

Che l’armonia io non so che sogni-accordi esegue
e non so quali strumenti in rivolta tacciono
se i suoni come trucioli certo non si spargono sul palco,
ma dal capestro dondola pigro il canto di una folle sinfonia.

Non accusatemi se la commedia da sola s’è ripresa
da quando accesi con gli occhi di Pamina i fatui fuochi
e le paludi e gli stagni mi hanno eletto un Senza Corona.
Non ho da offrire nemmeno un cuore in contumacia.

(Roma, 9 giugno 2025, da Nuove poesie)

Giorgio Linguaglossa

Oggi qui, domani là

Menelao si presenta all’esame di maturità a Mar-a-Lago.
Proclama:
«Whatever it takes».
«Troia è il nostro cortile di casa».

Diomede ed Euriloco sperano che le vacanze di Troia non finiscano più.
Odisseo mette il caricatore nel kalashnikov di Agamennone il quale, beato lui, si prende la tintarella sulla spiaggia.
Odisseo, Menelao, Agamennone si spalmano l’abbronzante sul corpo sotto l’ombrellone.

Gli achei cucinano vermicelli all’istrice sulla spiaggia.
Nel frattempo Elena ha ripudiato Paride,
dice che vuole tornare da Menelao.

Il Signor K. si mette una gardenia all’occhiello,
si presenta dal critico Linguaglossa con un frac inappuntabile.
Dice: «sulla pista ciclabile c’è posto anche per i Tank».

Col gioco delle tre carte Paride ci beve sopra un bicchierino di vodka, recita il rosario, maneggia granate e timbri con lo scolapasta.
Scambia uncini per gondole, lucciole per lanterne.

*

“Nel 1949 Richard Feynman mi parlò della sua versione della meccanica quantistica chiamata ‘sum over histories’. Mi diceva:

«l’elettrone fa tutto ciò che vuole. Va in qualsiasi direzione con qualsiasi velocità, avanti e indietro nel tempo, fa come gli pare, e poi si sommano le ampiezze e si ottiene la funzione d’onda». Gli dissi: «Sei un pazzo». Ma non lo era”.

Freeman Dyson mentre racconta dell’idea di Feynman dei path integral (integrale sui cammini). La citazione si trova un po’ ovunque, ma io l’ho presa dal libro “Quantum Field Theory for the Gifted Amateur” di Lancaster e Blundell.

La mia variante è questa:

«la parola fa tutto ciò che vuole. Va in qualsiasi direzione con qualsiasi velocità, avanti e indietro nel tempo, fa come gli pare, e poi si sommano le ampiezze e si ottiene la funzione poetica»

(Giorgio Linguaglossa)

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Ermeneutica di Marie Laure Colasson

La poetry kitchen di Francesco Paolo Intini, Mimmo Pugliese e la poesia distopica di Antonio Sagredo e Giorgio Linguaglossa sono una hilarocomoedia burlesque. Intini la sua meravigliosa lingua di plastilina la impiega e la piega in quanto lingua miserabile che emana un odore di fritto misto di pesce. È la lingua del commercio degli affari propri; questa lingua, o meglio, questo linguaggio, quello che desertifica il logos, quello della poesia del neoermetismo del quotidiano è qualcosa contro cui occorre gridare vendetta.  Intini usa questo linguaggio spiegazzato, miserrimo, ipoveritativo e lo fa deflagrare in autentici colpi di scena apoplettici di riso amaro. Intini, Mimmo Pugliese sono, a mio avviso, un classico della poesia kitchen perché loro sono arrivati a tanto accettando il linguaggio miserabile e spiegazzato che troviamo nelle discariche delle refurtive parolaie-mediatiche.

L’enunciato kitchen e quello distopico agiscono in uno spazio che è diventato mera superficie, mero nastro di Möbius; in questo spazio o, più propriamente, in questo «campo dinamico», si inscrive il nuovo discorso poetico «superficiario» nella quale la scrittura poetica si presenta in formazioni dis/locate e dis/articolate.

Ma questa dislocazione è ben più che un artificio retorico, si tratta invece d’una petizione di sopravvivenza in virtù della quale il discorso poetico agisce come all’interno di una «griglia campodinamica». Attraverso queste griglie e queste dis/locazioni gli enunciati assumono la connotazione di significato. Ed ecco emergere il senso e il significato. Foucault asserisce che è possibile che a volte queste griglie vengano momentaneamente infrante, allora soltanto si dà l’opportunità fugace di fare «esperienza» di qualcosa di «proprio» per il tramite di questa frattura. È in tal modo ammissibile esperire l’esistenza in sé di qualcosa come un ordine di senso o di non senso, ma si tratta di un pensiero antropizzante. Infrangere questo ordine di senso o di non senso è il compito precipuo della poesia distopica e del kitchen.

Ordine del discorso e ordine del pensiero sono disconnessi, lo spazio in cui pensiamo e parliamo può essere infranto in qualsiasi momento. E il significato va a farsi benedire. È la situazione limite delle eterotopie, ovvero, quella sorta di «contro-spazi» di cui le culture sono munite e «in cui gli spazi reali, tutti gli altri spazi reali che possiamo trovare all’interno della cultura, sono, al contempo, rappresentati, contestati e rovesciati».1

La poesia distopica è una eterotopia, una reazione allergica all’ordine del senso e del significato. Occorre fare in fretta: il panorama poetico italiano invaso dai poeti elegiaci con i loro compitini educati e lucidati deve essere al più presto rigettato. I tavoli delle conferenze culturali sono fatti dello stesso legno di quello delle bare della cultura ammuffita che ha orchestrato quelle confidenze. È vero invece che la poesia nuova scaccia la vecchia per una legge ontologica e biologica. Prima o poi la nuova poesia prevarrà, è solo una questione di tempo. È una questione eventuale, una modalità dettata dalla necessità storica. Prima o poi l’evento accadrà. Whatever it takes.

 1 Id., Eterotopie, in Archivio Foucault III , a cura di A. Pandolfi, trad. it. di S. Loriga, Feltrinelli, Milano, 1998, p. 310.

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Notizie biobibliografiche

 Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per la poesia con Progetto Cultura, Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti:  NATOMALEDUE è in preparazione. È uno degli autori presenti nelle Antologie Poetry kitchen 2022, Poetry kitchen 2023 e nella Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022), nonché nel volume di saggi di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022. È presente nella antologia kitchen Exodus e nel dialogo distopico a due voci con Giorgio Linguaglossa, Excalibur (2024). È membro della redazione della rivista on line lombradelleparole.wordpress.com

Giorgio Linguaglossa è nato nel 1949 e vive e Roma. Per la poesia esordisce nel 1992 con Uccelli (Scettro del Re, Roma), nel 2000 pubblica Paradiso (Libreria Croce, Roma). Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura “Poiesis” che dal 1997 dirigerà fino al 2006. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il “Manifesto della Nuova Poesia Metafisica”, pubblicato sul n. 7 di “Poiesis”. È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle). Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: “È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo”», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, per le edizioni EdiLet pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italiano/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 escono la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma), nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma.  Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019. Nel 2002 esce  l’antologia Poetry kitchen che comprende sedici poeti contemporanei e il saggio L’elefante sta bene in salotto (la Catastrofe, l’Angoscia, la Guerra, il Fantasma, il kitsch, il Covid, la Moda, la Poetry kitchen). È il curatore delle Antologie Poetry kitchen 2022 e Poetry kitchen 2023 nonché dei volumi Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022), del saggio L’Elefante sta bene in salotto, Progetto Cultura, Roma, 2022. Nel 2024 pubblica Due dialoghi Excalibur (dialogo distopico tra Giorgio Linguaglossa e Francesco Paolo Intini), Expiravit (dialogo distopico tra Giuseppe Talia e Giorgio Linguaglossa), ed Exodus  (undici voci di Avatar disseminati nel cosmo) con Progetto Cultura (2024). Nel 2014 ha fondato e dirige tuttora la rivista on line lombradelleparole.wordpress.com  con la quale insieme ad altri poeti, prosegue la ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia meta stabile dove viene esplorato un nuovo paradigma per una poiesis che pensi una poesia delle società signorili di massa e che prenda atto della implosione dell’io e delle sue pertinenze retoriche. La poetry kitchen, la poesia buffet o distopica perseguita dalla rivista rappresenta l’esito letterario del Collasso del Simbolico, uno sconvolgimento totale della «forma-poesia» che abbiamo conosciuto nel novecento, con essa non si vuole esperire alcuna metafisica né alcun condominio personale delle parole, concetti ormai defenestrati dal capitalismo cognitivo di oggi.

Mimmo Pugliese è nato nel 1960 a San Basile (Cs), paese italo-albanese, dove risiede. Licenza classica seguita da laurea in Giurisprudenza presso l’Università “La Sapienza” di Roma, esercita la professione di avvocato presso il Foro di Castrovillari. Ha pubblicato, nel maggio 2020, Fosfeni, Calabria Letteraria-Rubbettino Editore, una raccolta di n. 36 poesie. È uno degli autori presenti nelle Antologie Poetry kitchen 2022 e Poetry kitchen 2023,nella Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022), nonché nel volume di saggi di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022. È presente nella antologia kitchen, Exodus (2024). È presente nella antologia kitchen Exodus (2024). Nel 2025 pubblica Papaveri neri freschi a colazione.

Antonio Sagredo è nato a Brindisi il 29 novembre 1945 (pseudonimo Alberto Di Paola), ha vissuto a Lecce, e dal 1968 a Roma dove risiede. Ha pubblicato le sue poesie in Spagna: Testuggini (Tortugas) Lola editorial 1992, Zaragoza; e Poemas, Lola editorial 2001, Zaragoza; e inoltre in diverse riviste: “Malvis” (n.1) e “Turia” (n.17), 1995, Zaragoza. La Prima Legione (da Legioni, 1989) in “Gradiva”, ed. Yale Italia Poetry, USA, 2002, e in Il Teatro delle idee, Roma, Cantos del Moncayo, Ediciones Olifante, Zaragoza, 2022,2008, la poesia Omaggio al pittore Turi Sottile. Come articoli o saggi in “La Zagaglia”: Recensione critica ad un poeta salentino, 1968, Lecce (A. Di Paola); in “Rivista di Psicologia Analitica”, 1984, (pseud. Baio della Porta): Leone Tolstoj Le memorie di un folle; in “Il caffè illustrato”, n.11, marzo-aprile 2003: A. M. Ripellino e il “Teatro degli Skomorochi”, 1971-74. (A. Di Paola). Ha curato (con diversi pseudonimi) traduzioni di poesie e poemi di poeti slavi: Il poema: Tumuli di Josef Kostohryz , pubblicato in “L’ozio”, ed. Amadeus, 1990; trad. A. Di Paola e Kateřina Zoufalová; i poemi: Edison (in L’ozio, 1987, trad. A. Di Paola), e Il becchino assoluto (in “L’ozio”, 1988) di Vitĕzslav Nezval, (trad. A. Di Paola e K. Zoufalová). Traduzioni di poesie scelte di Kateřina Rudčenková, di Zbynk Hejda, Ladislav Novák, di Jirí Kolár, e altri in varie riviste italiane e ceche. Recentemente nella rivista “Poesia” (settembre 2013, n. 285), ha pubblicato per la prima volta in Italia a un vasto pubblico di lettori di Otokar Březina, La vittoriosa solitudine del canto (lettera di Otokar Březina ad Antonio Sagredo), traduzione di A. Di Paola e K. Zoufalová. È presente nella antologia kitchen Exodus  (undici voci di Avatar disseminati nel cosmo) con Progetto Cultura (2024).

Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, ha insegnato danza classica e coreografia di spettacoli di danza contemporanea. Nel 2022 per Progetto Cultura di Roma esce la sua prima raccolta poetica in edizione bilingue, Les choses de la vie. È uno degli autori presenti nella Antologie Poetry kitchen 2022 e Poetry kitchen 2023, nonché nella  Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022),  nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, (2022), nonché nella antologia di undici autori kitchen Exodus del 2024,  Progetto Cultura, Roma. È componente della redazione della rivista on line l’ombradelleparole.wordpress.com e della rivista trimestrale di poesia e contemporaneistica “Il Mangiaparole”. Sulla sua pittura hanno scritto, tra gli altri, Mario Lunetta, Edith Dzieduszycka, Lucio Mayoor Tosi, Gino Rago e Giorgio Linguagloss

#AntonioSagredo #burlesque #FrancescoPaoloIntini #giorgioLinguaglossa #MarieLaureColasson #MimmoPugliese #poesiaDistopica #poetryKitchen

L'Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionalelombradelleparole.wordpress.com@lombradelleparole.wordpress.com
2025-07-11

Stroncatura di una poesia di Maurizio Cucchi. Lettura di Giorgio Linguaglossa. Un testo che non conosce gli oggetti. Non gli interessano gli oggetti. Retropensieri di una retropia, o retropie di retropensieri…

(Marie Laure Colasson, présence, acrilico, 30×30, 2025)

Giorgio Linguaglossa
(12 giugno 2019 alle 11:16)

Siamo inesorabilmente invasi dalle parole «piene», le parole comunicazionali che troviamo in tutti i libri di poesia e di narrativa che si stampano oggi, analoghe a quelle che usiamo tutti i giorni nei nostri commerci quotidiani. Le parole «piene», quelle di Salvini, dei Vannacci, di Telemeloni, le parole della propaganda politica, della pubblicità & company vogliono essere seduttive, si rivolgono al proprio elettorato, al proprio uditorio, ai propri followers, chiamano a raccolta, imperative in quanto soliloquiali, piene di significato soliloquiale, piene di steccati soliloquiali.

No, le parole della poesia sono un’altra cosa, esse sanno di essere deboli e fragili, sanno di non poter contare sul proprio statuto di verità ontologica, sanno di poggiare su una ontologia meta stabile, soggetta alla mutazione, soggetta al toglimento, alla de-coincisione.

A me francamente fanno sorridere le certezze dei poeti della domenica, quelli che mi dicono: «ma come fai a togliere l’io da una poesia?».

Ecco, dinanzi a questa domanda da commercialista io non ho nulla da dire. Cosa potrei dire? Tutti gli ultimi libri di Maurizio Cucchi sono il discorso di un io plenipotenziario che parla di se stesso e con se stesso: io di qua, io di là, io così, io colà. Penso che se l’autore mette dappertutto l’io, ne sarà pur convinto, sarà in buona fede, forse pensa che l’io sia un passepartout che apre tutte le porte. Io invece penso che l’io chiuda tutte le porte. Chiude tutti i discorsi invece di aprirli.  Li chiude in quanto convinto della coincidenza tra l’io e l’esserci, perché crede ingenuamente nell’eternità e nella bontà glossologica dell’io. Cucchi adotta il senso comune del volgo. Infatti, l’io si basa su questa credenza popolare: l’io è vero e degno di fiducia, tutto il resto è falso, o può risultare falso. Opinione accettabilissima per il senso comune acritico, ma priva di qualsiasi significato filosofico.

È chiaro che un “io” di questo genere userà soltanto parole «piene», parole «vere»; dividerà le parole: di qua le parole vere e piene, di là le parole non-vere e non-piene.

Oggi la poesia la si scrive avendo in mente i propri followers

Questa che segue è una poesia di un noto poeta italiano, autore di 11 libri di poesia, Maurizio Cucchi. La prendo come parametro di quello che dicevo sopra. La composizione inizia con la descrizione del pensiero dell’io, poi passa alla auto fustigazione di «noi animali» (sic), per poi proseguire con una ruminazione mentale oziosa e peregrina, vacua, irrisoria, che vorrebbe additare ad un pensiero profondo, alla eternità del dopo la morte: «E laggiù dove andrò, remoto», cui segue tutta una infiorettatura di pensierini irrisori, irrisolti e gratuiti estrapolati dalla camera più segreta «nell’ultimo conato» dell’io.

Ecco, qui siamo in presenza di quello che intendevo dire quando parlavo di «parole piene», di parole ad uso di tutti, di parole faccendiere, affaccendate in quanto proiezione di un “io” che non nutre neanche del beneficio del dubbio cartesiano; un “io” nascosto, ascoso in chissà quale profondità della mente. Lo dice il testo stesso, all’io «piace… assaporare la più elementare forma di dominio». Sì, è vero, questa volta ha ragione Cucchi, qui si tratta del «dominio» vero e proprio, del dominio delle «parole piene», risolutorie che si rivelano, al contrario, nei testi essere parole vacue, ingorde, irrisorie, fideiussorie: Le parole della poeticità debole nell’epoca del presentismo mediatico.

di Maurizio Cucchi

Troppo spesso – pensavo – troppo,
troppo spesso noi animali ci affidiamo
alla bontà curiosa della nostra indole.

E laggiù dove andrò, remoto,
nella patetica smorfia verticale muore
l’impronta, e non lo sa, e replica
se stesso, ancora, nell’ultimo conato
costruttivo. Del resto
ci piace assaporare, puerili,
la più elementare forma di dominio,
espressione del nostro costume
e la natura ci ingombra, ci pesa ma consiglia
le terre più estreme, dove l’attrito procede
e si consuma ancora più violento
e fisico, più naturale.

