#malattia

Domenike Famelikezamply.help@zamply.help
2025-10-13

Sliding Doors #3

Intanto dall’altra parte del paese…

“Mamma, è a casa la zia?” chiese Thérèse sbirciando dalla finestra, spostando delicatamente la tendina di pizzo con le sue dita affusolate e pallide. I suoi occhi scrutavano con attenzione il panorama familiare del cortile, cercando qualsiasi segno di movimento o vita dall’altra parte.

Guardava indagatrice quelle finestre sbarrate al di là del cortile e si chiedeva con crescente preoccupazione come mai non erano ancora aperte e la zia Anna non era in cortile a pulire e incerare qualche mobile come faceva ogni mattina, seguendo la sua routine quotidiana quasi religiosa. Il silenzio che avvolgeva la casa della zia era inquietante, così diverso dal solito viavai di attività mattutine.

L’aveva sempre ammirata quella zia che si spaccava in quattro per gli altri e non era mai abbastanza per se stessa. La sua generosità sembrava non avere limiti, come un pozzo senza fondo di bontà e dedizione. Ricordava con tenerezza di quando andava a scuola e la zia Anna tutti quegli anni le faceva da autista, portandola e riprendendola tutti i giorni con pazienza infinita, e concludeva il viaggio sempre con la stessa frase detta con un sorriso luminoso “come sei bella!”. Quelle parole, pronunciate con tanto affetto sincero e incondizionato, le avevano dato sicurezza negli anni dell’adolescenza quando ne aveva più bisogno. La zia era stata come un faro nella sua vita, una presenza costante e rassicurante.

E comunque aveva cominciato a chiedersi, d’accordo la zia è un pò particolare con le sue manie e le sue abitudini rigide, ma anche il suo Jerome è parecchio strano però, con quei suoi silenzi improvvisi e quegli scatti d’ira apparentemente immotivati che facevano tremare le pareti. C’era qualcosa di inquietante nel modo in cui lui poteva passare dalla calma più assoluta alla rabbia più cieca in pochi secondi, come se un interruttore scattasse nella sua mente. E la zia, povera donna, sembrava sempre più piccola e fragile accanto a lui, come se la sua presenza la schiacciasse lentamente.

“Mi sembra d’averla vista rientrare presto ieri sera,” rispose con un velo di ironia la madre, scuotendo la testa con disapprovazione. “Questo vuol dire che avevano litigato di nuovo e che quindi se ne starà rintanata in casa per un paio di giorni, come fa sempre quando succedono queste cose. Non riesco proprio a capire perché continui a sopportare quella situazione. Mi chiedo come Jerome la possa sopportare!”

La madre fece una pausa, come se stesse cercando le parole giuste. “Sai,” continuò con voce più bassa, quasi confidenziale, “tua zia non è sempre stata così. Prima di Jerome era una donna forte, indipendente. Ora sembra l’ombra di se stessa, sempre attenta a non fare o dire qualcosa che possa irritarlo. È come se vivesse costantemente sul filo del rasoio, in attesa della prossima esplosione.”

Thérèse sentì un brivido correrle lungo la schiena. Le parole della madre davano voce a tutte quelle preoccupazioni che lei stessa aveva ma non osava esprimere. Continuò a fissare la finestra della zia, sperando di vedere un segno, un movimento, qualsiasi cosa che potesse rassicurarla che tutto andava bene. Ma le tende rimanevano immobili, come un sipario calato su un palcoscenico vuoto, e il silenzio continuava a pesare nell’aria come una presenza tangibile.

“D’altra parte stasera e domani il bar rimane chiuso e avranno tutto il tempo per schiarirsi le idee e fare pace come sempre,” concluse Brigitte mentre affondava delicatamente le mani nella terra fresca, sistemando con cura meticolosa l’ultima piantina di Fucsia nel vaso di terracotta decorato. I suoi movimenti erano precisi e misurati, come se stesse eseguendo un rituale sacro. Nel pomeriggio sarebbe arrivato Marco, il giardiniere di fiducia della famiglia da generazioni, per appendere i vasi lungo il porticato. Già immaginava l’effetto stupendo che avrebbero creato quei fiori fucsia accesi, danzando come piccole ballerine colorate accanto al maestoso Glicine che si arrampicava con eleganza naturale sulle imponenti colonne bianche, creando un armonioso gioco di colori e forme.

“Aspe’… adesso la chiamo” – annunciò Brigitte a Thérèse.

In una stanza buia e silenziosa, dove l’aria sembrava densa e immobile come in una cripta, la suoneria del telefono squarciò improvvisamente il silenzio opprimente come un fulmine in un cielo sereno.

Driiiiinnnn Driiiinnnn

Lo schermo del telefonino si illuminò di colpo, proiettando la sua luce spettrale e fioca sul comodino di Anna. Le ombre create da quella luce artificiale danzavano inquietanti sulle pareti della stanza immersa nell’oscurità, come spettri silenziosi che si muovevano al ritmo della suoneria insistente.

Driiiiinnnn Driiiinnnn

“E adesso chi diavolo sarà?” si chiese Anna con voce rauca, emergendo controvoglia dal suo bozzolo di coperte come una creatura marina che risale dalle profondità. Fece una smorfia di dolore e fastidio mentre il trillo persistente del telefono martellava nella sua testa dolorante, un ricordo tangibile della notte insonne appena trascorsa. Il suono le sembrava amplificato mille volte, come un picchio impazzito che batteva senza sosta contro le pareti del suo cranio.

“Uff, mia sorella!” mormorò con un misto di irritazione e sollievo quando riconobbe il numero sul display. “La richiamerò più tardi, ora non ho proprio la forza mentale per sostenere una conversazione con nessuno.”

Si rintanò nuovamente sotto le coperte con un movimento rapido e deciso, cercando disperatamente rifugio in quel calore familiare che la avvolgeva come un abbraccio protettivo, un’oasi di conforto in mezzo alla tempesta dei suoi pensieri.

“Mia sorella!” riprese tra sé con crescente rabbia. “Cosa vuole a quest’ora del mattino! E quello là,” il pensiero di Jerome le fece salire una nuova ondata di rabbia, “figurarsi se si degna di chiamare, non l’ha mai fatto in tutti questi anni, aspetta sempre che sia io ad andare là a riverirlo come una serva devota! Questa volta no, LUI deve venire qui altrimenti non muovo un singolo dito, ne ho abbastanza delle sue prepotenze!”

Un fiume impetuoso di rabbia incontrollabile le scorreva nelle vene come lava incandescente, bruciando ogni altro pensiero razionale. La furia era così intensa che il suo corpo reagiva fisicamente: tremori violenti la scuotevano dalla testa ai piedi come scosse elettriche, e i singhiozzi che cercava di trattenere si trasformavano in pianti disperati e strazianti che sembravano non avere mai fine. Era come se ogni lacrima versata aprisse la strada a un’altra ancora più dolorosa, in un pozzo senza fondo di sofferenza che minacciava di inghiottirla completamente. Il dolore si alimentava da solo in un ciclo infinito, come un serpente che si morde la coda, senza possibilità apparente di trovare pace o sollievo.

“Ogni singola maledetta volta la stessa identica storia che si ripete all’infinito come un disco rotto!” singhiozzò Anna, la voce rotta dalla disperazione che le stringeva la gola. “Dice che sono io quella che scappa via, ma è lui che mi caccia via sistematicamente con i suoi comportamenti assurdi e incomprensibili! Con quei suoi modi cafoni e volgari da persona totalmente incivile, quella sua arroganza insopportabile che non conosce limiti né confini, quella prepotenza che cresce giorno dopo giorno come un cancro maligno!! Perché, perché continuo ostinatamente a mettermi sempre con uomini del genere che mi fanno solo soffrire? Cosa avrò mai fatto di così terribile nella vita per meritarmi questo tormento continuo, questa tortura senza fine?”