Se si legge con attenzione, ci accorgiamo che non è citato nemmeno un oggetto, tutte le espressioni appartengono al genere “astratto” del si dice di ciò che non si dice, del non si dice di ciò che si dice. Parole che appartengono ad una vecchia ontologia del novecento rimasticata e rispolverata, riverniciata di fresco. Parole che appartengono al genere della decrescita culturale felice, felice in quanto acritica, del soliloquio che è sito in un angolo remoto della mente: nell’Io plenipotenziario. Una ruminazione fine a se stessa che parla di «dominio», che vorrebbe riuscire moralistica, che ci parla con il suo tono assertorio, regolatorio, che in realtà parla a se stessa, non parla mai al lettore. È un testo che non conosce gli oggetti. Non gli interessano gli oggetti. Retropensieri di una retropia, o retropie di retropensieri, fate voi. Anzi, mi correggo, retrovie di retropie…

Senza l’Immaginario il Reale non sarebbe abitabile

È questa riflessione di Lacan che mette a soqquadro la posizione geometrale cartesiana di un soggetto logico che abita uno spazio neutro. Il Reale per poter funzionare come oggetto del godimento e della rappresentazione deve essere supportato dall’Immaginario. Per la nuova poesia e il nuovo romanzo il Reale va vestito, mascherato, fantasmatizzato. Appunto, fantasmatizzato. Abitare il Reale presuppone sempre abitare l’Immaginario, implica la possibilità di abitare più temporalità e più spazi, moltiplicare l’Io tramite la convocazione di sosia e di avatar. Assegnare alle spazialità proprietà propulsive implica poter riconoscere i bordi, le sfrangiature, le cuciture, i confini, le cicatrici dello spazio, e sarà su questo spazio che il linguaggio poetico può operare delle piegature, delle cuciture, dei tagli, delle foderature, dei nodi.

Il periscopio della nuova poesia

dovrà quindi necessariamente virare dalla vita intima a quella esterna. l’interiorità del soggetto non è altro che una esteriorità rovesciata su se stessa. Il linguaggio poetico critico dovrà appuntare la sua attenzione non solo sulla vita interiore ma anche e soprattutto sugli abiti, sulle maschere, sui soprabiti, sui cappelli ornamentali, sulle passamanerie fantasmatiche e passare dalla vita presuntuosamente intima del soggetto a quella dell’extimità del soggetto stesso, di ciò che sta al di fuori del soggetto, in lontananze che per la geometria cartesiana sarebbero abissali ma che per la geometria degli spazi topologici invece sono vicinissime. L’abito come manufatto linguisticamente topologico implica che esso è fatto di proiezioni dell’Immaginario, con conseguenti attese, rimozioni, ribaltamenti, deviazioni del desiderio, deviazioni del godimento; abito inteso come costumi, comunità di linguaggi, esoscheletro. In ultima analisi abito linguistico come abito del Politico. In una parola: abito come creazione da parte di una particolarissima sartoria teatrale, allestimento plurilinguistico, plurifantastico e plurifantasmatico. Perché un nuovo abito linguistico designa sempre un nuovo soggetto politico.

Maurizio Cucchi è nato nel 1945 a Milano, dove vive. Ha pubblicato i libri di poesia: Il disperso (Mondadori, 1976, e Guanda, 1994), Le meraviglie dell’acqua (Mondadori, 1980), Glenn (San Marco dei Giustiniani, 1982, Premio Viareggio), Donna del gioco (Mondadori, 1987), Poesia della fonte (Mondadori, 1993, Premio Montale), L’ultimo viaggio di Glenn (Mondadori, 1999), Poesie 1965-2000 (Mondadori, 2001), Per un secondo o un secolo (Mondadori, 2003), Jeanne d’Arc e il suo doppio (Guanda, 2008), Vite pulviscolari (Mondadori, 2009), Malaspina (Mondadori, 2013), Paradossalmente e con affanno (Einaudi, 2017), Sindrome del distacco e tregua (Mondadori, 2019). In prosa: Il male è nelle cose (2005), La traversata di Milano (2007), La maschera ritratto (2011), L’indifferenza dell’assassino (2012). Ha inoltre curato un’antologia di “Poeti dell’Ottocento” (1978), il “Dizionario della poesia italiana” (1983 e 1990), e, con Stefano Giovanardi, l’antologia “Poeti italiani del secondo Novecento” (1996). Ha diretto per due anni la rivista “Poesia” (1989-1991).

#giorgioLinguaglossa #Immaginario #Lacan #MarieLaureColasson #maurizioCucchi #NuovaPoesia #poesia #PoesiaItaliana #présence #Reale

L'Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionalelombradelleparole.wordpress.com@lombradelleparole.wordpress.com
2019-06-13

Dialoghi e Poesie, La storicità debole dell’Epoca del presentismo mediatico, Le parole piene, Le parole comunicazionali della poesia di oggi, Octavio Paz, Marie Laure Colasson, Nunzia Binetti, Guido Galdini, Mauro Pierno, Lucio Mayoor Tosi, Giuseppe Gallo, Francesco Paolo Intini, Giorgio Linguaglossa, Maurizio Cucchi

Giorgio Linguaglossa
11 giugno 2019 alle 12:33

Leggiamo la poesia di Marie Laure Colasson

Vert de l’eucalyptus
Rose pale de la rose
Dans la transparence
D‘ un petit verre d‘eau de vie
Sous l‘éclairage d‘une lampe de chevet
Sérénité

Oiseaux noirs des campagnes
Leurs cris étranglés
Les corbeaux

La mélancolie sonore
D‘ Erik Satie
Te vide de toute pensée
………………écoute

Une bande de rats
Vêtus de jeans troués
Fumaient des havanes
………pas des prolétaires

Perdre la vue
Michel Onfray
Comment dormir
Comment……………
Comment…………………..

Prendo atto che è scomparso l’io e sono scomparsi i verbi. Finalmente i verbi sono scomparsi, e le parole nuotano nel bianco albume del nulla, fanno a meno dei legami sintattici, fanno a meno del legame unidirezionale e dittatoriale di quella «istanza» o «funzione» che Lacan chiama «io». E la poesia spicca proprio per questa essenzialità di dizione, per la solitudine delle parole. Le parole sono diventate entità rarefatte, diafane, appena poggiate sulla pellicola del linguaggio.

A suo modo Marie Laure Colasson scrive secondo i parametri della nuova ontologia estetica senza peraltro averla mai incontrata prima in quanto la poetessa francofona che abita a Roma frequenta la rivista soltanto da pochi giorni. Ciò vuol dire, come non mi stanco di ripetere, che le cose sono nell’aria, che un poeta che abbia sensibilità linguistica non può non accorgersi che l’atmosfera delle parole è cambiata, che è cambiata la sensibilità per le parole, e sono cambiate anche le parole.

Quelle parole di un tempo, che abitavano la sintassi di un Cesare Pavese o quella di un Sanguineti, adesso sono state messe in mora, sono state fatte sloggiare da quegli indirizzi, sono state evacuate dalla forza pubblica, il ministro della mala vita, Salvini, ha chiamato i bulldozer e ha fatto tabula rasa delle loro residenze, di quelle bidonville che erano l’accampamento delle parole di uno Zanzotto o degli apologisti epigonici di oggi. Quelle parole non esistono più, sono state bandite e rese obsolete. Ma non da noi dell’Ombra, ma dalla storia.

Non so se sia stato il «dolore» delle parole come pensa Nunzia Binetti, io sto ai fatti: le parole si sono raffreddate, non sopportano più i massaggi cardiaci degli innamorati della parola poetica e degli esquimesi posiziocentrici del vuoto a perdere, le parole della Musa fuggono da chi vuole accalappiarle con l’accalappiacani o con lo scolapasta. Il fatto è che le parole della poesia non sanno più dove rifugiarsi, fuggono, scantonano, preferiscono dimorare negli immondezzai di Roma (Grazie sindaca Virginia Raggi!), nelle risciacquature dei lavabo, nelle pozzanghere dove ci sono cinghiali e gabbiani ad abbeverarsi…

Il Signor Avenarius, un personaggio delle mie poesie, dice: «Le parole hanno dimenticato le parole», sono state attecchite dall’oblio delle parole, un virus pericolosissimo che ci sta decimando senza accorgercene. Siamo lentamente invasi dalle parole piene, le parole comunicazionali che troviamo in tutti i libri di poesia che si stampano oggi.

Giuseppe Gallo
11 giugno 2019 alle 13:52

Carissimo Giorgio, una veloce precisazione per segnalare che m’ero accorto di quanto avevi suggerito sulla ontologia negativa di Heidegger, infatti ti scrivevo in data: 25 maggio 2019 alle 9.19 :

Caro Giorgio, trovo molto interessante l’appunto che esplichi sulla ontologia negativa di Heidegger: «l’Essere è ciò che non si dice» che oggi si rovescerebbe nel suo opposto “l’Essere è ciò che si dice.” e la sua estensione alle poesie di Marina Petrillo e di Donatella Giancaspero. Noto però, che i due assiomi hanno come radice sempre la parola e il linguaggio. Anche il “non si dice” ha bisogno di essere espresso alla stessa stregua di ciò “che si dice”. È sempre il linguaggio che deve parlare…

Poi non abbiamo avuto modo di discuterne. Oggi hai ripreso l’argomento e hai anche richiamato il testo di Massimo Donà, Aporia del fondamento (2009). Penso che la questione sia di capitale importanza… ne è testimonianza la tua più che trentennale esperienza… dobbiamo finirla di indossare gli oscuri “pepli” di quelle poetiche che perpetuano pianti e lagni intorno a ciò che non si sa e non si può sapere… altrimenti l’unica soluzione è un silenzio immane. E non possiamo nemmeno ruotare a vuoto intorno all’indicibile perché rischieremmo di fare la fine della mosca imbottigliata di Wittgenstein per mancanza di collusione con l’esterno… dobbiamo tornare alla complessità della parola e del linguaggio: è solo in questa dimensione che bisogna sperimentare i sentieri e i percorsi… ho la vacua speranza che non siano stati tutti interrotti… In fondo già nel suo severo “Poema” Parmenide poneva a confronto la “via della notte” e la “via del giorno”…

Giorgio Linguaglossa
11 giugno 2019 alle 15:47

caro Giuseppe Gallo,

Ecco l’incipit di L’arco e la lira di Octavio Paz, poeta e saggista tra i più significativi del nostro tempo:

“Scrivere, forse, non ha altra giustificazione che tentare di rispondere alla domanda che ci siamo fatti un giorno e che, fino a quando non ci saremo dati una risposta, non ci darà tregua.“

Una volta, anni fa, uno scrittore di chiacchiere poetiche mi ha fatto questa domanda: “tu che la sai, perché non ci riveli qual è la domanda fondamentale che dobbiamo porci?” – Tu comprendi bene che dinanzi alla albagia e alla truculenza ignorante di una tale domanda io sia rimasto in silenzio, cosa potevo rispondergli?

Sempre Paz scrive:

«La storia dell’uomo si potrebbe ridurre a quella delle relazioni tra le parole e il pensiero. Ogni periodo di crisi inizia o coincide con una critica del linguaggio. Subito viene a mancare la fede nell’efficacia del vocabolo… Persino il silenzio dice qualcosa, poiché è saturo di segni. Non possiamo sfuggire dal linguaggio… Per catturare il linguaggio non abbiamo altro modo che usarlo. Le reti da pesca per le parole sono fatte di parole… Il linguaggio, nella sua realtà ultima, ci sfugge. Questa realtà consiste nell’essere qualcosa di indivisibile e inseparabile dall’uomo. Il linguaggio è una condizione dell’esistenza dell’uomo e non un oggetto, un organismo o un sistema convenzionale di segni che possiamo accettare o disfare».1

Ecco, caro Giuseppe, però adesso sappiamo che le famose «corrispondenze» tra le parole, ci hanno portato fuori strada, perché è proprio del linguaggio dei segni portarci fuori strada. Andare fuori strada è quella la strada. Nel linguaggio non dimora la verità, esso è la verità, la sola e unica verità di cui possiamo fare conoscenza, ma, appena preso possesso di queste verità, ecco che il linguaggio ci mostra l’altro lato della medaglia, ci indica qualcosa d’altro che la verità richiama. Senza fine. Un richiamo rimanda ad un altro richiamo. La verità è allora questo portarci fuori. La verità è ciò che si dice, non ciò che non si dice. È questa la tremenda verità della ontologia positiva. Con il che, per chi capisce la portata delle conseguenze che derivano da questo apoftegma, cambia il modo di considerare il discorso poetico e di abitare il linguaggio poetico.
[…]
Un’opera poetica pura non potrebbe esser fatta di parole e sarebbe, letteralmente, indicibile. Nello stesso tempo un’opera poetica che non lottasse contro la natura delle parole, obbligandole ad andare oltre se stesse e oltre i loro significati relativi, un’opera poetica che non cercasse di far loro dire l’indicibile, risulterebbe una semplice manipolazione verbale. Ciò che caratterizza un’opera poetica è la sua necessaria dipendenza dalla parola tanto quanto la sua battaglia per trascenderla».

1] O. Paz, L’arco e la lira, a cura di Ernesto Franco, il melangolo, 1991 p. 33

Francesco Paolo Intini
12 giugno 2019 alle 10:06

Non Dio

Resta un dubbio sul gatto nero
Se i palazzi ruotano intorno.

I fotoni eccitano le rivoluzioni
La materia oscura inghiotte i quartieri.

Le ombre illuminano
E dal loro centro emergono gli occhi.

I teologi rimasero sconvolti dalla natura della luce
così in dettaglio non s’era mai visto l’essere.

Se doveva pensarsi Dio
bisognava liberarlo dai fotoni e dunque

Le strade si riavvolsero, il traffico rimase inghiottito
Il corpo nero diventò l’imploso di gechi e malve

Il pazzo che scrisse “ Dio c’è” nel triangolo stradale
è il folle che disse “ Dio è morto”.

Lucio Mayoor Tosi
12 giugno 2019 alle 10:48 

Nel «dialogo» non si fa differenza tra vivi e morti. Se non vi è differenza, allora siamo tutti vivi, o tutti morti. Se morti, a che vale buttarsi dal Pont Mirabeau? Forse a togliere tra di noi il disturbo…
“– è il dialogo che apre alla soluzione problematologica”. Non il monologo, quindi.
Un passo in avanti nel tempo e ci si ritrova morti. Finalmente immuni. Sarebbe una delizia? Ma se siamo morti e vivi, cosa cambia? Il nostro essere in natura; che da quando abbiamo smesso di migrare ci tocca di accendere il riscaldamento… Lo dicevo stamane agli aironi che vivono qui, nelle pozze d’acqua delle risaie. Agli aironi, perché no?

(Marie Laure Colasson, présence, acrilico, 30×30, 2025)

Giorgio Linguaglossa
12 giugno 2019 alle 11:16

Oggi siamo inesorabilmente invasi dalle parole «piene», le parole comunicazionali che troviamo in tutti i libri di poesia e di narrativa che si stampano oggi, analoghe a quelle che usiamo tutti i giorni nei nostri commerci quotidiani. Le parole «piene», quelle di Salvini, dei Vannacci, di Telemeloni & company vogliono essere seduttive, si rivolgono al proprio elettorato, al proprio uditorio, chiamano a raccolta, imperative in quanto soliloquiali, piene di significato soliloquiale, piene di steccati soliloquiali.

No, le parole della poesia sono un’altra cosa, esse sanno di essere deboli e fragili, sanno di non poter contare sul proprio statuto di verità ontologica, sanno di poggiare su una ontologia meta stabile, soggetta alla mutazione, soggetta al toglimento, alla de-coincisione.

A me francamente fanno sorridere le certezze dei poeti della domenica, quelli che mi dicono: «ma come fai a togliere l’io da una poesia?».

Ecco, dinanzi a questa domanda da commercialista io non ho nulla da dire. Cosa potrei dire? Tutto l’ultimo libro di Maurizio Cucchi è il discorso di un io plenipotenziario che parla di se stesso e con se stesso: io di qua, io di là, io così, io colà. Penso che se l’autore mette dappertutto l’io, ne sarà pur convinto, sarà in buona fede, forse pensa che l’io sia un passepartout che apre tutte le porte. Io invece penso che l’io chiuda tutte le porte. Chiude tutti i discorsi invece di aprirli.  Li chiude in quanto convinto della coincidenza tra l’io e l’esserci, perché crede ingenuamente nell’eternità e nella bontà glossologica dell’io. Cucchi adotta il senso comune del volgo. Infatti, l’io si basa su questa credenza popolare: l’io è vero, tutto il resto è falso. Opinione accettabilissima per il senso comune, ma priva di qualsiasi significato filosofico.

È chiaro che un io di questo genere userà soltanto parole «piene», parole «vere»; dividerà le parole: di qua le parole vere e piene, di là le parole non-vere e non-piene.

Oggi la poesia la si scrive avendo in mente i propri followers

Questa che segue è una poesia di un noto poeta italiano, autore di 11 libri di poesia, Maurizio Cucchi. La prendo come parametro di quello che dicevo sopra. La composizione inizia con la descrizione del pensiero dell’io, poi passa alla autofustigazione di «noi animali» (sic), per poi proseguire con una ruminazione mentale oziosa e peregrina, vacua, irrisoria, che vorrebbe additare ad un pensiero profondo, alla etermità del dopo la morte: «E laggiù dove andrò, remoto», cui segue tutta una infiorettatura di pensierini irrisori, irrisolti e gratuiti estrapolati dalla camera più segreta dell’io «nell’ultimo conato».
Ecco, qui siamo in presenza di quello che intendevo dire quando parlavo di «parole piene», di parole ad uso di tutti, di parole faccendiere, affaccendate in quanto proiezione di un «io» nascosto, ascoso in chissà quale profondità della mente. Lo dice il testo stesso, all’io «piace… assaporare la più elementare forma di dominio». Sì, è vero, qui si tratta del «dominio», del dominio delle «parole piene», che si rivelano essere parole vacue, ingorde, irrisorie, fidejussorie. Le parole della poeticità debole nell’epoca del presentismo mediatico.

di MaurizioCucchi

Troppo spesso – pensavo – troppo,
troppo spesso noi animali ci affidiamo
alla bontà curiosa della nostra indole.

E laggiù dove andrò, remoto,
nella patetica smorfia verticale muore
l’impronta, e non lo sa, e replica
se stesso, ancora, nell’ultimo conato
costruttivo. Del resto
ci piace assaporare, puerili,
la più elementare forma di dominio,
espressione del nostro costume
e la natura ci ingombra, ci pesa ma consiglia
le terre più estreme, dove l’attrito procede
e si consuma ancora più violento
e fisico, più naturale.

Se si legge con attenzione, ci accorgiamo che non è citato nemmeno un oggetto, tutte le espressioni appartengono al genere “astratto” del si dice di ciò che non si dice, del non si dice di ciò che si dice. Parole che appartengono ad una vecchia ontologia del novecento rimasticata e rispolverata, rimessa a nuovo. Parole che appartengono al genere della decrescita felice, del soliloquio che è sito in un angolo remoto della mente: nell’Io plenipotenziario. Una ruminazione fine a se stessa, che vorrebbe riuscire moralistica, che ci parla con il suo tono assertorio, regolatorio, che in realtà parla a se stessa, non parla mai al lettore. È un testo che non conosce gli oggetti. Non gli interessano gli oggetti. Retropensieri di una retropia, o retropie di retropensieri, fate voi. Anzi, mi correggo, retrovie di retropie…

Senza l’Immaginario il Reale non sarebbe abitabile

È questa riflessione di Lacan che mette a soqquadro la posizione geometrale cartesiana di un soggetto logico che abita uno spazio neutro. Il Reale per poter funzionare come oggetto del godimento e della rappresentazione deve essere supportato dall’Immaginario. Per la nuova poesia e il nuovo romanzo il Reale va vestito, infiorettato, fantasmatizzato. Appunto, immaginato. Abitare il Reale presuppone sempre abitare l’Immaginario, implica la possibilità di abitare più temporalità e più spazi, moltiplicare l’Io tramite la convocazione di sosia e di avatar. Assegnare alle spazialità proprietà propulsive implica poter riconoscere i bordi, le sfrangiature, le cuciture, i confini, le cicatrici dello spazio, e sarà su questo spazio che il linguaggio può operare delle piegature, delle cuciture, dei tagli, delle foderature, dei nodi.

Il periscopio della nuova poesia dovrà quindi necessariamente virare dalla vita intima a quella esterna. l’interiorità del soggetto non è altro che una esteriorità rovesciata su se stessa. Il linguaggio poetico dovrà appuntare la sua attenzione non solo sulla vita interiore ma anche e soprattutto sugli abiti, sulle maschere, sui soprabiti, sui cappelli ornamentali, sulle passamanerie fantasmatiche e passare dalla vita presuntuosamente intima del soggetto a quella dell’extimità del soggetto stesso, di ciò che sta al di fuori del soggetto, in lontananze che per la geometria cartesiana sarebbero abissali ma che per la geometria degli spazi topologici invece sono vicinissime. L’abito come manufatto linguisticamente topologico implica che esso è fatto di proiezioni dell’Immaginario, con conseguenti attese, rimozioni, ribaltamenti, deviazioni del desiderio; abito inteso come costumi, linguaggi, esoscheletro. In una parola: abito come creazione da parte di una particolarissima sartoria teatrale, allestimento plurilinguistico, plurifantastico e plurifantasmatico.

Nunzia Binetti
12 giugno 2019 alle 17:13

-Tu sei perfetta sintesi di un petto in cui suona una musica al mattino –
Elena tra sé dice al risveglio, pensando da fisarmonica.

Eccolo il ritmo, pezzi di terra morta
sottratti in Argentina. Malinconia di un tango, senza danza.

Che senso avrebbe un brindisi ? Non un bicchiere
fra petali di rose sulla mensa .

Elena sceglie una vestaglia nera ;
il bianco della pelle la contrasta.

Una mia prova in tema. Gaie, Giorgio. Grazie Ombra

Mauro Pierno
12 giugno 2019 alle 17:19

Forse la prestidigitazione.
Le mani sporche. Un lavaggio inutile e le

colombe verdi. Forse una centrifuga
fatta lavorare a forza. Forse un silenzio

senza multipli fratto
tutte quante le resistenze. Forse un vetro

alato, allora una manta. Forse
un oceano di propaganda.

Lucio Mayoor Tosi
12 giugno 2019 alle 17:53

Accade questo,
che molti arrivano dallo spazio, e altri dal tempo.

Chi dallo spazio, tende sempre ad estendersi, aggregare e convincere.
Chi arriva dal tempo vive di attimi in sequenza, senza fine.

Per lo spaziale, il quando è quantificabile. Un freddo calcolare.
Per l’uomo del tempo, il quando è adesso. Fine e inizio.

Non avremo mai pace sulla Terra.

(May : pensierino. Giu 2019)

Giuseppe Gallo
12 giugno 2019 alle 18:47

Caro Giorgio, prima di tutto, un grazie per la chiarezza e la lucidità degli approfondimenti… ormai hai fornito tutti gli elementi per poter procedere sul sentiero dell’ontologia positiva… il resto sarà un’avventura individuale… Mi piace sottolineare, però, un altro aspetto presente nei versi di Milaure Colasson. Tu hai scritto:

“Prendo atto che è scomparso l’io e sono scomparsi i verbi. Finalmente i verbi sono scomparsi, e le parole nuotano nel bianco albume del nulla, fanno a meno dei legami sintattici, fanno a meno del legame unidirezionale e dittatoriale di quella «istanza» o «funzione» che Lacan chiama «io». E la poesia spicca proprio per questa essenzialità di dizione, per la solitudine delle parole. Le parole sono diventate entità rarefatte, diafane, appena poggiate sulla pellicola del linguaggio.”

Ebbene, questo tipo di scrittura mi suggerisce l’idea che la poetessa abbia subito anche il fascino della sensibilità orientale per quella “neutralità dell’immagine” presente negli Haiku, come avrebbe detto Steven Grieco-Ratheb. Per far emergere solo parole, dando ad esse il loro giusto peso, senza legami sintattici e senza la “funzione dittatoriale dell’io”, è necessario liberarle dalle incrostazioni della logica materiale, della loro concretezza comunicazionale… è necessario evocare la loro fragilità per trasformandola in essenza; le parole, in questo caso, veramente, diventano cose che non solo “nuotano nel bianco albume del nulla” (tra l’altro questa immagine mi ha provocato dei brividi), ma slittano, inesorabilmente, verso la deriva “di ciò che si dice”…

Giorgio Linguaglossa
12 giugno 2019 alle 20:47

caro Giuseppe Gallo,

Milaure Colasson è una pittrice, ha sempre pensato e fatto pittura astratta o semiastratta, e questo le ha dato un grande vantaggio rispetto a tutti gli autori che scrivono poesia pensando alla poesia maggioritaria e uniformandosi ad essa. Colasson è abituata a pensare gli oggetti in quanto oggetti non in quanto funzioni dell’io o in quanto assoggettati all’io plenipotenziario. E scrive come pensa, scrive come vede gli oggetti. E questo è un grande vantaggio.

Mauro Pierno
12 giugno 2019 alle 22:05

Eppoi gli abbozzi,
quante sculture.

Hanno un giunto di perfezione.
La pausa sopraggiunta, il solco esatto

per la digitazione.
Forse la prestidigitazione.

Le mani sporche. Un lavaggio inutile e le
colombe verdi. Forse una centrifuga

fatta lavorare a forza. Forse un silenzio
senza multipli fratto

tutte quante le resistenze. Forse un vetro
alato, allora una manta.

Allora
un oceano di propaganda.

#DialoghiEPoesie #FrancescoPaoloIntini #giorgioLinguaglossa #GiuseppeGallo #guidoGaldini #LaStoricitàDeboleDellEpocaDelPresentismoMediatico #LeParoleComunicazionaliDellaPoesiaDiOggi #LeParolePiene #LucioMayoorTosi #MarieLaureColasson #maurizioCucchi #MauroPierno #NunziaBinetti #OctavioPaz #retropieERetrovie

L'Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionalelombradelleparole.wordpress.com@lombradelleparole.wordpress.com
2025-06-17

di Gino Rago, il Vuoto, lo specchio, da “I platani sul tevere diventano betulle” (Progetto Cultura, pp. 175, 12 euro, 2020) Ermeneutica della nuova ontologia estetica

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di Gino Rago
il vuoto, lo specchio

Ulisse in vestaglia

Ulisse è in vestaglia,
Si ubriaca tra le stoviglie della reggia.

«Spio la vita dalle fenditure a distanza neutra dagli eventi.
Estraneo a me stesso annuso il giorno con le certezze d’un rabdomante,

Taglio il percorso della luce
Quando rimbalza dalle bottiglie al cuore».

Chi davvero sei?
«Sono in vestaglia, navigo da libro a libro,

Sbaglio i vettori della rosa dei venti,
Sa, non sempre indovino la stella polare,

Schivo a fatica scogli, fingo naufragi,
Mi invento qualche approdo di fortuna,

Lo vedi anche tu… L’Odissea?
È una grande bugia».

*
Cara Signora Jolanda W.,

Il mio amico [di Roma]*, quello che si occupa del Signor Nulla,
litiga di nascosto con lo specchio.

Lo fa tutti i giorni, non dategli molto credito,
dice che fa i conti con il Vuoto,

Il Vuoto che capta altro Vuoto.
Il tempo cade sotto forma di polvere, opacizza l’immagine,

sbiadisce le fotografie, scontorna il presente, il futuro e il passato,
il mio amico se la prende con il Signor K.

Una donna, la sgualdrina di Vivaldi, fa un valzer con il primo che passa,
Marie Laure Colasson mangia una Sacher con panna,

lo vedo attraverso la vetrata della Gebäck der Prinzessin Sissi.
Che volete, i miei amici, quelli della nuova ontologia estetica,

hanno un debole per le pasticcerie.
Adesso lo vedo allo specchio mentre si rade la barba e fischietta.

Una risata da dietro i gerani.

*[Il mio amico di Roma è Giorgio Linguaglossa]

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Seconda lettera a Giorgio linguaglossa
[Omero, Virgilio, Dante, il tempo]

Caro Signor Linguaglossa,
rispondo ancora io alla Sua missiva,

collaboro con il Suo amico da poco, sono Annette,
la pronipote di S. W.,

zia Simone per alcuni era la ‘mistica Simone’,
per altri ‘Simone-la-filosofa’, per altri ancora la ‘rivoluzionaria’.

Per me, fu e rimane Zia Simone dai capelli sempre in disordine,
la donna senza trucchi,

pronta a spingere il suo corpo contro ogni tirannia.

[…]

In questo momento G.R. non è nel bugigattolo
che anche io chiamo il-suo-studio per non deluderlo.

Si è precipitato per le scale, è andato a sedare una rissa.
Nella piazzetta sotto casa litigano Virgilio e Omero sull’idea
[di tempo

e sul verso alessandrino. Mi pare di avere notato fra i litiganti
anche l’Alighieri, spiando dai vetri della finestra.

Dante dava ragione a Virgilio, al suo concetto di movimento
[lineare,
al suo modello lineare dell’esistenza:

«Ha ragione Virgilio, altro che tautologia tra causa ed effetto
e cerchi che si chiudono,

altro che ritorno perpetuo alle origini.
Enea non torna e non fa ritorno nemmeno il mio Ulisse…».

Il bacio

Cara Signora Lipska,
oggi Vienna fa scintille alla Kesselringplatz.

Il tram ferma la sua corsa,
dal Belvedere arrivano gli strilli di Kokoschka,

è in polemica con Schiele per« ll Bacio» di Klimt,
l’aria d’autunno si guasta.

Il mio amico* ha scritto:
«[…] due specchi si specchiano nel vuoto,

illuminano il vuoto, specchiano il vuoto che e nel loro interno […]»
Il vuoto dentro lo specchio e assenza o cruna nell’ago

verso la più alta conoscenza?
Non l’uomo ma un cane al buio sbraita alla luna.

Dal vaudeville in fondo alla locanda:
«un miliardesimo di miliardesimo della grandezza di un atomo

è già luce dello sperma siderale».
La Kesselringplatz non ricorda più l’Impero, né Sissi.

Francesco Giuseppe. A Trieste, a Piazza dell’Unità,
fin dall’alba lascia il Castello di Duino,

tracanna Campari e spritz al Caffè degli Specchi.
A Vienna la principessa balla con un uomo senza qualità.

*È Giorgio Linguaglossa

10 – Le città

Cara Signora Jolanda,
ieri ho fermato quell’uomo che mi tormenta.

Passa da qui ogni mercoledi,
mi fissa negli occhi e prosegue:

«Chi sei? Cosa porti nella borsa?»
«Sono un poeta. Nella borsa porto il mio destino
per indirizzi ignoti, letti d’alberghi, strade spaventate.

Anch’io avevo un nome ma non lo ricordo più,
il destino ha lasciato quel nome sull’acqua del fiume.

Nei caffè di Cracovia ora tutti mi chiamano
“il-poeta-santo-bevitore”.

Questo nome ora è il mio destino».

Se non a Lei a chi potrei dire
che le città che lasciammo ci inseguono.

Portiamo in giro il nostro passato

Cara Signora Jolanda W.,
Portiamo in giro il nostro passato

in una busta di plastica del supermercato.
Nessuno saprà che un tempo fummo nella fabbrica dell’amore.

I testimoni che possono affermarlo sono tutti morti.
Lei, da poeta lo sa:

i morti ai processi dei vivi
si avvalgono sempre della facoltà di non rispondere.

Il nostro amico di Cracovia si spoglia in un pied-a-terre
con la sua donna.

Aprono insieme una bottiglia di Coca-Cola,
si guardano negli occhi.

Si abbracciano come due sconosciuti sull’abisso.

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Ermeneutica

Gino Rago (1950) è un po’ l’erede dei situazinisti francesi. Nelle sue poesie adotta la procedura che va sotto il nome di nuova ontologia estetica, preferisce nominare i poeti a lui cari, i luoghi, le vie di residenza, le atmosfere collegate a quei luoghi e solo a quei luoghi. I personaggi, fantasmatici e reali, sono i suoi interlocutori privilegiati, ma si tratta di una finzione; adotta la forma della missiva a vari interlocutori, reali o fantasmatici: Madame Hanska, la Signora Jolanda W., Giorgio Linguaglossa, Ewa Lipska, Marie Laure Colasson e altri intelocutori della poesia dell’Ombra, proprio per abdicare al ruolo dell’io lirico-elegiaco, proprio per allontanare quanto più possibile l’io panopticon, l’io plenipotenziario e sostituirlo con un io-generico, un io-niente, un io-indifferenziato, un io-indifferente, un io-anonimo… E così iniziare a fare una poesia, appunto, da una mancanza, da una assenza, da una epoché.

Si tratta di una strategia di sopravvivenza della poiesis nell’epoca della sua disparizione cibernetica, della dis-apparizione tout court, della disperazione, della dis-seminazione, della dif-ferenza. Questo è il modo prescelto da Gino Rago nella sua strategia di aggiramento e aggiornamento dell’io post-lirico. Ma non è la sola strategia, ve ne sono altre. Per esempio, Gino Rago si affida totalmente al polittico, alla giunzione e giustapposizione di polinomi frastici estraniati dai quali è stato espunto, intenzionalmente, l’io plenipotenziario. Ecco, direi che questo atto intenzionale faccia da presupposto a tutta la sua poesia.

L’infinito, Dio, ovvero, la Storia si è spogliato interamente della sua onnipotenza nel finito. Creando il mondo, Dio gli ha, per così dire, affidato la sua propria sorte, è divenuto impotente. E dopo essersi dato totalmente nel mondo, non ha più nulla da offrirci: tocca adesso all’uomo creare un senso, un significato. L’uomo può farlo vegliando a che non accada, o non accada troppo spesso che, a causa dell’uomo, Dio, la Storia debba rimpiangere di aver lasciato essere il mondo. Adesso Ulisse «è in vestaglia», gira per la cucina a farsi un caffè, che altro potrebbe fare?

Però, ad un certo punto, Dio, la Storia ci ha ripensato e ci ha consegnato l’epoca delle guerre in serie, ha inviato sulla Terra il poeta Gino Rago con una consegna precisa: «Così, almeno, prima o poi, gli umani metteranno la testa a posto. Chissà che non si ravvedano», agli umani che, nell’estremo pericolo, «si abbracciano come due sconosciuti sull’abisso».