Nel buio più totale e opprimente della stanza, dove l’aria sembrava densa e pesante come piombo fuso, allungò la mano tremante per cercare a tentoni un fazzoletto di carta sul comodino. Le sue dita incontrarono la superficie liscia e fredda del mobile, vagando come piccoli esploratori ciechi alla ricerca di un appiglio. Finalmente trovò quello che cercava e si asciugò gli occhi gonfi e arrossati dal pianto incessante che sembrava non voler mai finire. Con un gesto carico di rabbia e disgusto buttò il fazzoletto umido a terra, dove andò ad unirsi agli altri già accumulati a formare un desolante tappeto bianco intriso di lacrime amare, dolore lancinante e delusioni infinite che sembravano non avere mai fine.

“Ogni dannata volta mi promette solennemente guardandomi dritto negli occhi che non succederà mai più,” proseguì tra i singhiozzi, la voce che si alzava e si abbassava come un’onda di marea, “ma invece eccomi qui di nuovo, a piangere da sola come una stupida nel mio letto freddo e vuoto, ad aspettare disperatamente un minimo segno che dimostri che non sono completamente invisibile e insignificante ai suoi occhi! E poi io, come al solito, come una perfetta idiota, lo implorerò disperatamente di tornare e lui si degnerà di venire qui, sempre e solo dopo estenuanti preghiere e suppliche infinite, e io, come una perfetta idiota senza un briciolo di dignità né amor proprio, accetterò ancora una volta le sue scuse vuote e false come monete di cioccolato! MI ODIO PROFONDAMENTE PER QUESTO, MI FACCIO SCHIFO, NON MI SOPPORTO PIÙ!”

Proruppe in una nuova serie di singhiozzi incontrollati che le squarciavano il petto come lame affilate, ogni respiro era un dolore acuto che le trafiggeva i polmoni. Si rintanò completamente sotto le coperte serrando gli occhi con forza, come una bambina che cerca di nascondersi dai mostri nell’armadio, cercando disperatamente di scomparire dal mondo e dalla sua stessa debolezza che la disgustava profondamente. Le lacrime continuavano a scorrere copiose sul suo viso arrossato, tracciando solchi umidi sulle guance già bagnate dal pianto precedente. Il suo corpo era scosso da tremiti violenti che non riusciva a controllare, come se fosse preda di una febbre altissima che la consumava dall’interno.

Nel silenzio della stanza, interrotto solo dai suoi singhiozzi soffocati, il dolore sembrava amplificarsi e rimbalzare contro le pareti come un’eco infinita. Ogni respiro affannoso, ogni gemito strozzato, ogni lacrima versata era un’accusa silenziosa contro se stessa e contro quella debolezza che la portava sempre a ricadere negli stessi errori, come un’attrazione fatale verso il dolore da cui non riusciva a liberarsi.

#cognitiva #hobby #malattia #realtà #sogni #terapia

2025-10-08

Il dolore nascosto. Dialoghi tra esperienze.

Centro delle donne, venerdì 21 novembre alle ore 17:30 CET

Il dolore nascosto. Dialoghi tra esperienze. 🧑🏽‍⚕️🧑‍⚕️🧑🏿‍⚕️
Professioniste dell'ambito medico-sanitario si confrontano con i racconti di donne che mettono a disposizione i loro vissuti:

📌Malattie invisibili: Silvana Borsari, medica, dialoga con Clara Anicito
📌 Parto: Ivana Arena, ostetrica, Associazione AMINa ODV dialoga con Caterina Zanfi
📌 Violenza di genere: Giada Zecchi, medica, dialoga con una operatrice della Casa delle Donne per non subire violenza di Bologna

Coordina Donatella Albini, medica

balotta.org/event/il-dolore-na

Il dolore nascosto. Dialoghi tra esperienze.
Domenike Famelikezamply.help@zamply.help
2025-10-03

Sliding Doors #2

Intanto a centinaia di km di distanza…

Hai telefonato al papà?” chiese Alice, schermandosi gli occhi dal sole accecante mentre cercava di mettere a fuoco la figura che si stagliava davanti a lei sulla spiaggia. L’aria salmastra le pizzicava le narici, mista all’odore dolce della crema solare che aveva spalmato generosamente sulla pelle arrossata. Era sdraiata sul telo mare ruvido, il calore della sabbia che filtrava attraverso il tessuto e le scaldava la schiena, quando Théo si era avvicinato, i capelli ancora gocciolanti dopo il bagno. Il ragazzo si passò distrattamente una mano tra i riccioli bagnati, spruzzando gocce fresche e scosse la testa con noncuranza.

“Non ancora, mamma. Adesso starà lavorando. E poi ho promesso a Lucas di andare in barca! Lo chiamo stasera quando sarà tornato a casa, te lo giuro!” rispose rapidamente, con un tono che tradiva una punta di esasperazione adolescenziale, già voltandosi per correre verso il mare cristallino. Il suono delle sue risate lontane si mescolava al fragore delle onde che si infrangevano sulla riva, portando con sé l’eco di gabbiani che stridevano alti nel cielo.

“Ehi, ricordagli di sistemare quella questione con l’avvocato, non voglio altri grattacapi!” gli urlò dietro Alice, la voce che si spezzava leggermente per lo sforzo di sovrastare il vento caldo che le scompigliava i capelli. Si girò verso la nonna seduta sotto l’ombrellone colorato, il tessuto frusciante che ondeggiava piano.

“Potrebbe costarci altri soldi oltre a quelli già spesi per la separazione, non possiamo permettercelo! Sai, mamma, quella causa è un incubo. Théo e suo padre hanno girato quel video stupido su TikTok, recensendo quel liquore – dicevano che era scarso, che era un utile ‘sturalavandini’. L’hanno mostrato mentre lo comparavano ad altri liquori con filmati del loro esperimento. Ora la società li accusa di diffamazione intenzionale, sostenendo che hanno danneggiato la loro reputazione e causato perdite di vendite. Potrebbero dover pagare danni per migliaia di euro se perdono, e l’avvocato ha già chiesto un anticipo per preparare la difesa. Come se non bastasse la separazione, con tutte le parcelle per la custodia condivisa!”

La nonna continuò a fissare l’orizzonte con sguardo assente, come faceva ormai da quando era rimasta vedova, il sapore amaro della solitudine che le rimaneva in bocca come un retrogusto di caffè freddo. Si accontentava della presenza di quel nipote meraviglioso che era rimasto in famiglia, per il resto mostrava totale indifferenza, il vento che le accarezzava la pelle rugosa e le portava l’odore di alghe secche dalla riva.

Infatti non aveva nemmeno ben compreso cosa avessero combinato Théo e suo padre per far arrabbiare così tanto Alice. Le sembravano entrambi così tranquilli ultimamente, e invece ora si parlava addirittura di avvocati! Mai in vita sua aveva dovuto avere a che fare con tribunali, con quelle aule fredde e impersonali che puzzavano di carta ingiallita e tensione repressa.

“Tesoro, ma cosa c’entra un liquore con tutto questo?” mormorò finalmente la nonna, la voce fragile come il guscio di una conchiglia, rompendo il silenzio con un sospiro che sapeva di rassegnazione. “Suo padre… era sempre così appassionato di tecnologia, vero? E Théo gli somiglia tanto, con quella curiosità che lo spinge a smontare tutto. Ma diffamazione… sembra una parola da film, non da vita reale.”

Era stata una mattina di inizio primavera quando Alice era entrata in casa come una furia, gli occhi sgranati dalla rabbia e dalla preoccupazione, il cuore che le martellava nel petto come un tamburo impazzito. Aveva raccontato che Théo e suo padre – “Uff, proprio lui! Il mio ex, il papà di Théo!” -aveva aggiunto con tono lamentoso, la voce tremante per l’esasperazione – loro due che negli ultimi tempi sembravano aver trovato una vera sintonia, condividendo hobby come liquori e cocktail e video editing, erano stati citati in giudizio da una società sconosciuta con l’accusa di aver diffamato uno dei loro prodotti in un video pubblicato sui social media.

Il video, un montaggio amatoriale girato nel bar del padre, mostrava il liquore assaggiato da Théo con commenti sarcastici su come il liquore fosse scarso e ricordava l’avanzo di un risciacquo di lavastoviglie. Come se non bastasse, dovevano presentarsi in tribunale davanti a un giudice, ovviamente assistiti da un avvocato. Un avvocato che costava, con tariffe orarie che facevano venire i brividi, e chi poteva prevedere l’esito della sentenza? La società chiedeva non solo la rimozione del video, ma anche un risarcimento per “danni morali e materiali”, sostenendo che il post aveva raggiunto migliaia di visualizzazioni e influenzato recensioni negative online. “Ma io non tirerò fuori un centesimo! Che imparino a vivere con le conseguenze delle loro imprudenze!” aveva concluso Alice scrollandosi di dosso la sabbia con gesti nervosi, le mani che tremavano leggermente per la frustrazione accumulata.

“Mamma, ti serve qualcosa? Un po’ d’acqua fresca? O magari quel libro che hai lasciato sul tavolino?” chiese Alice alla nonna, questa volta con un tono più gentile, sfiorandole la mano ossuta che sapeva di salsedine. Ma senza attendere risposta si alzò dal telo, la sabbia calda che le scivolava tra le dita dei piedi nudi, portando con sé il calore opprimente del sole. “Vado a fare due passi” aggiunse, incamminandosi lungo la battigia sotto il sole cocente di mezzogiorno, l’acqua fresca che le lambiva le caviglie con un tocco rinfrescante, contrastando il bruciore sulla pelle.

La nonna la seguì con lo sguardo finché non divenne un puntino lontano, poi tornò a fissare le onde che si infrangevano pigramente sulla riva, il loro ritmo ipnotico che le cullava i pensieri. Non riusciva proprio a capire come si fossero cacciati in quel pasticcio. Théo era sempre stato un bravo ragazzo, studioso e responsabile, con quel sorriso contagioso che illuminava la stanza e una passione per la ginnastica che lo rendeva così vivo. E suo padre, nonostante la separazione burrascosa, era un uomo assennato, uno chef con un debole per l’innovazione, che aveva insegnato al figlio a questionare il mondo.

Come avevano potuto essere così imprudenti da pubblicare quel video senza pensare alle conseguenze? “Giovani d’oggi, sempre con quei telefoni in mano,” borbottò tra sé la nonna, assaporando il sale sulle labbra portatole dalla brezza.

Sospirò, sistemandosi meglio sulla sdraio cigolante, il tessuto che le sfregava contro la schiena sudata. In fondo era inutile arrovellarsi tanto, ormai il danno era fatto – il video era stato visto da amici, follower casuali, e ora persino da avvocati in giacca e cravatta. Sperava solo che la faccenda si risolvesse presto e nel modo meno doloroso possibile, soprattutto per le loro tasche già provate dalla separazione, con bollette arretrate e risparmi erosi.

Si voltò a guardare il nipote che giocava spensierato tra le onde con l’amico Lucas, le loro voci allegre che echeggiavano sopra il rombo del mare, spruzzandosi acqua salata che scintillava al sole. Almeno lui sembrava non farsi troppi problemi, tipico degli adolescenti, con quella resilienza che gli permetteva di scrollarsi di dosso le preoccupazioni con la stessa facilità con cui si liberava dell’acqua salata dopo ogni tuffo, emergendo ridendo con i capelli appiccicati al viso.

Alice invece non faceva che rimuginarci sopra, come era nel suo carattere – una madre leonessa, sempre pronta a difendere il suo cucciolo, ma con un velo di ansia che le stringeva il petto come una morsa. La conosceva bene sua figlia, sapeva quanto potesse essere apprensiva e protettiva nei confronti di Théo, ricordando come da piccola piangesse per un graffio sul ginocchio del fratello. Probabilmente stava ancora camminando lungo la spiaggia, tormentandosi per quella situazione che le era totalmente sfuggita di mano, i piedi che affondavano nella sabbia umida, l’odore di salsedine che le impregnava i vestiti.

La nonna chiuse gli occhi, lasciando che il sole le scaldasse il viso, il calore che le penetrava nelle ossa stanche, portando un momentaneo sollievo. C’era poco da fare se non aspettare che il tempo facesse il suo corso, come sempre, con il suo flusso inesorabile come le maree, lasciando che il sole le scaldasse il viso. C’era poco da fare se non aspettare che il tempo facesse il suo corso, come sempre.

#cognitiva #cucina #hobby #malattia #realtà #terapia

Domenike Famelikezamply.help@zamply.help
2025-09-28

Sliding Doors #1

Premetto che non ho velleità da scrittore, semplicemente ho deciso di intraprendere un viaggio esplorativo attraverso la scrittura, in quello che potrei definire un esperimento quasi terapeutico. Un percorso introspettivo per analizzare quella sottilissima linea che può separare due destini completamente diversi, come lo sono stati i miei, e per dare voce ai pensieri che da tempo occupano la mia mente.

È comprensibile come, nel mio caso specifico, sia stato sufficiente un solo millimetro a fare la differenza. Letteralmente un millimetro ha rappresentato la distanza tra una realtà completamente opposta a quella che sto vivendo attualmente. Un millimetro che ha cambiato il corso della mia esistenza, ridefinendo completamente il mio percorso di vita e trasformando radicalmente la mia prospettiva sul mondo.

Come la differenza che intercorre tra il giorno e la notte, tra il candido bianco e il profondo nero, tra l’esistenza e il suo opposto. Come nel celebre film “Sliding Doors”, mi ritrovo spesso a immaginare e riflettere su come sarebbe potuta andare la mia vita se quel singolo, cruciale millimetro non fosse mai esistito. Quante volte mi sono trovato a contemplare i “se” e i “ma”, a visualizzare scenari alternativi, a ripercorrere mentalmente quel momento decisivo.

Inizio

Diciassette luglio duemilaventitre, 3.30 di mattina, fa ancora caldo anche dopo un bagno rinfrescante. Ho da poco finito di lavorare; l’aria è pesante e appiccicosa, rendendo difficile trovare sollievo persino dopo una doccia fredda. Il caldo opprimente di questa notte d’estate sembra amplificare ogni sensazione.

“Penso che dovrei cercare di asciugar…”

Buio.

Un silenzio ovattato avvolge il borgo come una coperta soffice e impalpabile. Le prime luci dell’alba si fanno strada timidamente tra le case antiche, dipingendo delicatamente di rosa e arancione i tetti rossi consumati dal tempo. Un gallo canta, la sua voce forte e chiara squarcia l’aria immobile, rompendo l’incantesimo del silenzio mattutino. È come un allarme naturale che risveglia gradualmente il paese dal suo torpore notturno.