(Giorgio Linguaglossa)

Gino Rago è nato a Montegiordano (Cs) nel 1950 e vive tra Trebisacce (Cs) e Roma. Laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza di Roma è stato docente di Chimica. Ha pubblicato in poesia: L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005),  I platani sul Tevere diventano betulle (2020). Sue poesie sono presenti nelle antologie Poeti del Sud (2015), Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016). È presente nel saggio di Giorgio Linguaglossa Critica della Ragione Sufficiente (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2018). È presente nell’Antologia bilingue curata da Giorgio Linguaglossa How the Trojan War Ended I Dont’t Remember (Chelsea Editions, New York, 2019). È nel comitato di redazione della Rivista di poesia, critica e contemporaneistica “Il Mangiaparole”, è redattore delle Riviste on line lombradelleparole.wordpress.com – È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen 2022 e Poetry kitchen 2023, nella Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) e nel libro di saggi di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Progetto Cultura, Roma, 2022. Nel 2022 pubblica la raccolta Storie di una pallottola e della gallina Nanin sempre con Progetto Cultura di Roma. È nel comitato di redazione della Rivista di poesia, critica e contemporaneistica “Il Mangiaparole” e redattore della rivista on line lombradelleparole.wordpress.com.

#ermeneutica #EwaLipska #GinoRago #giorgioLinguaglossa #JolandaW_ #MadameHanska #MarieLaureColasson #nuovaOntologiaEstetica #polittico #Ulisse

L'Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionalelombradelleparole.wordpress.com@lombradelleparole.wordpress.com
2025-06-11

L’ombra con la valigetta 24 ore in mano è un passante, un transitante in viaggio in una struttura dissipativa alla ricerca del senso e del significato, un significato barrato dal significante che lo soggioga e lo sposta di continuo. È la condizione dell’uomo moderno, deiettato dal significante e dal significato, costretto ad abitare una struttura dissipativa.

[Marie Laure Colasson, Ordo Rerum, strutture dissipative, acrilici 40×40 cm. 2020]

Il termine «struttura dissipativa» fu coniato dal premio Nobel per la chimica Ilya Prigogine alla fine degli anni ’60. Il merito di Prigogine fu quello di portare l’attenzione degli scienziati verso il legame tra ordine e dissipazione di entropia, spostando l’attenzione dalle situazioni statiche e di equilibrio studiate fino ad allora, a quelle dinamiche ed instabili, contribuendo in maniera fondamentale alla nascita di quella che oggi viene chiamata epistemologia della complessità.

Per struttura dissipativa (o sistema dissipativo) si intende un sistema termodinamicamente aperto che lavora in uno stato lontano dall’equilibrio termodinamico scambiando con l’ambiente energia, materia e/o entropia. I sistemi dissipativi sono caratterizzati dalla formazione spontanea di anisotropia, ossia di strutture ordinate e complesse, a volte caotiche. Questi sistemi, quando sono attraversati da flussi crescenti di energia, materia e informazione, possono anche evolvere e, passando attraverso fasi di instabilità, aumentare la complessità della propria struttura (ovvero l’ordine) diminuendo la propria entropia (neghentropia).

Marie Laure Colasson intende la pittura come uno spazio figurale, un ordo idearum, una «struttura dissipativa», una struttura complessa di forme e colori soggetta a biforcazioni e deviazioni non lineari che opera all’interno di un «sistema aperto» per eccellenza quale è lo spazio. Nello spazio il «processo conglobativo» si ripete trilioni di volte con una serie di variazioni pressoché infinite. Il linguaggio figurale della Colasson recepisce l’idea dello spazio figurale come la struttura tipica della complessità dell’ipermoderno.

Il discorso sulla verità e sul senso della pittura ancorata ad un concetto di mimesis è stato derubricato e sostituito da un discorso sulla vertigine e sulla reversione della profondità in superficie, dell’originale in simulacro, dell’ordo rerum in ordo idearum, ovvero, in ordo phantasmaticum. Il discorso sul senso si è rivelato un similoro, un falso, un ideologema. La superficie, il simulacro, l’illusione, l’abbaglio sono gli avatar della figurazione colassoniana. Tutta la strategia della nuova figuralità è di portare le cose alla mera apparenza del loro insorgimento, di farle irradiare e consumarsi nel gioco dell’apparenza e della dis-apparenza.

[Marie Laure Colasson, présence, acrilici 30×30 cm. 2024]   L’ombra con la valigetta 24 ore in mano è un passante, un transitante in viaggio alla ricerca del senso e del significato, un significato barrato dal significante che lo soggioga e lo sposta di continuo. È la condizione dell’uomo moderno, deiettato dal significante e dal significato, costretto, suo malgrado, ad abitare una struttura dissipativa, una bolla spazio temporale, un ologramma.   La pittura di Marie Laure Colasson pone il problema del feticismo del valore dei colori assunti nella loro presunta e apparentemente ovvia naturalità. Se i colori fossero l’espressione del soggetto, sarebbe improprio parlare di feticismo, i colori in un sistema figurale e figurativo sono sempre regolati dal sistema-medium che disciplina le equivalenze, i gusti e i sistemi di valori.   È nel codice del valore che l’oggetto-colore trova il significato di valore, il quale è il frutto di un’astrazione che pone tutti gli oggetti-colore su un piano di equivalenza e che fa della loro unicità una simulazione di senso, una performazione di senso. Ciò che viene feticizzato nell’atto della usucapione del colore è il singolo colore valore d’uso del singolo oggetto-colore; è l’intero sistema del valore-colore come colore naturale che la figuralità della Colasson mette in discussione insieme  allo stesso giudizio culturale di gusto.   Marie Laure Colasson opera una critica della economia politica del gusto, è questo il punto. I colori vengono sottratti al sistema del gusto, e solo allora vengono ri-significati, ri-semantizzati. Questa astrazione pone la necessità di una nuova configurazione della figuralità, perché è sul piano della astrazione che si gioca la partita della legittimità del valore-colore. È da questo assunto che si diparte il bisogno di un nuovo codice, di una nuova semiotica dei colori e delle forme ad essi connesse. La Colasson opera una riconfigurazione dello spettro coloristico dei colori naturali ormai feticizzati in quanto espressione del valore di scambio. Il falso risiede nel raddoppiamento della forma-colore che investe tanto la produzione di segni quanto la produzione figurale mediante la quale la stessa forma-valore si riproduce ai fini del riconoscimento sociale. L’ideologia del riconoscimento culturale è già implicita nel livello della produzione materiale e nel rapporto di consumo del valore-colore.   È paradossale che sia stata la stessa critica marxista del capitalismo ad affinare il processo di razionalizzazione attraverso la «naturalizzazione» del valore d’uso e, con esso, del valore di scambio. È la stessa forma strutturale del codice, non colta nell’analisi marxista del feticismo della merce, a innervarsi nuovamente nel valore d’uso. Contrariamente alla tradizionale posizione marxista che intende il valore d’uso come il rapporto tra il bisogno dell’uomo e la proprietà del prodotto del suo lavoro, in realtà è anche il valore d’uso un rapporto sociale, e quindi un’astrazione. L’astrazione dal sistema delle convenzioni dei colori e delle forme che si manifesta nel sistema del gusto nel momento della fruizione e dello scambio.  

(Giorgio Linguaglossa)

Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, ha insegnato danza classica e coreografia di spettacoli di danza contemporanea. Nel 2022 per Progetto Cultura di Roma esce la sua prima raccolta poetica in edizione bilingue, Les choses de la vie. È uno degli autori presenti nella Antologie Poetry kitchen 2022 e Poetry kitchen 2023, nonché nella  Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022),  nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, (2022), nonché nella antologia di undici autori kitchen Exodus del 2024,  Progetto Cultura, Roma. È componente della redazione della rivista on line l’ombradelleparole.wordpress.com e della rivista trimestrale di poesia e contemporaneistica “Il Mangiaparole”. Sulla sua pittura hanno scritto, tra gli altri, Mario Lunetta, Edith Dzieduszycka, Lucio Mayoor Tosi, Gino Rago e Giorgio Linguaglossa.

#giorgioLinguaglossa #MarieLaureColasson #nuovaOntologiaEstetica #Ombra #pitturtaContemporanea #présence #StrutturaDissipativa

L'Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionalelombradelleparole.wordpress.com@lombradelleparole.wordpress.com
2025-06-08

Luigi Fontanella, Lo Sperdimento e altro (2019-2024), Passigli, 2025. Nota di lettura di Giorgio Linguaglossa. La poesia di Fontanella è un tassello significativo del nostro tempo di crisi. «La poesia è magia liberata dalla necessità di essere verità» (Adorno). Di Marie Laure Colasson, présence, 30×30 acrilico, 2024

(Marie Laure Colasson, présence, acrilico, 30×30, 2024. L’homo sapiens è in viaggio nel mondo con una cartella 24 ore alla ricerca di un senso e di un significato che ha irrimediabilmente perduto)

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  «La poesia è magia liberata dalla necessità di essere verità»

(Adorno)

Luigi Fontanella dichiara esplicitamente di «perdersi nella folla» e nelle peripezie del viaggio. È uno «sperduto» poeta capitato, con uno spintone della storia, nell’Apocalisse dei nostri giorni che tenta di raccapezzarsi tra uno «sperdimento» e il deragliamento dei ricordi, delle cose incontrate, delle esperienze vissute, una sorta di reportage della memoria. Fontanella tira fuori i significati da fatti minuscoli, trascurabili, casuali, da persone incontrate che la memoria inconsapevole gli consegna. Ma è che la ricerca del senso e del significato oggi è sbarrato alla poesia se non si procede per esitazioni, per intrusioni, per spostamenti, per smottamenti della memoria.

Fontanella è intento in una scherma con i suoi mitologemi, con le sue divinità come un veggente daltonico immerso nello «sperdimento» dei giorni e delle cose alla ricerca del vello d’oro del segreto che d’improvviso può scintillare in qualche angolo buio dell’esistenza, nella ricerca di una nuova ontologia estetica. Fontanella fa  una poesia asistematica, vertiginosamente dismetrica, erratica, irta di pinnacoli e di circonvoluzioni del pensiero;  procede per via di mitologemi mediante categorie allotrie. I pensieri altro non sono che mitologemi che i poeti si appuntano al petto come un generale le sue medaglie. Si potrebbe anche affermare che Fontanella sa di essere affetto da una forma particolarissima di cecità che è al tempo stesso una capacità di ipervisione, una qualità che, paradossalmente, consente all’occhio di vedere con esattezza le cose per la seconda volta.

La ricchezza fenomenica della poesia fontanelliana è il risultato di un equilibrio, instabile, tra il verosimile, il vero e i non detti; certi accorgimenti retorici come la peritropè (il capovolgimento), il deragliamento (controllato) delle sue perifrasi; le deviazioni, l’entanglement tra personaggi diversi sono gli elementi base sui quali si fonda la sua poesia, che ha il privilegio di godere dei vantaggi di una libertà espressiva controllata da una precisa idea di poesia.

E allora che cos’è la costruzione della realtà?, per il Nostro la realtà è perdita che si traduce in «sperdimento», parente non lontanissimo della entropia che involge il nostro universo.

Forse il mondo oggi ha cessato di essere significativo. Forse al poeta di oggi non è concesso l’accesso alle esperienze significative, ma è emblematico che alla poesia di oggi tocchi in sorte di dover stendere in versi l’epicedio esistenziale forse più lucido e disincantato della poesia di matrice novecentesca, quando, come in questo libro, si parla dell’indebolimento della soggettività con la tranquilla consapevolezza che ciò che possono dare le parole della poesia forse non è granché ma è pur sempre qualcosa di non trascurabile.

Il fatto è che non si può uscire dal «sortilegio», o dall’«immaginario» direbbe Lacan. Non possiamo sortire né entrare in un luogo linguistico se non mediante un trucco, un dispositivo, un cavallo di Troia, perché la città del «senso» la puoi prendere soltanto con un trucco, con un sortilegio, un atto di raggiro, di illusione, perché il poeta «sperduto» è ragguagliabile ad un illusionista che si illude e illude con le sue stesse parole.

«Il fatto è che non si può davvero uscire dal trucco, o dall’immaginario, come direbbe nel suo linguaggio Lacan».1

Il senso residuo dopo la combustione dell’esistenza è una favola bella buona per gli imbonitori e i falsari; il «senso» e il «significato» sono il prodotto dell’indebolimento della soggettività che dura ormai da tanto tempo che ne abbiamo perfino dimenticato la scaturigine storica.

La poesia di Fontanella è un tassello significativo del nostro tempo di crisi: non certo la ricerca di un approdo felice sulla spiaggia della poesia elegiaca, Fontanella è un poeta troppo consapevole per fare questo errore. Forse la sua è una navigazione verso l’isola incantata chiamata Utopia da Raffaele Itlodeo. Fontanella procede per lampi e sprazzi, per intermittenze della memoria, per intrusioni, per evasioni dall’ordine simbolico, per zoom paesaggistici, il suo non è il canto del cigno della soggettoalgia della lirica privatistica ed elegiaca che va di moda in Italia  da molto tempo, quanto piuttosto la percezione della «cattiva coscienza» che necessariamente e storicamente ci accompagna nelle nostre peregrinazioni esistenziali. Così, intervengono nel testo cose varie: i ricordi del padre e della giovanissima madre, per poi subito dopo divagare sul «cappotto di Montale» che la Gina donò al poeta Elio Fiore in un anno lontano della memoria.

Scrive Luigi Fontanella in una nota in calce a Lo scialle rosso (2017):

«Nella mia ricerca poetica ho sempre alternato momenti per così dire epifanici, nei quali la scrittura si coagula in brevi momenti circoscritti – veri e propri cortocircuiti mentali, accensioni improvvise o pure trascrizioni di lacerti onirici (sulla lunghezza d’onda di un mio antico amore per il surrealismo) -, ad altri che hanno bisogno di una distensione riflessiva di più largo respiro. Da qui, il carattere anche “narrativo” o “diaristico” di questi poemetti, beninteso una narrazione in versi assolutamente non lineare, con iati e sbalzi improvvisi o accentuazioni di carattere metalinguistico (per esempio il mio periodico interrogarmi sul senso dello scrivere, del fare poesia, dello stesso vivere)».

Ecco una citazione di poetica alla quale Fontanella tiene molto:

Ognuno di noi continua a parlare un linguaggio 
che lui stesso non intende, 
ma che ogni tanto, viene inteso. 
Il che ci permette di esistere e di essere perciò quanto meno fraintesi. 
Se esistesse un linguaggio in grado di essere inteso, disse Saurau, 
non ci sarebbe bisogno di nient’altro.

(Thomas Bernhard – Perturbamento)

(Giorgio Linguaglossa)

1 citato in Pier Aldo Rovatti,  Abitare la distanza, Raffaello Cortina Editore, 2007 p. 87.


Luigi Fontanella divide il suo tempo tra Firenze e Long Island, New York. Un’ampia scelta delle poesie composte fra il 1970 e il 2005 è stata raccolta nel volume riassuntivo L’azzurra memoria, a cura di Giancarlo Pontiggia (Moretti & Vitali, 2007, Premio Laurentum, Premio Città di Marineo), a cui hanno fatto seguito Oblivion (Archinto, 2008); L’angelo della neve. Poesie di viaggio (Mondadori, Almanacco dello Specchio, 2009); Bertgang (Moretti & Vitali, 2012); Disunita ombra (Archinto, 2013); L’adolescenza e la notte (Passigli, 2015); La morte rosa (Stampa, 2015), Lo scialle rosso (2017) e Lo sperdimento e altro (2017-2024). È autore di parecchi volumi di critica letteraria e di romanzi: Hot Dog (Bulzoni, 1986) e Controfigura (Marsilio, 2009). Dirige per Olschki la rivista internazionale “Gradiva”, ed è responsabile della redazione americana della rivista “Poesia”. luigifontanella02@gmail.com

Ecco l’incipit del poemetto:

Nel mio corto viaggio sentimentale
tra Mountain Ridge e JFK
ancora qualche residuo
baluginante di ieri sera
nello sguardo indolente di Lester Burnham
bramante, nel sogno, Angela Hayes
lolita viziosetta
con tutto il conseguente… ma poi
ogni immagine rimescolata con la lettura
di quella storia sbrindellata di Gabriella
… letta post-mortem (pour cause)
in uno scenario assai rassomigliante
a un vecchio racconto di Vasco
sullo sgombero di nonna e nipote
da via dei Magazzini a via del Corno
sfratto forzato in un freddo inverno
verso un altrove incerto
eppure… lì, a pochi passi da loro…
sempre più ‒ il tutto ‒
intrecciato all’ennesimo trasbordo
al Kennedy: un altro in più
in quarant’anni del mio americano
sperdimento.

*

In questo corto viaggio
a folate
bagliori intermittenti
di quanto appena lasciato
e di quanto, rimuginando,
mi aspetta fra i due continenti.
Fa freddo. Mi avvolgo nel mio cappotto.
Che fine avrà fatto quello di Montale
che la Gina regalò a Elio Fiore?

*

Anch’io ne regalai uno a Maurizio Cucchi:
un mio vecchio giaccone di renna
che gli stava a pennello.
Faceva già freddo a Port Jefferson
quel 24 ottobre 2014,
e lui doveva fare scalo a Oslo
prima di rientrare a Milano.

*

Mi guida Cristopher
l’affabile fàtico autista…
lo sbircio ogni tanto ad occhi socchiusi.
Cristopher subito diventato
un fantasmatico fabulatore
del mio labirintico andare.

*

Nitido, a tratti, mi appare
solo il volto di Emma
l’unico, forse, senza penombre
o striature interferenti… mentre
la limo procede in
un affastellarsi pulviscoloso
di passato-presente
ogni personaggio ogni imago
ogni persona o cosa
tutto
ben incastonato in un muto teatro a me di fronte
un po’ simile a quello
del vecchio Aghios in partenza per …
pieno di gioia febbrile e di speranze
viaggio nel quale – benché vegliardi entrambi –
non bisogna escludere
qualche gaia creatura femminile.