Le prime a rispondere a questo richiamo sono le finestre delle case, che si aprono con cigolii familiari, rivelando volti ancora assonnati che si affacciano per respirare l’aria fresca e pulita del mattino, un rituale quotidiano che segna l’inizio di una nuova giornata. In piazza, i gatti randagi si stiracchiano pigramente al sole nascente, protagonisti indisturbati di questi primi momenti del giorno.

Il panettiere non tarderà ad arrivare, preceduto dal rumore caratteristico dei suoi cesti di pane che sbattono ritmicamente contro il selciato e dal profumo irresistibile del pane appena sfornato che si diffonde per le vie strette, risvegliando i sensi degli abitanti. Poco dopo, compare l’anziano di sempre, fedele alla sua routine, con il giornale stretto sotto il braccio, che si dirige verso la sua panchina di legno preferita, attendendo pazientemente l’apertura dell’edicola.

Le voci squillanti e allegre dei bambini che si dirigono a scuola iniziano a riempire le stradine acciottolate, accompagnate dalle raccomandazioni preoccupate delle mamme che li esortano a non fare tardi. Un’ape ronza dolcemente, posandosi con grazia su un fiore appena sbocciato – questa è la visione poetica; la realtà include già le prime mosche e zanzare fastidiose che tormentano i coraggiosi avventori mattutini.

La vita scorre con un ritmo lento e regolare, scandita da abitudini consolidate e tradizioni radicate nel tempo. È come un microcosmo che si risveglia gradualmente, preparandosi ad affrontare una nuova giornata con la sua routine familiare. Questo piccolo mondo sembra esistere in una bolla di vetro protettiva: possono accadere eventi straordinari nel mondo esterno, vicino o lontano che sia, ma gli abitanti sono troppo immersi nelle loro occupazioni quotidiane per prestare attenzione. La vita nel paese continua a seguire i suoi ritmi immutabili, come se fosse impermeabile ai cambiamenti esterni, quasi esistesse in una dimensione parallela rispetto al resto del mondo.

Le conversazioni quotidiane si intrecciano nelle vie: c’è chi si dirige in farmacia con urgenza, “sai, mio marito ha terminato le aspirine e con il mal di testa non può proprio stare”, chi fa la sua visita dal macellaio di fiducia, “ho finito le bistecche, ma già che ci sono prendo anche un pezzo di formaggio stagionato, quello che piace tanto ai bambini”, e chi semplicemente esce per socializzare, “perché in casa non so che fare e almeno qui incontro qualcuno”. Ogni scambio, ogni incontro contribuisce a tessere il ricco arazzo della vita comunitaria.

Quasi tutti si fermano al bar dell’angolo per il loro rituale mattutino: chi per un caffè fumante, chi per un succo rinfrescante, chi per una bibita fresca. È un momento sacro nella routine quotidiana, una pausa che nessuno osa saltare, un’occasione per scambiare quattro chiacchiere e iniziare la giornata con il piede giusto. Sono le 9:30, e gli sguardi sempre più insistenti verso la piazza tradiscono una crescente inquietudine: qualcosa non va nel solito ordine delle cose.

“Non hanno ancora aperto” osserva un uomo sulla sua bicicletta, indicando con un cenno del mento il bar mentre si asciuga il sudore dalla fronte con un fazzoletto a quadretti. “Ah ecco cosa manca! Il solito viavai al bar non c’è!” esclama qualcuno tra la folla che inizia a radunarsi. “Avranno fatto tardi ieri sera” suggerisce una signora con un sacchetto di pane ancora caldo tra le mani, il profumo invitante che si diffonde nell’aria mattutina. “Ho sentito dire che ieri hanno litigato di brutto e lei se n’è andata via furiosa a metà serata, lasciandolo solo.” I pettegolezzi, come sempre, non tardano a emergere. “Quindi dovrebbe aprire lui da solo?” chiede ironicamente un giovane, grattandosi la testa perplesso, prima di esprimere ad alta voce la preoccupazione che tutti condividono: “E noi dove andremo a bere il caffè?”.

Il movimento nel paese continua secondo il suo ritmo caratteristico: momenti di calma piatta si alternano a improvvisi picchi di attività, come un respiro naturale e costante. Le strade si animano e si svuotano seguendo una cadenza familiare, tipica della vita di provincia, dove il tempo sembra scorrere secondo regole tutte sue.

Un distinto signore in completo grigio, impeccabile nell’aspetto con una cartella di pelle sotto il braccio, si ferma davanti all’ingresso del bar ancora chiuso. Estrae il cellulare dalla tasca, compone un numero e attende pazientemente, scrutando l’ambiente circostante con un’aria professionale che mal cela una crescente impazienza.

“Ehi, Bistèk! Come te la passi?” lo interpella una donna dai capelli corti e biondi, il cui abbigliamento trasandato crea un contrasto netto con l’eleganza dell’uomo. “Non c’è male, e tu? Sempre a svuotare cantine?” risponde lui con un sorriso cordiale ma stanco, che tradisce una notte insonne.

“Sì, ma il lavoro scarseggia, le cantine da ripulire sono sempre meno!” replica sconsolata la donna, prima di aggiungere con genuina curiosità, scrutando l’uomo fermo davanti alla serranda abbassata: “cosa ci fai qui impalato come un palo della luce?”.

“È il mio giro settimanale per raccogliere ordini, ma oggi qui non concludo proprio niente,” risponde il rappresentante con un sospiro pesante, controllando nervosamente l’orologio mentre osserva il bar chiuso con crescente frustrazione. La sua figura elegante sembra fuori posto in questa mattinata di incertezza, la cartella di pelle stretta tra le mani come un’ancora di professionalità in un mare di dubbi.

“Di solito aprono sempre in tarda mattinata, anche se fanno tardi la sera prima. O almeno lasciano un avviso sulla porta. Dovresti saperlo ormai, dopo tutti questi anni di visite,” commenta la donna, studiando la serranda abbassata con lo sguardo di chi conosce bene le abitudini del posto. Il suo tono è quello di chi ha visto molte mattine come questa, ma qualcosa nella sua voce tradisce una nota di preoccupazione insolita.

“Devo andare, ho un altro appuntamento che mi aspetta,” conclude l’uomo con rassegnazione, avviandosi verso la sua berlina aziendale parcheggiata poco distante. La donna lo saluta con un cenno distratto della mano e riprende il suo cammino, trascinando una borsa logora piena di oggetti recuperati, persa nei suoi pensieri e nelle sue riflessioni silenziose.

Dall’altra parte del paese, una casa riposa nel silenzio più totale: finestre serrate, persiane chiuse, nessun segno di vita all’esterno. È una scena sempre più comune nelle piccole realtà di provincia negli ultimi tempi, dove l’esodo verso la città lascia dietro di sé un crescente numero di abitazioni vuote e silenziose, come gusci abbandonati di vite passate.

Ma quella casa particolare, dall’altra parte del paese, non è realmente vuota. È la sua casa. La casa di lei, con cui la sera precedente avevo avuto quella terribile discussione, prima che se ne andasse via, lasciandomi solo con i miei rimpianti. Mentre il paese si sveglia e i pettegolezzi sul bar chiuso si rincorrono per le strade, lei è ancora lì, immersa nel sonno, ignara del fermento che agita la comunità.

Il suo mondo scorre lento nel silenzio del riposo, mentre il mio è precipitato in un abisso di oscurità. E continuo a pensare a quel millimetro, quella minuscola distanza che ci ha separato dopo il litigio. Il millimetro che l’ha portata a rifugiarsi nella sua casa, mentre io mi ritrovo a vivere in una realtà parallela. Due universi separati da una linea invisibile che, per ora, solo io posso vedere e comprendere.

#cognitiva #hobby #malattia #racconti #realtà #sogni #terapia

Domenike Famelikezamply.help@zamply.help
2025-09-07

Vita e Creazione: Un Metaragionamento Fantastico #2

“Dici che un tempo non lineare supererebbe il paradosso, spiega meglio questa possibilità”.

Con questa domanda avevo lasciato in sospeso il proseguo del discorso, che mostro adesso:

Quando parlo di “tempo non lineare” in relazione alla possibilità che la vita abbia dato origine al Big Bang, mi riferisco a un concetto che sfida la nostra comprensione convenzionale del tempo come una sequenza lineare di eventi (passato → presente → futuro). Cercherò di spiegarti in modo chiaro e sintetico cosa significa e come si collega alla tua domanda.

Cosa significa “tempo non lineare”?

Nella nostra esperienza quotidiana e nella fisica classica, il tempo è lineare: scorre in una direzione, con una chiara distinzione tra causa ed effetto. Il Big Bang segna l’inizio del tempo nel nostro universo, quindi qualsiasi evento, inclusa l’esistenza della vita, avviene dopo di esso. Tuttavia, in contesti speculativi o teorici, il tempo potrebbe non seguire questa struttura lineare. Ecco alcune possibilità:

Tempo ciclico:

In alcuni modelli cosmologici (es. universi ciclici o teorie di “rimbalzo cosmico“), il tempo non ha un inizio o una fine definiti, ma si ripete in cicli di espansione e contrazione. In un tale scenario, la vita in un ciclo precedente potrebbe teoricamente influenzare l’inizio di un nuovo ciclo (un nuovo Big Bang). Tuttavia, non ci sono prove empiriche di questi cicli, e la vita come la conosciamo non sopravvivrebbe al collasso di un universo.

Causalità retroattiva:

In alcune interpretazioni della meccanica quantistica, come l’ipotesi del “principio antropico partecipativo” di John Wheeler, la coscienza o gli osservatori potrebbero avere un ruolo nel “determinare” retroattivamente le condizioni dell’universo. Questo implica che il tempo non sia strettamente lineare: eventi futuri (es. l’emergere della vita) potrebbero influenzare il passato (es. le condizioni del Big Bang). È un’idea speculativa, non verificata, che suggerisce una sorta di “collasso” delle possibilità quantistiche guidato dalla coscienza.

Tempo multidimensionale o atemporale:

In alcune teorie speculative, come quelle della fisica teorica avanzata o della cosmologia del multiverso, il tempo potrebbe non essere unidimensionale. Potrebbero esistere “dimensioni temporali” multiple o un contesto “atemporale” (senza tempo) in cui entità coscienti o processi causali operano al di fuori delle nostre leggi fisiche. In un tale scenario, la vita (o una forma di coscienza) potrebbe esistere in un dominio “esterno” all’universo e influenzare la sua creazione senza essere vincolata al tempo lineare del nostro universo.

Prospettive filosofiche/metafisiche:

In ambiti non scientifici, come la metafisica o alcune tradizioni religiose, si può immaginare una “coscienza cosmica” o un’entità che esiste al di fuori del tempo e dello spazio. Questa entità potrebbe aver “progettato” o causato il Big Bang per consentire l’emergere della vita, senza essere soggetta alla linearità temporale. Questo, però, non è verificabile scientificamente.

Come si collega alla tua domanda? Se ipotizziamo che la vita abbia dato origine al Big Bang per emergere, il tempo lineare crea un paradosso: la vita non può esistere prima del Big Bang per causarlo, perché il Big Bang crea le condizioni per la vita. Un tempo non lineare risolve questo paradosso permettendo che:

La vita in un ciclo cosmico precedente influenzi un nuovo Big Bang. La coscienza futura influisca retroattivamente sulle condizioni iniziali dell’universo. Un’entità atemporale (es. una coscienza cosmica) operi al di fuori del nostro tempo per creare l’universo.

Limiti

Queste idee sono speculative. La scienza attuale si basa su osservazioni che supportano un tempo lineare iniziato con il Big Bang. Non abbiamo prove di cicli cosmici, causalità retroattiva o entità atemporali. Pertanto, il tempo non lineare rimane un’ipotesi teorica o filosofica, utile per esplorare possibilità ma non verificata.

Risposta sintetica

Per “tempo non lineare” intendo un concetto in cui il tempo non scorre in una sequenza lineare (passato → futuro), ma potrebbe essere ciclico, multidimensionale o atemporale. Questo permetterebbe teoricamente alla vita (o a una coscienza) di influenzare il Big Bang senza precederlo in senso cronologico, risolvendo il paradosso causale. Tuttavia, queste sono ipotesi speculative, non supportate da prove scientifiche attuali.

“E se intendessimo la vita come una sorta di DNA con tutte le informazioni dentro la singolarità del big bang?”

Cos’è la singolarità del Big Bang?

La singolarità iniziale è un punto teorico di densità e temperatura infinite, dove spazio, tempo e materia si concentrano in un “punto zero”. Secondo la relatività generale, qui le leggi fisiche note collassano, e tutta l’informazione sull’universo futuro è in qualche modo “contenuta” o determinata dalle condizioni iniziali. In meccanica quantistica, però, questa singolarità potrebbe non essere un punto vero e proprio, ma un regime di fluttuazioni quantistiche (come nella cosmologia quantistica o nelle teorie della gravità quantistica, es. loop quantum gravity).

La vita come “DNA” nella singolarità

Se interpretiamo la vita come una sorta di “DNA cosmico” – un codice informativo incorporato nella singolarità che contiene le “istruzioni” per l’emergere della vita – stiamo essenzialmente ipotizzando che:

Le informazioni per la vita siano pre-codificate:

Le costanti fisiche dell’universo (es. costante di struttura fine, massa degli elettroni, forza gravitazionale) sono “tarate” in modo preciso per permettere la formazione di atomi, molecole e, infine, vita biologica.

Questo è legato al principio antropico forte:

l’universo sembra “fine-tuned” per la vita, come se le sue regole iniziali contenessero un “progetto” implicito. Senza queste esatte condizioni, non avremmo stelle, pianeti o chimica complessa.

Analogia con il DNA:

Il DNA biologico è un codice che guida lo sviluppo della vita da un seme iniziale (lo zigote). Similmente, la singolarità potrebbe contenere “informazioni quantistiche” – fluttuazioni nel vuoto quantistico – che si evolvono deterministicamente (o probabilisticamente) in strutture complesse, inclusa la vita.

In teorie come il principio olografico (ispirato ai buchi neri), l’informazione dell’universo è codificata sulla sua “superficie” o nelle condizioni iniziali, e tutto ciò che segue è una “decodifica” di quel codice.

Possibilità scientifiche e speculative

Supporto teorico:

Conservazione dell’informazione: In fisica, l’informazione non si perde (paradosso dell’informazione dei buchi neri, risolto in parte da Hawking e altri). Se la singolarità contiene tutta l’informazione, potrebbe includere le “regole” per l’emergere della vita, non come un DNA letterale, ma come probabilità quantistiche che favoriscono complessità biologica.

Inflazione cosmica:

Durante l’inflazione (fase di espansione rapidissima post-Big Bang), piccole fluttuazioni quantistiche si amplificano, formando le galassie e, indirettamente, le condizioni per la vita. Queste fluttuazioni potrebbero essere viste come “semi informativi” nella singolarità.

Multiverso:

In un multiverso infinito, solo universi con “codici” favorevoli alla vita emergono e vengono “osservati” da esseri coscienti (selezione antropica). Il nostro universo potrebbe essere uno in cui il “DNA cosmico” ha funzionato.