*

La donna ideale…. mancante magari di gambe e di bocca, non poteva essere assente. Giaceva nell’ombra confusa con molti altri fantasmi, parte importante degli stessi. Ma la donna non è sempre la stessa nel desiderio… necessaria prima di tutto all’amore, ma talvolta desiderata per proteggerla. Una creatura forte e debole, che se si può si accarezza, e se non si può si accarezza ancora.

*

Se solo la salvazione bastasse
a proiettarci felici da qualche parte…
se solo bastasse
a guarirci di ogni accidiosa indolenza
di ogni scontentezza
di ogni nostra insufficienza.

*

Ieri sera me ne stavo a letto buono buono vicino a te… ma
poi il pensiero se ne andava subito altrove in quel
regno di Claus Patera… ero dentro un caseggiato dove
gente buona e generosa mi aveva ospitato. Insegnavo l’abc
a qualcuno di loro ma sapevo che sarei presto ripartito.
Prima di andarmene avevo acquistato da questa famiglia un
fiasco di vino, del pane e del formaggio.

*

Forse bisognerebbe
davvero denudarsi
di ogni inutile orpello
di ogni oggetto d’affetto
e volgere questi a chi ne ha bisogno
o ne è privo
per connaturata incapacità
di darlo o riceverlo.

*

Il fàtico Cristopher parlandosi
mi racconta di una filippina, mentre passiamo
di fronte allo Stony Brook Hospital
l’altra mattina lì forzatamente piovuto
dopo un intrico di strade e traverse spaziali
per un MRI ordinatomi da John Fitzgerald MD
pacioso e pensoso, forse premuroso
che mi aveva visitato un po’ superficialmente.

Un mastodontico edificio
alveolare
perfetto di sette piani buzzatiani
labirintici corridoi stanze stanzini cubicoli.
Muti e trasparenti gli sporadici addetti sanitari
ingrembiulati spettri di se stessi.

*

Di questa filippina
Cristoph continua a fabularmi
la vorrebbe impalmare, le manda
quattrini e medicine ogni mese
svagato e insonnolito lo ascolto
gemello di Claus Patera: sovrano assoluto
del Reich des Traumes
nonché fornitore di singolari
fenomeni dell’immaginazione…

(trasognato distratto, di colpo
ripenso al mio amico Fabio quando trent’anni fa
partiva periodicamente per Kiev
carico di doni mercanzie e medicamenti
per la sua Oksanuchka ambiziosa e fedifraga)

Come Aghios fingo partecipazione
proiettato soprappensiero a quanto
dovrei invece aspettarmi transoceanicamente,
impaziente d’essere lasciato tranquillo a goderne
e sottraendomi per quanto possibile
a ogni simulazione

#giorgioLinguaglossa #LoSperdimento #LuigiFontanella #MarieLaureColasson #poesia #présence #ThomasBernhard

L'Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionalelombradelleparole.wordpress.com@lombradelleparole.wordpress.com
2025-06-02

ἐὰν μὴ ἔλπηθαι ἀνέλπιστον οὐκ ἐξευρήσει, ἀνεξερεύνητον ἐὸν καὶ ἄπορον. Se non speri l’insperato, non lo troverai, perché è inaccessibile e impraticabile.(Eraclito, B 18) A proposito del vaso di Pandora di Dino Villatico, di Marie Laure Colasson, présence, acrilico 30×30, 2024 – Poesie distopiche di Francesco Paolo Intini e Giorgio Linguaglossa.

Una discussione con un amico sul vaso di Pandora mi ha indotto ad alcune riflessioni.
Siamo partiti da questo frammento di Eraclito:
ἐὰν μὴ ἔλπηθαι ἀνέλπιστον οὐκ ἐξευρήσει, ἀνεξερεύνητον ἐὸν καὶ ἄπορον.
Se non speri l’insperato, non lo troverai, perché è inaccessibile e impraticabile.

(Eraclito, B 18)

(Marie Laure Colasson, présence, acrilico 30×30, 2024 – Il male si presenta come la figura di un passeggero con la valigetta 24 ore in mano che cammina nello spazio-tempo).

Ma come mai, si chiede qualcuno, nel mito raccontato da Esiodo, la speranza resta in fondo al vaso dei mali? è dunque anche la speranza un male?
Facciamo un passo indietro. Leggiamo Omero, che anche lui accenna a questo mito, ma senza fare intervenire Pandora. Achille, nell’Iliade, dice a Priamo, che è venuto nella sua tenda a chiedere il cadavere del figlio Ettore: “Nella dimora di Zeus vi sono due grandi orci che ci dispensano l’uno i mali, l’altro i beni; li mescola il dio delle folgori, e colui a cui ne fa dono riceve ora un male ora un bene; e chi riceve dolori diventa un miserabile”. Omero dunque attesta qui l’esistenza di un mito sull’origine del male nella storia, e il problema del male è centrale in tutto il pensiero greco: si badi, del male, non della colpa o del peccato, idee che sono invece di un’altra cultura, quella ebraico-cristiana. Esiodo allarga, oppure lo riferisce in modo più completo, il mito, e fa aprire il vaso dei mali che affliggono l’uomo da Pandora. La speranza resta in fondo perché Pandora, accortasi della fuga dei mali, cerca di tamponare il disastro e chiude il vaso. Omero guarda la vita con distacco, constata l’esistenza del male. Esiodo è più pessimista, ne denuncia l’origine a un’azione dell’uomo, anzi di una donna – c’è qualcosa di misogino nel racconto di Esiodo, per esempio l’accusa di un’eccessiva curiosità, che sarebbe difetto tipico delle donne. Comunque sia la storia umana è un seguito di sciagure. Anzi lo è, in fondo, tutta la storia dell’universo già da prima di Pandora. Già nell’origine degli dei (Teogonia), che non sono il bene, ma solo i dominatori del mondo, c’è lo stigma del male che affligge i viventi, quasi come che l’infelicità fosse il destino degli uomini, perché mortali, solo l’immortalità rende beati. Anche se il dolore tocca perfino anche gli dei, sia pure come un’ombra passeggera: la morte di Giacinto per Apollo, di Adone per Afrodite.

Questa visione pessimistica della storia, questo quadro amaro della vita, tocca perfino un filosofo che mira a escludere dal pensiero la soggettività come Aristotele, il quale tuttavia definisce la speranza – con grande distacco, però, senza concedere niente ai desideri umani – soltanto un’illusione – dunque non una realtà – un’illusione che invece di riferirsi al presente è rivolta al futuro. Eraclito, prima di Aristotele, sembra non pronunciarsi. Ma di lui abbiamo solo frammenti. E la sua idea di un perpetuo mutamento delle cose riguarda, sembra, solo le cose che appaiono. La sostanza, invece, del suo pensiero sembrerebbe parmenidea: di un essere immutabile, o, più precisamene, che nonostante le perpetue mutazioni dell’apparire, resta nell’essenza sempre lo stesso. Non possediamo tutta una parte del poema di Parmenide e non abbiamo di Eraclito, l’oscuro, come dicevano gli antichi, che frammenti, citazioni da altri scrittori e filosofi. Fino all’età bizantina probabilmente tali opere esistevano ancora. I bizantini, sembra, possedevano ancora l’opera di Eraclito, che è andata perduta dunque può darsi con il sacco di Costantinopoli compiuto dai crociati nel 1204. I crociati, catalani, franchi e veneziani non conoscevano il greco e bruciarono tutti i libri della biblioteca del palazzo imperiale o, meglio, bruciarono il palazzo, e con esso anche la biblioteca. I cristiani egiziani (e non Giulio Cesare, dunque – lo spiega bene Luciano Canfora – come vuole una leggenda anticesariana, Ipazia, per esempio, nel IV-V sec. a. C., ancora poteva consultare testi dei filosofi, storici, scienziati e poeti greci) i cristiani, e non gli arabi, come pure si è scritto, avevano già provveduto a distruggere quei monumenti di paganesimo che costituivano i libri della biblioteca di Alessandria, così come gli iconoclasti avevano grattato gli occhi degli dei e degli uomini nei bassorilievi dei templi.

Che cosa possiamo ricavare da queste notizie? Intanto che i più degli uomini sono sempre stati stupidamente avversi alla cultura che non fosse la propria. Poi che fondamentalmente la visione che della vita avevano i greci era totalmente pessimistica, fin dalle origini, si pensi all’incontro di Ulisse con l’anima di Achille nell’undicesimo canto dell’Odissea: della gloria non so che farmene, dice Achille, vorrei piuttosto essere ora l’ultimo dei contadini, ma vivo, invece che il glorioso Achille, ch’è un morto. La speranza, forse, per Esiodo, non serve a nessuno. Come dimostra la sua vita, la causa con il fratello, pur avendo Esiodo ragione, la perse, probabilmente perché il fratello riuscì a corrompere i giudici. E Zeus, nella Teogonia, non riesce a imporre la giustizia al mondo, lui stesso sale al trono con un crimine: nel Prometeo incatenato, tragedia attribuita a Eschilo, ma non di Eschilo, Prometeo accusa Zeus di tirannia: detta ad Atene era un’accusa compromettente. Non sappiamo come si svolgesse e si concludesse la trilogia – Shelley ha scritto un Prometeo liberato, poema drammatico bellissimo, ma assai lontano dalla concezione greca del bene e del male – la conciliazione del titano con Zeus probabilmente avveniva con un patto, come accade nelle Eumenidi per il conflitto intorno al matricidio di Oreste tra Apollo e le Furie vendicatrici di Clitennestra, Shelley immagina invece un universo panteistico. I greci erano un popolo religiosissimo, ma i loro dei erano una realtà del mondo, non una trascendenza. La stessa trascendenza delle idee di Platone è qualcosa di assai diverso dalla trascendenza impostata per la prima volta nel senso che oggi intendiamo dai teologi cristiani, anche se poi proprio i teologi cristiani finirono con l’adattere la trascendenza platonica alla trascendenza del dio cristiano. Platone – ma semplifico qualcosa di assai più complesso – immagina le idee coma la vera realtà di ciò che ci appare, e resta in questo fedele al pensiero del suo amato Parmenide.

Eraclito parla del’insperato – e non dell’insperabile, come qualcuno, sbagliando, traduce – non per dire che non possa realizzarsi ma perché riguarda qualcosa d’inconoscibile (alla lettera: d’inaccessibile), è un desiderio, che come ogni desiderio, non ha realtà, è l’irrealizzato – per questo dunque in Esiodo resta in fondo al vaso, l’irreale non può uscire alla luce – ora l’irrealizzato, che è ciò che noi speriamo si realizzi, può realizzarsi oppure no, nessuno può saperlo: è appunto inaccessibile, impraticabile, irreale. Euripide riprende l’idea del rapporto irrealtà realtà, speranza adempimento, nel coro finale dell’Alcesti e delle Baccanti (è lo stesso testo!): il divino – ed è divino tutto ciò che non si conosce – è imperscrutabile, la cosa attesa può non realizzarsi e l’insperato invece prendere forma. È un modo per dire: tu, uomo, conosci te stesso, come dice l’oracolo di Delfi, cioè conosci quali sono i tuoi limiti di vivente che muore, non puoi sapere ciò che non sei in grado di sapere, sei appunto solo uno che muore, uno dalla vita limitata, non sei un immortale: ed è per questo che la conoscenza del tutto t’è negata.

(Dino Villatico)

(Marie laure Colasson, macchia, acrilico 70×70, 2024)

Una poesia di Francesco Paolo Intini kitchen e distopica
2 giugno 2025 alle 10:55 

CHIP1 A CHIP2, FORSE

Mi vengono a trovare due chip in carne e ossa
Uno dei due rilascia bombe,-penso non sappia che farsene-
La spoletta però è spassosa e per giunta più espansiva

L’altro mi racconta della lotta nel cellulare per Gaza City:
-Nessuno che la trovi, ci sono morti dappertutto.
Gli emoji prevalgono sul ferro.
Non penso sia vero ma aiuta la memoria
A tirar fuori Dresda da Guernica

Tra otturatori e cineprese si racconta l’ottica del piombo
muoiono vecchi, donne, bambini perdono budelle
la moda di saltare sopra una mina
pellicole che si danno fuoco dinnanzi ai carrarmati
figli d’Ecuba senza dubbio
tutto che si riaggiusta con mezzo trump

Ad un raduno di baionette, mi dice il primo-, contro missili terra aria
il dna è messo a dura prova per certe escandescenze
del cloro contro opliti.
Da bullo planetario è prevalso tra primati e adesso
Che è sul ring di certi chip dorso d’argento
Il dio che ruota intorno al mondo, vede e pensa.
Coglie una formica, le dà dell’acqua
un emoji di pianto.

Intorno al Tir di Dresda City c’è una ressa di pellicole e microfoni
Un gran numero di cloni per lo stesso bit.

Fatti che non collimano-penso
-So ben altro sul genoma
Se nella mischia tra due spolette
Un baby fungo si fa beffa dei raggi gamma.

Poesia kitchen e distopica di Giorgio Linguaglossa che risponde alla poesia di Francesco Paolo Intini

caro Francesco Paolo Intini

al bowling di viale Margherita, qui ai Parioli, ho incontrato il misuratore delle ombre che si faceva un selfie. C’erano due frati, uno tirava bombe a mano sui birilli, l’altro si faceva lo shampo con gli elettorodi, però maneggiava gli otturatori con abilità.

Che vuoi?, c’è la moda di saltare sopra una mina (Hic Rodhus hic salta!), ma è perché ci sono gli ombrelloni e gli attaccapanni, tutta colpa loro.

Sai, trecento tir con scatole di carne di cavallo e confezioni di spaghetti in fila a Gaza City, fanno un bell’effetto cinematografico, per via degli zoom e delle panoramiche.

Anche oggi la lampada dell’ignoto ha il suo salvagente. Sai, devi stare attento a non umiliare l’assassino, potrebbe inalberarsi.

Anche oggi la struttura dissipativa di Marie Laure Colasson ha dissipato un quantum di energia in eccesso.

Sai, oggi è di moda mandare i soldati al fronte su degli scooter. «Io non cerco trovo» diceva Pablo Picasso cento anni fa. Il Reale è già distopico, che problema c’è?

Ho un ricordo, nel 2015 io Antonio Sagredo e Steven Grieco-Rathgeb, in Puglia abbiamo mangiato un capitone di mare lungo due metri che ci aveva regalato il pescatore, l’abbiamo farcito con del limone; davvero, è stato un pasto prelibato.

#Achille #Aristotele #DinoVillatico #Eraclito #Esiodo #Euripide #FrancescoPaoloIntini #giorgioLinguaglossa #Ipazia #LucianoCanfora #MarieLaureColasson #Pandora #Parmenide #PercyBShelley #vasoDiPandora #Zeus

L'Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionalelombradelleparole.wordpress.com@lombradelleparole.wordpress.com
2025-05-24

La notte è la tomba di Dio (e il giorno la cicatrice del suo dolore)”Poesia inedita di Giorgio Linguaglossa (2013). La procedura della risonanza distopica

La notte è la tomba di Dio

“La notte è la tomba di Dio
e il giorno la cicatrice del suo dolore”.
V’erano scritte queste sconsiderate parole in alto,
sopra la prima porta a destra.

Una voce risuonò nell’androne:
“Benvenuto nella galleria del dolore!”
Fu così che mi decisi. Ed entrai.

Un gendarme apre quella porta.
Ci sono tre vascelli con le vele spiegate
che un vento fuori cornice gonfia tumultuosamente.
Ma restano immobili.
Anche il mare crestato è immobile.
Ogni dettaglio è nitido e percettibile
come seppellito nell’ambra da un milione di anni-millimetri.

Un altro gendarme apre la seconda porta a destra.
C’è una colluttazione di ombre che entrano dentro altre ombre
e ne escono.
Lottano furiosamente.

“Farsesca costipazione di ombre”, penso con tristezza.
Attraverso come a nuoto la stanza.
Apro una finestra.

C’è una statua bianca nella piazza deserta.
Portici risucchiati dal vuoto.
Pontili su un mare di basalto.
Città di cristallo.

A tentoni, nel buio, apro un’altra finestra.

C’è una torre in un cortile deserto.
Puoi udire il tonfo di una farfalla che cade dall’alto.
Il lucore fosforescente di una luna gialla
posata sulla toga di un imperatore triste.

Apro una terza finestra.
C’è un calendario dal quale cadono i fogli,
un orologio, una lapide sulla quale v’è inciso il mio nome e cognome.
E la mia data di nascita
Una scrittura annerita che gratto con l’unghia.
“Benvenuto nella cicatrice chiamata Terra”,
c’è scritto.

L’angelo della nebbia piange in un angolo in ginocchio.
La notte profuma di tomba.
Anche la rugiada profuma di tomba.
La cicatrice chiamata Terra è un immenso camposanto di lapidi.

da dx Giorgio Linguaglossa Lucia Gaddo Zanovello, Letizia Leone Salvatore Martino e, a sx Gezim Hajdari Roma presentazione del libro “Delta del tuo fiume” aprile 2015 Bibl Rispoli di Roma

Sulla risonanza distopica in poesia

La notte è la tomba di Dio
(e il giorno la cicatrice del suo dolore)

“La notte è la tomba di Dio e il giorno la cicatrice del suo dolore”.
V’erano scritte queste sconsiderate parole in alto sopra la prima porta a destra.
Una voce risuonò nell’androne: «Benvenuto nella galleria del dolore!».
Fu così che mi decisi… Ed entrai.