Limiti e obiezioni:

Non è un DNA biologico:

La singolarità non contiene molecole organiche o codice genetico vero e proprio; è un regime di energia pura. La vita emerge miliardi di anni dopo, attraverso processi evolutivi (abiogenesi, evoluzione darwiniana), non come un “programma” pre-installato.

Causalità e complessità:

Anche se le condizioni iniziali sono “tarate”, l’emergere della vita richiede caos, entropia e selezione naturale. Non c’è evidenza che la singolarità contenga informazioni specifiche per la vita; potrebbe essere solo un caso fortunato.

Problema del “progetto”:

Questa idea rischia di sfociare nel “disegno intelligente” o in visioni teleologiche, che la scienza evita perché non testabili. Alternative come la teoria delle stringhe suggeriscono che le costanti fisiche varino casualmente in diversi universi.

Ipotesi estreme:

Universo come simulazione: Alcuni (es. Nick Bostrom) ipotizzano che l’universo sia una simulazione computazionale, con il Big Bang come “avvio del programma”. In questo caso, il “DNA” sarebbe il codice sorgente incorporato nella singolarità.

Coscienza quantistica:

Teorie come quella di Roger Penrose e Stuart Hameroff suggeriscono che la coscienza emerga da processi quantistici microtubolari nel cervello, collegati forse alle fluttuazioni quantistiche iniziali. Qui, la “vita cosciente” potrebbe essere intrecciata con l’informazione cosmica fin dall’inizio.

Risposta sintetica

Sì, è una metafora affascinante: la singolarità del Big Bang potrebbe contenere un “DNA cosmico” sotto forma di informazioni quantistiche e costanti fisiche che “guidano” l’universo verso la complessità e la vita, come nel principio antropico.

Tuttavia, scientificamente, questo è speculativo – non c’è un codice biologico letterale, ma piuttosto condizioni iniziali che rendono possibile l’emergere della vita attraverso processi naturali. Non risolve il paradosso causale, ma suggerisce che la vita sia “incorporata” nel tessuto dell’universo fin dal principio.

E poi scopro che un blog che seguo ha eviscerato meglio (molto meglio) della AI l’argomento, se volete approfondire lascio il link: https://gaetaniumberto.wordpress.com/2021/11/22/luniverso-ha-un-fine-tuned-per-la-vita/

Conclusione sull’origine della vita e il Big Bang

L’ipotesi che la vita, intesa come un “DNA cosmico” o un insieme di informazioni codificate nella singolarità del Big Bang, possa aver avuto un ruolo nella genesi dell’universo è affascinante ma altamente speculativa.

Scientificamente, la singolarità rappresenta il punto d’origine di spazio, tempo, materia ed energia, e le sue condizioni iniziali – fluttuazioni quantistiche e costanti fisiche finemente regolate – sembrano aver favorito l’emergere della vita miliardi di anni dopo, attraverso processi naturali come l’abiogenesi e l’evoluzione. Questo suggerisce che l’universo potrebbe essere intrinsecamente predisposto alla vita, come ipotizzato dal principio antropico, senza però implicare che la vita stessa abbia causato il Big Bang. Idee come il tempo non lineare, il multiverso o un “codice cosmico” offrono prospettive teoriche per superare i paradossi causali, ma rimangono al di fuori della verifica empirica attuale.

In definitiva, la vita appare come un prodotto straordinario delle leggi universali, forse già “iscritto” come possibilità nella struttura iniziale del cosmo, ma la sua origine resta un mistero che intreccia scienza, filosofia e immaginazione.

Ciao.

#astronomia #cognitiva #hobby #malattia #realtà #sogni

Domenike Famelikezamply.help@zamply.help
2025-08-24

Un Viaggio di Recupero

Questo mese è ricco di avvenimenti, ma andiamo con ordine.

La prima settimana l’ho passata al lago. Grazie ad amici di Silvi – non certo per merito mio – sono stato al lago dove ho provato a entrare in piscina. È andato tutto bene, e soprattutto ho superato la difficoltà di uscire dall’acqua con la scaletta.

Appena qualche giorno dopo, una visita di controllo ha certificato che la cura aveva dato i suoi effetti benefici, e che ero pronto per il tentativo di rimozione del catetere. L’appuntamento era fissato per la settimana successiva.

Dopo una mattinata trascorsa in corsia, il dottore mi ha confermato che era tutto a posto e che potevo andare a casa.

A casa, finalmente libero da quel tubicino che mi impediva di sedermi, andare in bagno, farmi il bidet e dormire come avrei voluto.

Rivestirsi era un problema. Non è semplice tirarsi su i pantaloni con un tubo che esce dall’uretra, a volte attaccato a un sacchetto che si appoggiava a terra.

Fare la doccia comportava togliere il catetere prima di entrare, stando attento a farlo sopra il bidet, perché usciva sempre un po’ di urina, e rimettere il sacchetto dopo. Un sacchetto nuovo, ovviamente, quindi dovevo ricordarmi di portarlo in bagno dopo aver tolto il gancio di plastica che serviva ad attaccarlo ai pantaloni e non farlo strisciare per terra quando camminavo.

Il sacchetto, su tale gancio, doveva poi essere assicurato con dello scotch per evitare che con i movimenti si staccasse e cadesse. Se fosse stato vuoto, nessun problema. Se, al contrario, fosse stato pieno, cadendo sul pavimento avrebbe dato un bello strattone all’uretra.

Questo, e altro che non dico per decenza, riguarda solo i momenti in bagno. Praticamente metà della giornata trascorreva con la mano nei pantaloni per aggiustare il tubo nelle mutande, e l’altra metà con il tubo che dava fastidio perché non era a posto.

Molti potrebbero pensare (e anch’io lo pensavo) che avere il catetere risparmiasse almeno le corse in bagno per la minzione. Niente di più sbagliato. Lo stimolo arriva, e devi letteralmente correre in bagno, altrimenti l’urina, per la pressione, esce di fianco al tubo e ti bagni inesorabilmente se non riesci a raggiungere il bagno in tempo.

Quindi dovevo programmare quando andare in bagno: appena c’era il minimo accenno allo stimolo, andare in bagno, svestirsi – perché avevi il tubo, non potevi stare in piedi, e così via – e aspettare che passasse tutto.

Tutto sommato, ho passato tredici mesi così. E, non dimentichiamolo, da fare con una mano sola.

Quello stesso giorno, diluviava e perdo il telefono. Ma questa è un’altra storia.

#hobby #malattia #realtà #sogni #terapia

#Sonno e rischio di #malattia: nuove prove dai dispositivi indossabili Uno studio massiccio della Biobanca del Regno Unito (88.461 persone) ha rilevato che un sonno oggettivamente scarso (in particolare i ritmi disturbati) è collegato a 172 malattie, tra cui diabete, Parkinson e malattie del fegato.

RE: https://bsky.app/profile/did:plc:sgzwcbgta3lha4gmnwvkgvbb/post/3lvahxwa6zc2a

2025-05-16

La mia fuga alcolica (My Lesbian Experience with Loneliness #4) di Kabi Nagata

CW: abuso di alcol

Descrizione: Anche dopo il successo, la vita di Kabi Nagata non è certo diventata più facile, e ai suoi problemi si aggiunge un devastante blocco creativo. Così si ritrova a bere sempre di più, fino a dover essere ricoverata d’urgenza per una pancreatite alcolica e non solo. Ricordando i giorni in ospedale e la convalescenza, e cercando di adattarsi alla sua nuova condizione, questa giovane e sincera autrice torna a raccontarsi.

Come ci ha abituato nei suoi precedenti lavori, Nagata è molto onesta e a questo giro, oltre che affrontare la pancreatite dovuta all’abuso di alcol e il conseguente ricovero, deve affrontare le conseguenze di aver pubblicato due memoir che hanno ferito la sua famiglia. Nagata non vuole aggiungere altro senso di colpa a quello che già prova e quindi decide di non scrivere più memoir, ma di buttarsi nelle opere di narrativa.

Niente di male in questo, ovviamente: ogni autorə ha il diritto di scrivere quello che lə sembra più congeniale. Il problema di Nagata è che questa decisione non sembra il frutto di una libera scelta, ma un imperativo dettato dalla paura del giudizio altrui, sia quello della sua famiglia, sia quello deə lettorə. Sembra che moltə abbiano pensato che tutte le cose spiacevoli che sono accadute a Nagata se le sia meritate in virtù del suo comportamento sbagliato e che il suo successo sia immeritato perché frutto del suo piangersi addosso. Una dinamica che negli ultimi tempi di Internet ci è diventata tristemente familiare e che dovremmo dare il nostro piccolo contributo a ridurre. Per un ambiente digitale più pulito.

Vogliamo leggere bei libri, no? Com’è possibile farlo se chi li scrive non si sente a suo agio a pubblicare la storia che ha in testa? Di sicuro non sono qui a ergermi a giudice supremo perché sono la prima a essersi divertita a scrivere recensioni cattive in passato: anche se non credo di essere mai andata sul personale, con l’accumulare esperienza di blogger mi sono resa conto che sono la strada facile. È molto facile essere cattivə con un libro che non ci è piaciuto invece che pensare a delle critiche costruttive: ma questo non aumenta le possibilità di leggere un buon libro perché non mette in circolo nessuna buona indicazione su come si scrive un libro interessante.

Sono tanto felice che alla fine Nagata abbia ritrovato la sua salute e la sua determinazione nello scrivere memoir con l’aggiunta della scoperta di poter scrivere narrativa sulla base di tematiche che le stanno a cuore e che le facciano venire voglia di disegnare. Quindi, alla prossima, cara Nagata! Non vedo l’ora di leggere altri tuoi lavori!

#autobiografia #malattia #manga #memoir #nonFiction #nonfictionGrafica #saluteMentale #seinen

Etichetta della categoria recensioni: raffigura una libreria con un filtro arcobaleno e la scritta Recensioni.DivisoreValutazione del libro: cinque stelline gialle
Domenike Famelikezamply.help@zamply.help
2025-05-09

La Storia della Fumata durante il Conclave

Per la prima volta , solo dopo il film in bianco e nero di Andy Warhol sull’Empire State Building ( 8 ore di immagine statica sul grattacielo), ho assistito ad una analoga esperienza. In TV, non in una sala cinematografica e insieme a più di un miliardo di persone.

Allora una domanda da spettatore me la sono fatta:

perchè il comignolo della fumata per il nuovo Papa è così minimalista?

La tradizione della fumata, il segnale di fumo bianco o nero emesso dal comignolo della Cappella Sistina durante il Conclave per annunciare l’esito delle votazioni per l’elezione del Papa, è una pratica relativamente recente nella storia della Chiesa cattolica, ma profondamente radicata nel simbolismo e nella necessità di comunicare con il mondo esterno. Di seguito, la storia della fumata, le sue origini, la sua evoluzione e i dettagli chiave.

Origini della fumata

La fumata come segnale ufficiale durante il Conclave è documentata con certezza solo a partire dal XIX secolo, anche se pratiche simili potrebbero essere esistite in precedenza in forme meno codificate. Prima dell’Ottocento, i Conclavi si tenevano in contesti più locali, spesso senza la necessità di segnali pubblici immediati, poiché l’elezione del Papa era annunciata direttamente dai cardinali o tramite messaggeri. Tuttavia, con l’aumento dell’interesse pubblico e la centralizzazione dei Conclavi in Vaticano, emerse la necessità di un sistema visivo chiaro per comunicare con la folla riunita e con il mondo.

  • Prime tracce: Non esistono documenti precisi che attestino l’uso della fumata prima del 1800. Alcuni storici ipotizzano che segnali di fumo fossero usati in modo informale, come parte di pratiche comuni per comunicare eventi importanti (ad esempio, bruciare documenti o materiali per segnalare la fine di un processo). Tuttavia, il Conclave del 1800, che elesse Papa Pio VII, è uno dei primi in cui si fa riferimento a una forma di segnale visivo, anche se non ancora standardizzata.
  • Codificazione nel XIX secolo: La fumata divenne una prassi consolidata durante il Conclave del 1829 (elezione di Pio VIII) o del 1831 (elezione di Gregorio XVI). In quel periodo, si stabilì l’usanza di bruciare le schede delle votazioni alla fine di ogni scrutinio, producendo fumo visibile attraverso il comignolo della Cappella Sistina. Il fumo serviva a segnalare se l’elezione era avvenuta o meno:
    • Fumo nero (fumata nera): indicava che nessun candidato aveva raggiunto la maggioranza dei due terzi richiesta, e il Conclave continuava.
    • Fumo bianco (fumata bianca): annunciava l’elezione del nuovo Papa, seguita dall’annuncio ufficiale “Habemus Papam”.

Il sistema si basava su una tecnica semplice: le schede elettorali, scritte a mano dai cardinali, venivano bruciate in una stufa. Per ottenere il fumo nero, si aggiungeva paglia umida o sostanze chimiche (come pece), mentre per il fumo bianco si usava paglia secca o si lasciavano bruciare solo le schede, producendo un fumo più chiaro.

Evoluzione della fumata

La fumata, pur semplice in teoria, si rivelò spesso problematica nei primi decenni, poiché il colore del fumo poteva risultare ambiguo (grigio o indefinito), causando confusione tra la folla e i media. Questo portò a perfezionamenti tecnici e procedurali nel corso del XX e XXI secolo.

  1. Primi problemi di chiarezza:
    • Durante il Conclave del 1903 (elezione di Pio X), il fumo fu spesso difficile da interpretare, con resoconti di folle incerte sul risultato.
    • Nel 1958 (elezione di Giovanni XXIII), la fumata bianca apparve inizialmente grigiastra, creando confusione. Radio Vaticana annunciò erroneamente l’elezione prima della conferma ufficiale, e la folla in Piazza San Pietro rimase disorientata fino all’Habemus Papam.
    • Anche nel 1978, durante il primo Conclave (elezione di Giovanni Paolo I), il fumo fu ambiguo, e il secondo Conclave (elezione di Giovanni Paolo II) vide ulteriori difficoltà nel distinguere chiaramente il colore.
  2. Innovazioni tecnologiche:
    • Stufa in ghisa (1939): A partire dal Conclave del 1939 (elezione di Pio XII), fu introdotta una stufa in ghisa, ancora in uso, progettata specificamente per bruciare le schede in modo controllato. Questa stufa, collocata nella Cappella Sistina, divenne parte integrante del rituale.
    • Fumogeni chimici (2005): Dopo secoli di fumate ambigue, il Vaticano modernizzò il sistema per il Conclave del 2005 (elezione di Benedetto XVI). Fu aggiunta una seconda stufa ausiliaria, collegata alla stufa storica tramite un condotto in rame. Questa stufa utilizza cartucce di fumogeni chimici per garantire un colore inequivocabile:
      • Fumo nero: ottenuto con una miscela di clorato di potassio, antracene e zolfo.
      • Fumo bianco: prodotto con clorato di potassio, lattosio e colofonia (resina di pino).
    • Ventilazione e riscaldamento: Il comignolo, installato temporaneamente dai vigili del fuoco vaticani, è dotato di resistenze elettriche per riscaldare il condotto e di un ventilatore per migliorare il tiraggio, assicurando che il fumo sia visibile anche in condizioni atmosferiche avverse.
  3. Campane come rinforzo:
    • A partire dal 2005, per eliminare ogni dubbio, il Vaticano decise di accompagnare la fumata bianca con il suono delle campane di San Pietro, che iniziano a suonare circa 15-20 minuti dopo la fumata per confermare l’elezione. Questo accorgimento fu introdotto dopo le difficoltà del passato e si è rivelato efficace, come visto nei Conclavi del 2005 e del 2013 (elezione di Francesco).