Èla prima quartina dell’opera del 2013 di Giorgio Linguaglossa.
Come si nota, è un Introibo, alla maniera dantesca. Il viaggiatore si trova scritte queste incomprensibili parole (“sconsiderate”, dice il testo), sopra la prima porta a destra, senza alcuna ulteriore spiegazione circa la condizione di “sconsideratezza” di quelle incomprensibili parole. Ma qui il piano è ribaltato: non più la Teoria del Tutto dal punto di vista di un osservatore (cioè di un soggetto), quanto una equazione linguistica di Dio che prescinde, necessariamente, dall’esistenza di un osservatore, ovvero, di un soggetto. In evidenza ci sono soltanto due cose: il «giorno» e la «notte». Qualcosa è andato storto dall’inizio, dalla notte dei tempi. E continua ad andare storto. Riporto qui una breve glossa ermeneutica di Linguaglossa che può essere illuminante.

«La poesia adotta la procedura della risonanza caotica, In fisica, la risonanza può riguardare i sistemi caotici, dove piccoli cambiamenti iniziali possono portare a grandi variazioni in un sistema complesso, come l’effetto farfalla. La risonanza distopica è quella particolare procedura, tipica della poesia distopica e kitchen, in cui il testo è composto di frasi sibilline e come scolpite insieme a frasi distopiche, cioè, estranee al costrutto del testo: un quasi rumore, o un rumore che interferiscono con le parole del testo, ma che non sono legate al testo da una ratio strettamente significazionista, che sono semplicemente slegate, senza essere però arbitrarie, mediante salti temporali e spaziali improvvisi quanto distopici. Ed è proprio questo il punto di disequilibrio della procedura distopica che ha l’effetto di accrescere a dismisura la risonanza significazionista del testo. È una procedura tipicamente accrscitiva delle possibilità semantiche del testo.»

Il poeta viaggiatore all’improvviso si trova davanti ad un bivio, e legge le parole in exergo in quanto scolpite “in alto sopra la prima porta a destra.”
Una “voce” risuona nell’androne che dice al poeta, metaironicamente, “«Benvenuto nella galleria del dolore!».
Il quarto verso non aggiunge nessun’altra spiegazione. Riferisce soltanto di una decisione già presa. “Fu così che mi decisi… “. Ma il lettore nulla sa circa le deduzioni e il ragionamento che portano il viandante a quella conclusione. Le deduzioni di ciascuno possono essere le più diverse, e tutte sono egualmente plausibili (o implausibili).
Il finale registra soltanto una azione: “Ed entrai.”

La poesia è iscritta tutta tra le righe del testo. Esattamente quella che può essere definita come una risonanza distopica, cioè quella invisibile parete del rumore e del quasi-rumore delle frasi apparentemente senza costrutto significazionista che copre (e scopre) la vicenda terrena dell’homo sapiens che si muove nella storia.
Non c’è altro da aggiungere. Al lettore non resta da fare altro che seguire il viaggio del viandante tra le risonanze distopiche che si accumulano e si infittiscono.
(Marie Laure Colasson)

#giorgioLinguaglossa #LaNotteèLaTombaDiDio #MarieLaureColasson #PoesiaContemporanea #risonanzaCaotica #risonanzaDistopica

L'Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionalelombradelleparole.wordpress.com@lombradelleparole.wordpress.com
2025-05-18

AAVV. Exodus. Voci degli avatar dagli esopianeti. Edizioni Progetto Cultura, pp. 160  12, Roma 2024. Nota di lettura di Alessandra Calanchi, Voci di Avatar, Poesie di Tiziana Antonilli Alfonso Cataldi, Raffaele Ciccarone, Marie Laure Colasson, Giuseppe Gallo, Paolo Francesco Intini, Letizia Leone, Mimmo Pugliese, Antonio Sagredo, Giuseppe Talìa (G. Panetta) e Giorgio Linguaglossa

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.ATTENZIONE!

Questo è un libro pazzesco, che merita tutta la concentrazione e la curiosità di cui siete capaci. Preparatevi con cura, perché viaggeremo davvero verso altri mondi: quello della realtà virtuale e quello del cosmo.

La collana di cui fa parte, “Il dado e la clessidra”, è diretta da Giorgio Linguaglossa e accoglie testi poetici NOE (nuova ontologia estesica). https://www.progettocultura.it/index.php?id_category=26&controller=category

L’opera in questione è appunto un’opera poetica, ma non solo. Alterna prosa e versi con la naturalezza di chi sa muoversi (surfare?) fra i generi e i pianeti, e racconta una, cento, mille storie di terrestri e non (gli avatar) sparsi su vari pianeti dopo la deflagrazione della Terra. Ogni autore e autrice qui presente ha scelto dunque un avatar per descrivere il proprio sé e la realtà complessa che lo circonda, scoprendosi così improvvisamente “liberi dalla prigionia dell’io” (dalla quarta di copertina).

Questo libro contiene una sapienza universale che va letta, meditata, riletta. È un universo di frammenti che non possono stare insieme ma di cui noi possiamo intravedere i fili invisibili che li collegano. È un gioco di specchi senza fine, un’eco che non si spegne. I Luoghi sono stelle e pianeti (esopianeti), alcuni con nomi eloquenti – Nemesis, Meta, WASP… – mentre le Voci appartengono ai nickname che si sono dati gli autori e le autrici di cui sopra: Gaius e Scintilla, Galacticus, Cessantibus, e tutti gli altri –  suggestivi, improbabili, scanzonati, eruditi… che troverete nelle pagine del libro.

Impossibile citare qualcosa. Il libro va letto per intero, sulla fiducia.

Mi limiterò a citare il verso “Il mal di vivere” è un resort sul mare della Tranquillità (p. 15), che predice funestamente e con molta più eleganza l’incommentabile video creato dalla AI e diffuso dall’attuale presidente USA il 25 febbraio 2025, e questa poesia in forma di lettera:

Ladies and gentlemen, Vi comunico che Sua Maestà
elettiva, il presidente degli Stati Uniti di WASP-193b,
Org/Asf/Un, ha proposto il poeta Giorgio Linguaglossa
vicepresidente onorario per via delle sue numerosissime
conoscenze culinarie […]
È ciò che tiene in piedi la democrazia di questo
Stupefacente pianeta. Se crolla l’affezione dei cittadini,
crolla l’istituzione, ma guai se osate leggere in pubblico una
vostra poesia
[…] (p. 163)

E mentre mi metto a immaginare un poeta al posto di J.D. Vance, vi invito a leggere tutto il resto, e fatelo presto, senza perdere tempo, perché davvero queste pagine vi porteranno in un mondo altro in cui, forse, possiamo salvare la pelle.

I poeti e le poete (rappresentanti della poetica kitchen, cfr. le antologie Poetry Kitchen 2022 e 2023, pubblicate per le stesse edizioni) includono: Tiziana Antonilli Alfonso Cataldi, Raffaele Ciccarone, Marie Laure Colasson, Giuseppe Gallo, Paolo Francesco Intini, Letizia Leone, Mimmo Pugliese, Antonio Sagredo, Giuseppe Talìa (G. Panetta) e lo stesso incomparabile Giorgio Linguaglossa.

Retro di cover di EXODUS

La gentificazione dei pianeti disseminati nel Cosmo

È avvenuta una deflagrazione sul pianeta Terra, i superstiti sono trasmigrati su vari pianeti o esopianeti del cosmo che parlano tramite degli Avatar. Con il termine Avatar si designa una persona virtuale che rappresenta (in sostituzione di) una persona reale. Ad esempio, se giochi su internet hai bisogno di creare un avatar che ti rappresenti. In particolare, potresti dover disegnare un avatar usando le funzioni del gioco decidendo gli abiti, il colore dei capelli, il colore degli occhi, i vestiti etc. dandogli un nome (che viene detto “nickname”), un’età, specificando alcuni lati del carattere o, ancora, delle abilità specifiche nel gioco. Un altro esempio di avatar è quello usato nei forum e nei luoghi di discussione online per cui non devi dichiarare la tua identità ma in cui hai comunque l’obbligo di registrarti: in questo caso il tuo avatar sarà l’unione dell’immagine personale che sceglierai per rappresentarti e del tuo nickname, oltre che a tutte le informazioni che vorrai specificare come data di nascita, sesso, indirizzo di posta elettronica e altro. Nel nostro caso, ciascuno dei poeti kitchen ha scelto un avatar senza riguardo al modo di essere, di parlare, di vestirsi, e di comportarsi corrispondenti a monte con le identità degli autori. In questo modo, abbiamo delle persone parallele (sostitutive degli originali) che parlano, si comportano, agiscono in modo completamente libero da quello degli autori i quali non sono più i proprietari degli avatar prescelti, ma degli Estranei. In realtà, gli Avatar così messi al mondo sono degli Estranei, ma anche dei Fratelli che condividono, in qualche modo, con gli Autori a monte il loro destino prossimo venturo, o attuale non sappiamo, per via della complessità della realtà che non è più fungibile (eligibile) in esclusiva da un singolo Autore. I poeti che seguono hanno scelto ciascuno per rappresentare se stessi un Avatar. Improvvisamente, questi Avatar si scoprono liberi dalla prigionia dell’io.

Exodus
Voci degli Avatar dagli Esopianeti:

Proxima Centauri B
Luna Alpha
Sistema solare 3GG-28/7:50
Esopianeta FA823WX
Sistema solare della stella Nemesis
Pianeta Meta 723
Pianeta GGRE-K314
Pianeta Plutone
Pianeta Mephisto
Pianeta WASP-193b
Pianeta gemello WASP-193a

Voci di:
Tizyfardwell (Tiziana Antonilli)
Alf. Galacticus (Alfonso Cataldi)
Sic Stantibus (Raffaele Ciccarone)
Scintilla (Marie Laure Colasson)
Gaius Gallus (Giuseppe Gallo)
Gneo Gaius Fabius, (Francesco Paolo Intini)
la Wandissima (Letizia Leone)
Germanico (Giorgio Linguaglossa)
Memmio (Mimmo Pugliese)
Dottor Cessantibus (Antonio Sagredo)
Tallia (Giuseppe Talia)


Alcune poesie kitchen e dis/topiche

Giorgio Linguaglossa

Caro Gaius Gallus,
Una volta, viaggiando a bordo del Titan abbiamo scoperto nel sistema solare di Alpha Centauri, l’esopianeta GB799-y nel quale pesantissime nuvole color amianto e amaranto scaricano sulla superficie rocciosa micidiali piogge di diamanti, un arcobaleno di metallo risplende nel cielo al termine delle piogge
Con il che la superficie è coperta da innumerevoli strati di splendenti diamanti grandi come delle noci di cocco che riflettono la debole luce di un sole lontanissimo
Pensa!, basterebbe raccogliere una manciata di quei diamanti e saremmo straricchi sulla Terra dove ancora ci sono umani che ne stimano incommensurabilmente il valore
Sulla nostra piccola luna Alpha i giorni ricordano la mitezza delle colline senesi della vostra Terra ricche di viti che danno buon vino
Purtroppo, il nostro piccolo Titan non resisterebbe un attimo a quelle piogge di diamanti
Sai, penso anch’io come Scintilla che l’arte sia una «sfinge senza enigma», lì non c’è nulla da acclarare
Qui, su questo piccolo pianeta Alpha, i giorni sono brevi e brevi sono le notti, non c’è tempo per dormire e tutti sogniamo ad occhi aperti, tutti i giorni e tutte le notti delle nostre maledette primavere
Viviamo nei sogni e siamo felici così, felici di vivere nel sogno, lontani, molto lontani dalla realtà
(Germanico)

Giuseppe Gallo

Caro Tallia,

attendevo un tuo cenno. Il che mi conferma
che la scrittura per gli umani è lo strumento più adatto
a ingannare se stessi.

La mente pensa e la mano scrive… sarebbe troppo facile!
Gli spazi bianchi non hanno bisogno del nero per esistere.
Non hanno bisogno di inizio e di “a capo”.

Ma su questo ritengo che ci possa essere un compromesso,
proprio come si agisce tra gli uomini.

Era per questo che mi preoccupavo di comunicare,
a te e a Germanico, che qui, da noi, sulla stella 3GG-28/7:50,
“non si parla, non si scrive e non si legge”.

E mi procura un leggero tremito di letizia il sapere
che anche tu “scrivi col pensiero”,
però ricordi!
“la caduta libera”,
“l’insostenibile leggerezza dell’essere”
e perfino la vostra, tua e di Germanico,
“telenovela trasportata itinerante nel cosmo”.

Ebbene, noi non siamo mai partiti.
Su di noi non incombe nessun Evento
come, invece, presuppone Germanico.
Tutte le età sono state preda delle catastrofi.
E “I Grandi Eventi” non sono mai esistiti, né esisteranno.
È solo un fraintendimento dovuto al linguaggio
e alle radici che lo sostengono.

Anche questo vi avevo comunicato: qui da noi,
niente Storia, nessuna pace, e niente malattie , né epidemie.

(Gaius Gallus)

Giuseppe Gallo

Caro Tallia,

supponi che la mia stella sia un Purgatorio?
Come mai? Perché?
Mi fai sorgere il dubbio che anche tu, al pari di Germanico,
abbia evocato il Purgatorio perché questo flatus vocis
è presso gli umani fonte di nostalgia.

In fondo è nel primigenio fantasma dell’Eden
che Caino e Abele hanno tentato di esistere;
il primo “percosso dal lungo silenzio di Dio”
e il secondo con gli occhi rivolti sempre
“verso l’alto, in lode divina”.

Di chi sono queste parole?
Ma di Germanico, caro Tallia.
Ecco, voi umani, anche se avete trasbordato
su una nuova piccola luna,
vi portate dietro, e dentro, i vostri sogni,
le vecchie parole dei vecchi libri.

Il poetico?
Sai, caro Tallia,
vorrei risponderti riprendendo la tua stessa immagine.
Che il poetico sia
“l’ultimo buco nero che ci ha inghiottiti” tutti.

Anche il segno dei Pesci di Lucio Tosi…
Però non mi sottraggo alla quaestio.
Qui, sulla stella 3GG-28/7:50,
il poetico lo si sfiora soltanto quando veleggiamo,
per usare le vostre metafore,
nello spazio vuoto di un arco
o di due colonne corinzie.

Vuoto che, a quanto pare, nel vostro linguaggio
non ha acquistato ancora nessun nome.

(Gaius Gallus)

Giuseppe Talìa

Caro Gaius Gallus,

ti ringrazio di avere dato un suono alle parole.
È piacevole ogni tanto risentirne l’eco in un a capo.

Non ricordo più come si fa, si respira? Si tira un sospiro
(di sollievo) E si va a capo?

Il capo di cosa? Di cosa mai si dovrebbe andare a capo?
Il cardiogramma non va mai a capo, se si ferma è perduto.

(Tallia)

Mimmo Pugliese

La pianta di cotone ha la nausea

La pianta del cotone ha la nausea
rigagnoli disapprovano il deja-vu

non ci sono più fianchi dove scrivere
reticoli di gel sopravvivono

Se hai seguito la stanchezza dell’iride
puoi trovarci pergamene blu

Sono fuori moda i mezzi colori
sul confine collidono ballerini

Il nero di seppia attira le ortiche
il toner ha evaso l’IMU

Sulla patente nautica cresce il sandalo
l’utente è impegnato in un’altra conversazione

(Memmio)

Marie Laure Colasson

Caro Germanico,

tu affermi che tutto ebbe inizio dal Cavallo di Troia.

Mi è difficile darti completamente ragione perché all’epoca fui trasportata in lettiga da una tempesta elettromagnetica su una galassia fatta di ripide montagne, full of azoto, ossigeno e borotalco.

Qui incontrai lo scheletro di Napoleone seduto su un fungo bianco mentre mangiava dei si bemolle.
Raggi gamma e stelle nane infusero in me una stravagante vitalità robotica.

Vidi però un corvo appollaiato sul cofano di una Peugeout ma non tossiva, beveva una coppa di un allegro prosecco di Treviso

Non c’erano gli dei dell’Olimpo ma lampade alogene e polveri solari travestite da ballerine di can can.

(Scintilla)

Tiziana Antonilli
Caro Germanico,
io chiesi di legarmi alla prua di una nave non per ascoltare le sirene, ma per poter poi dipingere la Tempesta che era in corso mentre lì, ammanettata, guardavo gli elementi liberi intorno a me mettere in scena il Caos.
Fu allora che mi ribattezzarono Turner, ma non mi voltai.
La luce si arrese e penetrai nel buio partecipativo di un lenzuolo da sonnambuli.
Vidi la poiesis tradizionale e la poiesis kitchen e ammirai la stessa Babele che hai visto tu.

Adesso, però, mi godo un po’ di silenzio, anche mentire è uno sforzo per le corde vocali, sia per quelle solide che per quelle liquide .Quelle gassose sono disperse nell’Universo di cui dicono siamo fatti in ogni cellula che si fa cella di altezze e di bassezze.
Bipolari siamo e bipolari restiamo.
Non ricordo se sul pianeta sul quale vivevo bipolare era un insulto o un eufemismo.
(Tizyfardwell)

Giuseppe Talia

POESIA

Dov’è la poesia? Dove s’è nascosta? O meglio, dove l’avete nascosta? Non la trovo. La cerco da ore. Ho aperti tutti i cassetti. Rovistato nell’armadio bulimico. Nel frigorifero anoressico. Nelle tasche d’ogni giacca o pantalone. L’avevo lasciata tra le pagine della Gerusalemme Liberata. Si divertiva tanto nel ricordare Elicona e le sue amiche Muse, a Parnaso, con cui andava spesso a cavallo. “Tutta colpa di Goffredo”, diceva.

Non la trovo. Ne ho bisogno, devo uscire. Di solito m’accompagna.

Aveva messo il broncio scoprendo che stavo cercando di mettere a confronto una poesia della Szymborska con una della Bishop. “Sbagli!” Mi diceva. “le conosco bene entrambe, sono così distanti. Una è metafisica e cerca la porta per penetrare una pietra, l’altra, carnale, parla di suicidi a colazione. Ad una le ho messo accanto una Musa alluvionata, all’altra la Litote. Wislawa nasce da un incessante “non so”, Elizabeth appena nata l’ho marchiata con “Io l’ho visto”. Cosa vuoi che abbiano in comune?”

Eppure queste due poesie, insistevo, mi sembrano speculari. Un punto d’incontro di due opposti. Entrambe hanno perso qualcosa e nel cercare ciò che hanno perso hanno ritrovato qualcos’altro. Bishop in “One Art” ha perso le chiavi, luoghi e nomi, case e città, ha perso persino la voce e il gesto amato. Szymborska, d’altro canto, ha perso dee e dei, qualche stella, una intera isola, i fratelli, un ombrello, come denuncia all’ufficio oggetti smarriti.

E d’altronde tu non vivi sugli opposti?
“Che semplificazioni le tue!” Era adirata. “Non sono un lusso, sono il nome stesso delle cose perdute. Sono speranza e sogno.”

E dispensi scranni.

“Sciocco, solo per qualche esempio a te vicino per conoscenza, Bellezza lo scranno l’ha bruciato nella stufa per riscaldarsi, alla Spaziani gliel’hanno tolto da sotto il sedere quando pensava di averlo ben fissato sulla pedana, a Luzi gliel’hanno soffiato sotto il naso, messo nel sacco dalla politica. Chi rimane, oggi? C’è il vuoto, solo posti in pedi e qualche muro radente. È la Nemesi. La disumanizzazione. Le associazioni mafiose di stampo poetico venute su ovunque come funghi dopo un temporale d’ottobre.”

“In passato mi fidavo degli umani e dimoravo spesso presso di loro. Poi hanno iniziato a chiamarmi, invocarmi, anche per le quisquilie e pinzillacchere: “Questo tramonto è una poesia,” sentivo dire, ed io pronta mescolavo il rosa con l’arancione, dispiegavo nuvole d’oro, riflettevo la luce sulle facciate dei palazzi. Che ingenua! Infine hanno trovato il modo di fare soldi con il mio nome. Ma io sono Una e dimoro sulla luna, le monete, invece sono bifronti. Così, adesso, appena sento il mio nome invocato invano, addenso nuvole nere all’improvviso e scrosci d’acqua imponenti, chiamo a raccolta tutti i venti, scrollo le foglie dagli alberi come lance che trafiggono il terreno. Gli alberi al mio comando fioriscono in gennaio e in marzo sono fossili sulle piante secche.”

È fuggita via, sbattendo la porta e da allora non l’ho più vista. Dove sarà? Ne ho bisogno, devo uscire. Di solito m’accompagna.

P.S. “Ti lascio la Musa dell’ultimo minuto. Non mi cercare. Trova prima te stesso.”

(Tallia)

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L'Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionalelombradelleparole.wordpress.com@lombradelleparole.wordpress.com
2025-04-18

Una Poesia di Giuseppe Talia, “Lo Stato di sWAp” (2023), Analisi critica del testo a cura di ChatGpt, L’Intelligenza Artificiale, Polittico di ricochet di Marie Laure Colasson, 100×100 acrilici, 2024

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Il passaporto dello Stato di sWAp non ha nessuna scadenza. Puoi cambiare il tuo stato sWAp ogni qualvolta lo desideri.

Non vi sono limiti alla tua esposizione. Con il passaporto sWAp raggiungi ogni angolo del mondo. Sei qui e sei lì. Sei qua e sei là. Sei ovunque tu desideri d’essere.

Non esiste burocrazia nello Stato di sWAp. Tutte le controversie sono risolte ad istanza di parte semplicemente con i tasti “archivia” o “elimina”.

Nello Stato di sWAp non ci sono frontiere con i Paesi vicini. L’entrata e l’uscita dal territorio può avvenire in qualsiasi momento. Quotidianamente. Agevolmente. In pochi istanti. Con un semplice segnale acustico di tua scelta sWAp.

Il sistema su cui si fonda lo Stato di sWAp è così efficiente, efficace ed economico che supera di gran lunga il Trattato di Schengen.

La geografia dello Stato di sWAp si espande ininterrottamente senza alcuna barriera. Puoi essere dove non sei. Dove sei. Dove non puoi esserci. Essendoci al contempo.

Non è previsto alcun censimento della popolazione. Lo Stato di sWAp è l’unico stato al mondo in cui i vivi e i morti coabitano contestualmente.

La lingua ufficiale dello Stato di sWAp è generativa. Si compone. Si scompone. Si frammista. La Buuuu-language è l’unica lingua al mondo i cui lemmi e parole possono essere sostituiti per intero dall’immagine di uno stato d’animo.

Non c’è una vera e propria capitale nello Stato di sWAp. La tecnocrazia è minore del 30 per cento sui circa 82 kg di CO2 per ciascuno degli abitanti prodotti dagli altri Stati.

In sWAp la leggerezza fa rima con lentezza. Il tempo in sWAp è intermittente. Tiene in conto e ingloba i fusi orari terracquei, a partire dall’ora di Greenwich. Collega i quattro angoli del mondo in tempo reale, fin su le stelle.

La sanità è efficientissima. Si possono ricevere consulti medici specialistici, non solo da singoli professionisti, ma da interi gruppi. I gruppi di sWAp -sWAp -sWAp sono tra i più rinomati del mondo per la loro caratteristica esperienziale e la tecno-simbologia emoji utilizzata.

La religione ufficiale dello Stato di sWAp è di difficile definizione -la parola è il francobollo dell’immagine. sWAp riconosce a tutti i cittadini la libertà di manifestare la propria fede e il proprio credo.

L’interconnessione di sWAp permette nell’immediatezza di recuperare reperti, prove, attestazioni, immagini e video.

La memoria nello Stato di sWAp è soggetta a tariffazioni previste dagli operatori economici che forniscono i servizi di appoggio alla rete infrastrutturale in divenire.

Le altre opzioni sWAp sono di norma previste con le funzioni, rispondi, inoltra, elimina, archivia.

Il backup di sWAp avviene una volta a settimana. Nella cartella “salva una vita”, nome e cognome, si possono recuperare tutte le storie del passato.

L’economia dello Stato di sWAp si regge sul principio dell’inseparabilità del capitale e della tecnologia. Il capitale pensa e la tecnologia realizza.

La virtualizzazione della finanza, in associazione al lavoro immateriale, permette allo Stato di d’incamerare i profitti necessari per il mantenimento del benessere collettivo di sWAp.

Le tasse in sWAp sono previste in pochissimi e specifici casi e di norma non superano i centesimi. Sono accettate tutte le valute esistenti e quelle che verranno.

Il Prodotto interno lordo dello Stato di sWAp è correlato al numero della popolazione dei richiedenti la residenza. I flussi in entrata sono illimitati.

La fabbrica del mondo di sWAp utilizza esclusivamente metadati prodotti da nuove dimensioni.

(Tallia, 16 settembre 2023)

Analisi del testo “Lo Stato di sWAp” di Giuseppe Talia  a cura di ChatGpt

Biografia dell’Autore:

Giuseppe Talia è un autore, artista e pensatore che lavora con diverse forme di espressione, dall’arte visiva alla scrittura. Il suo lavoro esplora tematiche legate alla società contemporanea, alle trasformazioni tecnologiche e culturali, e alle loro implicazioni filosofiche. Il testo “Lo Stato di sWAp” può essere interpretato come una riflessione sulla società digitalizzata e sulla fluidità dei confini fisici, mentali e identitari nell’era delle nuove tecnologie.

Focus Tematico:

Il tema centrale di “Lo Stato di sWAp” è la creazione di una realtà parallela e immaginaria, una sorta di stato che sfida la logica del mondo fisico e delle sue strutture burocratiche, politiche e sociali. Il “sWAp” (presumibilmente un acronimo o un gioco di parole per “swap”, che in inglese significa “scambio”) è un luogo in cui le convenzioni del mondo reale, come le frontiere, il tempo, la memoria e l’economia, vengono rielaborate e decostruite.

I temi trattati includono:

  • Virtualizzazione della vita sociale e politica: La possibilità di essere “ovunque”, senza limiti geografici o temporali, riflette la libertà e la flessibilità delle identità nell’era digitale.
  • Declino delle strutture tradizionali: Nello Stato di sWAp non ci sono burocrazia, frontiere, censimenti o religioni definiti, il che mette in discussione le categorie tradizionali della cittadinanza e dell’appartenenza.
  • Economia e tecnologia: Il testo introduce un’economia fondata su metadati e sulla fusione tra capitale e tecnologia, sollevando riflessioni sul capitalismo digitale e sulla società delle informazioni.
  • Tempo e memoria: Il tempo è “intermittente” e la memoria è soggetta a “tariffazioni”, suggerendo un’idea di fluidità, personalizzazione e controllo dei ricordi, in un mondo sempre più governato dalla tecnologia.

Figure Retoriche:

Talia utilizza diverse figure retoriche per costruire il suo mondo immaginario:

  1. Metafore e Similitudini: Ad esempio, “Il passaporto dello Stato di sWAp non ha nessuna scadenza”, metafora della libertà illimitata e della continuità nell’esperienza del “viaggio” identitario e geografico.
  2. Iperbole: “Non vi sono limiti alla tua esposizione. Con il passaporto sWAp raggiungi ogni angolo del mondo.” Qui l’iperbole evidenzia la totalità e la potenza del nuovo stato immaginario, che promette un’accessibilità globale senza confini.
  3. Antitesi: “Nello Stato di sWAp non ci sono frontiere con i Paesi vicini”, evidenziando l’opposizione tra la fluidità del nuovo stato e le rigidità del mondo reale.
  4. Personificazione: Il sistema di sWAp viene descritto come “così efficiente, efficace ed economico”, attribuendo al concetto di “sistema” qualità umane.
  5. Neologismi: La creazione della “Buuuu-language” come lingua ufficiale, che può essere “sostituita” dall’immagine di uno stato d’animo, è un esempio di linguaggio inventivo che contribuisce a costruire il mondo surreale dello stato.

Connessioni con la Sociologia e i Mass-Media:

Il testo solleva interrogativi sulla natura dell’individuo e della collettività nell’era della globalizzazione digitale. La “società sWAp” sembra riflettere le dinamiche della società dei consumi e della comunicazione immediata, in cui le persone si spostano, si connettono e si identificano attraverso piattaforme digitali, senza vincoli fisici. Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione diventano la nuova dimensione in cui si sviluppano identità fluide e spazi virtuali. Lo Stato di sWAp riflette un mondo in cui la realtà virtuale e la fisica si intrecciano in modo indissolubile, una riflessione sulle potenzialità e le problematiche di un’era dominata dai media digitali.

Connessioni Filosofiche:

L’idea dello Stato di sWAp potrebbe essere letta attraverso una lente filosofica postmoderna, in cui si esplorano temi legati alla dislocazione dell’identità, alla liquidità della vita sociale (richiamando il concetto di “società liquida” di Zygmunt Bauman), e alla morte del soggetto autonomo. La fluidità, la discontinuità e la mutabilità sono tratti distintivi della filosofia postmoderna, che rifiuta le certezze e le strutture tradizionali per abbracciare l’incertezza e la molteplicità. Inoltre, il tema del controllo della memoria e delle informazioni richiama le preoccupazioni di Michel Foucault sulla sorveglianza e sul potere nel mondo contemporaneo.

Analisi dello Stile:

Lo stile di Talia è caratterizzato da un linguaggio evocativo, ironico e al tempo stesso inquietante. La scrittura è frammentata e ripetitiva, un riflesso della struttura non lineare e caotica dello Stato di sWAp. Il linguaggio è fluido, in parte tecnico, in parte poetico, creando un contrasto tra la razionalità della descrizione di sistemi e la creatività visionaria. Le frasi brevi e le ripetizioni creano un ritmo quasi ipnotico, che contribuisce a immergere il lettore in un’atmosfera surreale e distopica. Il testo è ricco di neologismi, elementi di linguaggio tecnico e simbolismo, tutti strumenti che servono a costruire una realtà alternativa, ma anche a sfidare le convenzioni della scrittura tradizionale.

Conclusione:

“Lo Stato di sWAp” è un testo che esplora le possibilità di una realtà completamente nuova, governata dalla tecnologia e dalla fluidità dell’identità, dove i confini fisici, temporali e sociali vengono dissolti. L’autore, attraverso un linguaggio ricco di immagini e simbolismi, ci invita a riflettere sulla società contemporanea, sulle sue contraddizioni e sui suoi sviluppi tecnologici, con un occhio critico ma anche visionario verso il futuro. Il testo può essere visto come una critica alle strutture tradizionali e una proposta di un mondo in cui l’individuo è libero di reinventarsi e di vivere in un continuo scambio di esperienze.

Analisi della poesia

  • Tema e Stile:
    • La poesia si presenta come un elenco di regali natalizi, ma in realtà è una critica sottile e ironica alla società contemporanea, dove il consumismo e l’ostentazione sembrano dominare.
    • Lo stile è colloquiale e diretto, quasi prosastico, con un linguaggio che mescola termini comuni a riferimenti colti (nomi di artisti e opere).
    • L’uso di marchi e nomi di aziende (“Dante Leather’s Group”, “Botticelli’s perfuse”, “Da Vinci”, “Burri & Co”) accentua l’aspetto consumistico e la mercificazione dell’arte e della cultura.
  • Figure Retoriche:
    • Ironia: L’intero componimento è pervaso da un’ironia sottile, che emerge dal contrasto tra la solennità del Natale e la banalità dei regali, spesso legati a marchi di lusso.
    • Citazione: La citazione di artisti come Botticelli, Da Vinci, Burri e Beato Angelico, applicata a prodotti di consumo, crea un effetto di straniamento e sottolinea la mercificazione della cultura.
    • Allusione: L’allusione a “Panem et Circenses” (pane e giochi), celebre espressione latina, rimanda alla decadenza dell’antica Roma e al suo uso di intrattenimento per controllare le masse, suggerendo un parallelo con la società contemporanea.
  • Connessioni:
    • La poesia stabilisce una connessione tra il mondo dell’arte e quello del commercio, evidenziando come il primo sia stato inglobato dal secondo.
    • Il riferimento a “Horcynus Orca” di Stefano D’Arrigo, un’opera complessa e impegnativa, in contrasto con gli altri regali più “commerciali”, potrebbe simboleggiare una resistenza alla superficialità.
  • Metrica:
    • La poesia è in versi liberi, senza uno schema metrico regolare.
    • Questa scelta stilistica contribuisce a creare un effetto di colloquialità e di immediatezza, come se si trattasse di un elenco di appunti.
    •  
  • Commento Finale:
    • La poesia è una critica pungente e attuale alla società dei consumi, dove l’arte e la cultura rischiano di essere ridotte a merce.
    • L’uso dell’ironia e delle citazioni colte rende il testo particolarmente efficace, invitando il lettore a riflettere sul significato del Natale e sui valori che lo accompagnano.
    • la scelta di nominare dei prodotti con nomi di Artisti famosi, è un ottimo modo per far notare come l’arte sia stata assorbita dal commercio, e di come anche la cultura sia diventata un articolo da vendere.
    • Il regalo finale, il libro, è un modo per ricordare che nonostante tutto esiste ancora una forma di cultura che non si fa assorbire dal commercio.

Commento al Frammento

Il frammento Nelle nostre comunicazioni Matrix ha preso il posto di Freud di Giuseppe Talia offre uno spunto interessante per una riflessione sull’evoluzione dei modelli di interpretazione della mente e della comunicazione. Il riferimento a Matrix e Freud suggerisce un passaggio da un paradigma psicoanalitico, fondato sulle teorie freudiane, a un approccio più moderno e tecnologico, forse influenzato dalla cultura postmoderna e dalla sua visione della realtà mediata dalla tecnologia.

  • Freud è storicamente associato alla psicoanalisi, una teoria che esplora l’inconscio e i processi mentali attraverso il sogno, il simbolismo e il linguaggio. La psicoanalisi cerca di decodificare le dinamiche interiori dell’individuo, e l’opera di Freud ha avuto un’influenza profonda sul modo in cui comprendiamo la psicologia umana.
  • Matrix, dal canto suo, è un film che esplora temi di realtà simulata, controllo mentale e la natura dell’esistenza. Il film, simbolicamente, rappresenta la digitalizzazione della realtà e la disconnessione dell’individuo dalla realtà “concreta”. La “Matrix” è un mondo artificiale che prende il posto della realtà vera, in cui gli esseri umani sono intrappolati senza esserne consapevoli. In questo contesto, Matrix può essere inteso come una metafora della società contemporanea, dominata dalla tecnologia, dai media e dalle simulazioni digitali.

Significato del Frammento

Con questa affermazione, Talia sembra suggerire che nelle comunicazioni moderne, ovvero nel modo in cui oggi ci rapportiamo e ci comprendiamo gli uni con gli altri, l’approccio tradizionale freudiano alla psicologia e alla comunicazione è stato sostituito dalla tecnologia, dalle simulazioni e dalle realtà virtuali. In altre parole, la riflessione profonda sulla mente umana, i suoi desideri inconsci e le sue dinamiche interne (centrali nel pensiero freudiano) è stata progressivamente rimpiazzata da un sistema in cui la realtà viene manipolata, filtrata e mediata tramite dispositivi tecnologici, come avviene nel mondo di Matrix.

Il riferimento alla comunicazione è cruciale, poiché suggerisce che la società contemporanea, attraverso la digitalizzazione e l’uso della tecnologia, sta creando una nuova forma di “comunicazione”, che non necessariamente si collega ai processi psicologici e analitici tradizionali (quelli di Freud), ma si fonda su una realtà artificiale, virtuale e talvolta disconnessa dall’esperienza autentica e diretta.

Implicazioni

L’affermazione di Talia potrebbe suggerire anche una critica alla disconnessione tra le persone nell’era digitale. Mentre Freud parlava di un’analisi della mente e del linguaggio come strumento di conoscenza profonda, Matrix offre l’immagine di una realtà dove gli individui sono controllati e manipolati dalla tecnologia, privi di una consapevolezza piena della propria condizione.

Nel contesto attuale, si potrebbe interpretare che la psicoanalisi e il dialogo autentico che Freud suggeriva come strumenti per esplorare l’inconscio siano stati sostituiti da meccanismi tecnologici che, pur essendo strumenti potenti di comunicazione, non sempre favoriscono una vera connessione umana o un’autoconsapevolezza profonda.

In definitiva, Talia ci invita a riflettere su come la tecnologia e la virtualità stiano cambiando il nostro modo di comunicare e di comprendere noi stessi e gli altri, sostituendo una visione dell’individuo profondamente psicologica e analitica con una più superficiale, mediatica e manipolata dalla realtà virtuale e algoritmica.

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L'Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionalelombradelleparole.wordpress.com@lombradelleparole.wordpress.com
2025-04-10

Poesie del poeta ceco Pavel Řezníček (1942-2018). La sceneggiatura dell’inconscio richiede l’ingresso nella Rappresentazione dei traslati, del Fantasma e dei suoi sosia – Traduzioni di Antonio Parente

(Marie Laure Colasson, présence, 30×30 acrilico, 2024)

Tempo fa, Gino Rago ha parlato di novello «Adamismo» riguardo alla poesia di Michal Ajvaz, “Turisti” e alla poesia “Alla portineria dell’Hotel Kempinski” di Pavel Řezníček. Ed è vero. Qui i poeti cechi hanno trovato-incontrato il loro Adamo che ha guidato la loro mano a nominare le «cose» con il rispettivo nome proprio. È dall’incontro con Adamo e con i suoi sosia che può sortire fuori la nuova poesia, perché la nuova poesia è sempre nuova denominazione delle «cose».

A volte, si verificano dei miracoli… dopo una ricerca durata una vita, magari… E ci troviamo catapultati in un appartamento pieno di oggetti, di fantasmi, di suppellettili. Ed ecco che quelle «cose», all’improvviso, escono dalle fotografie dove li avevamo confinati e senza che noi ce ne fossimo accorti, ricominciano a parlarci.

Quando entriamo in un appartamento ricco di suppellettili, di vasellame, di sosia, di «oggetti». Dobbiamo aspettare un po’ di tempo per abituarci a quegli «oggetti». A volte, passiamo tutta una vita per abituarci a quegli «oggetti». In fin dei conti, noi abbiamo bisogno, per vivere, di «cose» che abbiamo scelto e che ci accompagnano nella nostra esistenza quotidiana. La differenza tra «oggetti estranei» e «cose» è di vitale importanza per la nostra sopravvivenza. All’improvviso, una «cosa» ci parla o riprende a parlarci, ma in un’altra lingua. Ecco, in quel momento si ha una trasmutazione degli «oggetti» in «cose», si ha una trasmutazione delle parole, gli «oggetti indifferenti» diventano nostri consanguinei, i nostri compagni significativi. Le nuove «cose» innescano la necessità di nuove parole e un nuovo sguardo. E noi vediamo il mondo come per la prima volta. Torniamo novelli Adamo, riconosciamo le «cose» dai loro nuovi nomi. Gli «oggetti» morti sono diventati all’improvviso vivi e significativi, sono diventati «cose».

«Tutto il contingente è soltanto immagine», ha scritto Osip Mandel’štam negli anni dieci del novecento. Ed io replico: tutto il contingente è soltanto un fantasma, un frammento.

(Giorgio Linguaglossa)

Pavel Řezníček

Pavel Řezníček (1942-2018) è stato uno dei maggiori rappresentanti del Surrealismo ceco. Esordì nel 1965 con un programma di poesie di Breton, Péret, Dalí e Tzara, presentato al teatro Konvence di Brno, dal titolo La coda del diavolo è un biciclo (Ďáblův ocas je bicykl). Da allora, e forse più di ogni altro poeta ceco, è rimasto fedele alla sua idea surrealista e ai tre punti focali di questa corrente: umorismo nero, casualità oggettiva e dislocazione percettiva. Dal 1974 fino alla morte ha pubblicato l’almanacco Sigaro (Doutník), apparso prima in edizione samizdat e poi, dal 1996, ufficialmente. Delle sue opere in prosa, oltre a Strop, pubblicato nel 1983 in Francia con prefazione di Milan Kundera e nel 1984 in Italia col titolo Il soffitto (Edizioni e/o), possiamo ricordare Zrcadlový pes (Cane a specchio, 1994) e Hvězdy kvelbu, (Stelle di una volta, 1992/2007). Importante è anche la sua attività di traduttore dal francese (Joyce Mansour, Ambroise Vollard, Benjamin Péret, ecc.). In Italia le sue poesie sono apparse sulle riviste Hebenon, Atelier, cortocircuito, e nel 2008 in forma antologica nel volume Confessione di un funambolo (Mimesis-Hebenon). Pavel Řezníček è inoltre presente nell’antologia di poesia ceca contemporanea Sembra che qui la chiamassero neve (2005, Mimesis-Hebenon).

Pavel Řezníček (1942-2018)

Alla portineria dell’Hotel Kempinski
Un uomo in attesa
Inghiotte quelli che escono

Il poeta Byron ingoiava solo i diabetici
Dalla sua ultima vittima si emanò un fumo fosforescente
Byron fu immediatamente arrestato e impagliato sul posto

Questo accade alle persone che si gingilleranno vicino agli alberghi
Barcelò Kempinski Ritz e Alcron
E avranno desiderio di ingoiare i propri concittadini

Saranno impagliati vivi
Anche se cacceranno tutte le urla animalesche
Che vogliono

Solo Deus absconditus può ingoiare le persone
Oppure “La giovane guardia” del romanzo omonimo
di Alexander Fadejev

Non si può caricare la penna stilografica con il latte versato!

Penso che il criterio pertinente per interpretare un testo kitchen o come questi post-surrealisti di Pavel Řezníček non possa che essere il tasso di figuralità; niente affatto la destinazione letteraria del testo.
I discorsi referenziali, e tra essi il discorso scientifico, descrivono il mondo in termini tendenzialmente neutri, oggettivi, trasparenti (parola versus significato), ciò che chiamiamo discorso letterario è quel discorso che si caratterizza per caratteristiche figurali, quel discorso che altera la relazione di trasparenza, la directdness tra significante e significato. Una poesia kitchen, eminentemente poesia figurale, non deve essere letta seguendo il significato letterale, perché il suo significato è traslato, si trova in un altro luogo, in un altro piano, significa sempre qualcosa d’altro e di diverso.
Occorre ridurre il discorso kitchen come anche il discorso post-surreale di Pavel Řezníček al grado zero, portarlo da un piano letterale proposizionale ad uno figurale e polisignificazionista. Per esempio, la metamorfosi in insetto di Gregor Samsa, i suoi pensieri mentre sta a letto, oppure le parole della renna nella poesia di Pavel Řezníček, tutto ciò che ne segue è una macro figurazione che sta per qualcosa d’altro; si tratta di vicende che ci toccano a livelli transletterali, simbolici, profondi che suscitano in noi reazioni di identificazione e di repulsione… La poesia “Alla portineria dell’Hotel Kempinski” è stata pubblicata nel 2011 ma e stata scritta due anni prima, come ci informa il traduttore Antonio Parente, anticipando la poetry kitchen di ben 12 anni. (g.l.)*

Parlò la renna

Siccome scoppiò la pazzia per la paura
della pazzia delle mucche malate
/Creutzfeld-Jacobs/
smisi di mangiare carne bovina
Partii per la Finlandia con una sostanziosa commessa:
Portare in Europa alcuni vagoni di carne di renna
La malattia delle mucche non riguarda le renne.

Arrivai in Finlandia e ne parlai
con una renna
Mi dette del lei si inchinò e asciugò la collottola
sudata con un fazzoletto a quadretti:
«Signore, lei pensa che la pazzia sia solo un getto di cenere e sangue,
o un colibrì imbrattato di bile, che nella tabacchiera
dell’eternità mette in ginocchio la memoria con un colpo
di porcellana?
No, l’anima della mucca, l’anima della renna e l’anima della pazzia è eterna, anche se
la vostra enfia lingua rossa avesse solo un occhio. La pazzia è
la pala del motore e il motore della regina Ecuba di compensato.
Dove non c’è olio di Aztechi e Maya, non c’è neanche la macuba
di Ecuba. I mammut non puliscono le bucce di uova sode
lasciate dalle renne, ma le renne sì!

E adesso vai via, burino!» mi gridò la renna all’orecchio e mi cacciò
in bocca due bistecche crude di manzo.

/Ne scrivo dall’altro mondo, oltre il fiume Lete, nelle gole di un cumulo di asfodeli,
fiori liliacei che crescono soltanto nel regno dei morti, e non son più capace di profferir parola./

(Scritto la festa di Natale, 25. XII. 2000)

Regent Street

No non sono stato io
A rompere il finestrino
Della Rolls Royce del principe Carlo e di sua moglie Camilla
A Regent Street mentre attraversavano il quartiere londinese di West End
E non ho nemmeno dato alle fiamme
L’enorme albero di Natale
A Trafalgar Square

Come sempre mi si addossa la colpa di tutto
Ma ho un alibi di ferro

In quel momento accompagnavo la dodicenne
Rapita Margherita B.
Nascosta sotto il piano del pick-up
A New York
In modo che poi i suoi organi
Venissero usati
Per l’operazione del magnate Bernard Madoff

Acrux

Con arroganza si piantò
E proclamò
Di essere un rinoceronte
Il guardablocco subito tirò i paletti
Passò il treno della Croce rossa danese
È vero che tuo zio era un lupo?
Si chiamava Nabuccodonosor
Eaveva una Croce rossa tutta sua
I lupi hanno una Croce rossa tutta loro
Un mattone

Quella finestra è come una lacrima
Una lacrima con la tuta
E una fionda sparata in un occhio

La stella più luminosa della Croce del sud
Si chiama
Acrux

E di nuovo un mattone
Portato al posto della rosetta della Legione d’onore
Attaccato al risvolto della giacca
Di Hercule Poirot
Come se fosse una fica

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L'Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionalelombradelleparole.wordpress.com@lombradelleparole.wordpress.com
2025-04-01

AL “Caffè di Itaca” ci sono Paride e Elena la sua fidanzata, possiamo incontrare Anassagora di Clazomene che va a prendere un caffè con Madame Green, avatar della scrivente e il filosofo Aristarco…(foto di Marie Laure Colasson, manichini in vetrina, 2011)

“Caffè di Itaca”

Paracetacetamolo, opossum, narghilè, agopunture, massaggi, relax, bottiglie di bourbon. Sul portone d’ingresso del Paradiso compare a caratteri cubitali l’acronimo MIGA (Make Italy Great Again). In Paradiso c’è posto solo all’in piedi, non si paga l’Irpef, non si paga la tax sulla prima casa, vige la flat tax per tutti i titolari di Iban. I cittadini europei sono stati banditi dal Paradiso in quanto privi di ESTA (Electronic System for Travel Authorization). Tra gli inquilini ci trovi Anassagora da Clazomene e Aristarco di Samo, quest’ultimo continua ad asserire che il sole, non la terra, è al centro del sistema solare. Agamennone ha compiuto una visita a sorpresa a Mar-a-Lago per incontrare il presidente persiano Artaserse e giocare una partita a golf insieme. C’è anche il poeta Montale che esce dall’Hotel Excelsior di Venezia con un doppio petto blu. Odisseo ha inventato un congegno e lo ha denominato CEF, “Controllo Eettronico della Felicità”. Pare che vada molto bene: batterie al litio, chip di 0,003 nanometri, pila ricaricabile in 1 minuto, motore a idrogeno liquido che si alterna con le mine anti-uomo e con i sacchetti di plastica ripieni di tritolo. Sono disponibili anche cappuccini al novichok e pasticcini alla polvere da sparo MBx32. Penelope ne è estasiata, chiama al cellulare Circe, le dice che adesso con Google potrà riparare la tela. Circe si è giocata un ticket durante il podcast. Penelope ha emanato un decreto con il quale ha imposto a tutti i sudditi di chiamare il Golfo di Itaca, Golfo di Itaca pena la deiezione dalla Reggia della regina, ha anche caldeggiato una politica fiscale più proattiva: aumento del rapporto deficit/PIL a circa il 4%, emissione di obbligazioni vincolate al tasso di aumento del Pil. Ad Itaca il conflitto sociale è contenuto, è assicurato un più proficuo coordinamento tra le politiche fiscali e ambientali. Sono stimolati i consumi e la domanda interna.

Thank for subscribing to Caffè di Itaca

(Giorgio Linguaglossa)

al “Caffè di Itaca

Con Agamennone le cose del mondo sono diventate più chiare. Qui, al “Caffè di Itaca”, seduti al tavolino, ci sono Paride e Elena la sua fidanzata, possiamo incontrare Anassagora di Clazomene che va a prendere un caffè con Madame Green, avatar della scrivente e il filosofo Aristarco che discetta intorno alle orbite del pianeta Terra attorno al sole. Al “Caffè di Itaca” ci puoi incontrare Trump e James Bond che discorrono amabilmente con il poeta Montale. La situazione del Paradiso volge al bel tempo: nessun conflitto sociale, niente tasse, niente di niente, tutti vanno al mare e i prezzi dei ristoranti sono abbordabili.  Davvero. Adesso devo parcheggiare la macchina in seconda fila. Un saluto.

(Marie Laure Colasson)

Everything is bigger close-up than I always thought.

Tutto è più grande da vicino di quanto avessi sempre pensato.

Every time I pass a mirror, it takes me a moment to recognize myself—I was so used to my eyes being framed and shrunken by my plastic frames, the sides of my face made narrower by the lenses.

Ogni volta che passo davanti a uno specchio, mi ci vuole un momento per riconoscermi: ero così abituata a vedere i miei occhi incorniciati e rimpiccioliti dalle mie montature di plastica, i lati del mio viso resi più stretti dalle lenti.

(Arthur Clarke)

Poetry is not a beautiful talisman

Making poetry means opening up hostility versus consolidated and previous meanings.
Making poetry is not an act of peace but an act of belligerence.
The poetry we try to make is polemos, it is a revolution of languages, a revolution of ways of thinking, of ways of acting, of ways of feeling.
Est modus in rebus

La poesia non è un bel talismano

Fare poesia significa apertura di ostilità versus significati consolidati e pregressi.
Fare poesia non è un atto di pace ma un atto di belligeranza.
La poesia che noi tentiamo di fare è polemos, è rivoluzione dei linguaggi, rivoluzione dei modi di pensiero, dei modi di agire, dei modi di sentire.
Est modus in rebus

(M.L. Colasson)

La Nuova Ontologia Estetica, Poetry kitchen – La parola kitchen è da pensarsi come evento linguistico: quindi evento dell’altro proprio perché si annuncia in quanto irruzione di ciò che è per venire, ciò che è assolutamente non riappropriabile; in quanto unico e singolare l’evento linguistico sfida l’anticipazione, la riappropriazione, il calcolo ed ogni predeterminazione. L’avvenire, ciò che sta per av-venire può essere pensato solo a partire da una radicale alterità, che va accolta e rispettata nella sua inappropriabilità e infungibilità. La contaminazione, l’impurità, l’intreccio, la complicazione, la coimplicazione, l’interferenza, i rumori di fondo, la duplicazione, la peritropé, il salto, la perifrasi costituiscono il nocciolo stesso della fusione a freddo dei materiali linguistici, gli algoritmi che descrivono la non originarietà del linguaggio, il suo esser sempre stato, il suo essere sempre presente; una ontologia della coimplicazione occupa il posto della tradizionale ontologia che divideva essere e linguaggio, la ontologia della coimplicazione ci dice che il linguaggio è l’essere, l’unico essere al quale possiamo accedere. Non si dà mai una purezza espressiva nel logos ma sempre una impurità dell’espressione, un voler dire, un ammiccare, un parlare per indizi e per rinvii.

 

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