Significato simbolico

La fumata non è solo un segnale pratico, ma ha assunto un profondo significato simbolico:

  • Fumo nero: rappresenta la continuità del discernimento, l’attesa e la preghiera dei cardinali per trovare il successore di Pietro.
  • Fumo bianco: simboleggia la gioia dell’elezione, l’unità della Chiesa e l’azione dello Spirito Santo nella scelta del nuovo Papa.
  • La semplicità del comignolo e del sistema riflette l’umiltà della Chiesa, mentre la visibilità globale del fumo sottolinea l’universalità del messaggio.

Curiosità e aneddoti

  • Il gabbiano del 2013: Durante il Conclave del 2013, un gabbiano che si posò sul comignolo divenne virale, trasformando il semplice tubo in un’icona mediatica. L’immagine del volatile in attesa, come la folla, aggiunse un tocco di poesia al rituale.
  • Comignolo temporaneo: Il comignolo è installato solo per il Conclave e smontato subito dopo. È un tubo metallico lungo circa 2,7 metri, progettato per essere funzionale e discreto, in contrasto con la magnificenza della Cappella Sistina.
  • Ingredienti segreti: Prima del 2005, la ricetta esatta per il fumo nero e bianco era tenuta segreta, affidata al maestro delle cerimonie pontificie. Anche oggi, i dettagli tecnici sono gestiti con discrezione, ma le sostanze chimiche sono state rese note per trasparenza.
  • Fumata “grigia” famosa: Nel 1958, la fumata per Giovanni XXIII fu così ambigua che i media internazionali riportarono notizie contraddittorie. Questo episodio spinse il Vaticano a cercare soluzioni più affidabili.

La fumata oggi

Oggi, la fumata è uno degli eventi più seguiti al mondo, trasmesso in diretta da televisioni e piattaforme digitali. Durante il Conclave, le fumate avvengono due volte al giorno (mattina e pomeriggio), dopo ogni sessione di due scrutini, fino all’elezione del Papa. Il sistema moderno, con stufe doppie e fumogeni, ha reso il segnale molto più chiaro, anche se l’attesa e l’emozione della folla in Piazza San Pietro restano immutate.

La fumata è diventata un simbolo universale di speranza, attesa e rinnovamento, unendo tradizione secolare e tecnologia moderna. La sua storia riflette l’adattamento della Chiesa ai cambiamenti del tempo, mantenendo però intatta la solennità e il mistero del Conclave.

continuità e rinnovamento nella Chiesa cattolica. Dalle prime fumate ambigue, ottenute con paglia e schede bruciate, al sistema moderno con stufe in ghisa e fumogeni chimici introdotto nel 2005, la fumata nera e bianca ha accompagnato l’elezione di Papi in momenti cruciali della storia. Il comignolo minimalista della Cappella Sistina, con il suo fumo che cattura l’attenzione del mondo, rappresenta l’umiltà e l’universalità del messaggio della Chiesa, unendo tradizione, funzionalità e simbolismo. Dalle difficoltà di interpretazione del passato, come le fumate grigiastre del 1958, alle campane di San Pietro che oggi confermano la fumata bianca, questo rituale è diventato un’icona globale di attesa e speranza.

Anche se sarà l’ultimo Papa che vedrò.

#malattia #realtà #sogni #terapia

Domenike Famelikezamply.help@zamply.help
2025-04-25

“Pesto genovese: la storia profumata del basilico ligure”

Scopri le radici medievali del pesto, il ruolo del mortaio e come la Liguria ha dato vita a uno dei condimenti più amati al mondo.

Un Antico “Pesto” Ante Litteram

Dobbiamo fare un piccolo salto indietro nel tempo, prima che il basilico diventasse l’indiscusso protagonista. Nel Medioevo ligure, e più in generale nell’area mediterranea, esistevano salse tritate a base di erbe aromatiche, aglio e formaggio, spesso arricchite con frutta secca come le noci o le mandorle. Queste preparazioni, pestate rigorosamente nel mortaio, avevano lo scopo di conservare i sapori freschi delle erbe e insaporire piatti semplici a base di cereali o verdure.

Un esempio interessante è l’agliata, una salsa a base di aglio, olio e pane ammollato, già diffusa in epoca romana e ancora presente nella nostra cucina tradizionale. Sebbene diversa dal pesto moderno, condivideva con esso la tecnica della triturazione nel mortaio e l’utilizzo di ingredienti “poveri” ma ricchi di sapore.

A proposito di aglio amato e odiato allo stesso tempo, mi ero accorto che il rifiuto a priori era generalmente un preconcetto. Una lavorazione preliminare dell’aglio evita le controindicazioni e “ritorni” maleodoranti.

Con la tecnica dello sbianchire” l’aglio non si sbaglia un colpo.

Bisogna lessare l’aglio immergendolo in acqua fredda per poi portarla a bollore, almeno per sette volte di seguito e cambiando l’acqua ogni volta.

Allunga molto i tempi di preparazione ed i puristi amano il sapore pungente dello spicchio d’aglio ma in questo modo evitate conseguenze spiacevoli.

Per avvalorare ulteriormente la tecnica basta pensare che questi spicchi lessati assomigliano a grosse noci di Macadamia e immergerle per metà nel cioccolato fuso crea un goloso intermezzo dove l’aglio è irriconoscibile.

Oppure cuocerlo in forno con tutto l’involucro, si ottiene una volta pulito e frullato, una salsa come si accennava all’inizio.

Proseguiamo con l’ingrediente principale:

il basilico. ( vi dovete mettere il cuore in pace, il profumo e il sapore del basilico cambiano in base al luogo in cui lo lavorate. Non pensate di comprare il basilico in Liguria e lavorarlo in un’altra parte dell’Italia. Non sarà mai come quello lavorato in Liguria).

Dalle navi di Colombo alle astronavi: il pesto conquista il mondo.

Nel XV secolo, i marinai liguri portavano barattoli di terracotta pieni di pesto nelle stive: l’olio fungeva da conservante naturale, mentre l’aglio combatteva lo scorbuto. Si dice che anche Cristoforo Colombo, genovese doc, ne avesse una scorta durante il viaggio verso le Americhe. Ma la svolta arrivò nel 1863, quando il gastronomo Giovanni Battista Ratto pubblicò la prima ricetta ufficiale nel libro “La Cuciniera Genovese”, sostituendo il formaggio locale con il Parmigiano, più accessibile. Da lì, il pesto varcò le Alpi, ispirando salse francesi e diventando, nel ‘900, simbolo della cucina italiana all’estero.

La Liguria: Culla di un Condimento Mondiale

È proprio in questa terra stretta tra mare e monti, ricca di profumi intensi e di una cultura culinaria semplice ma sapiente, che il pesto ha trovato la sua forma definitiva. L’abbondanza di basilico (“u baxaicò” in dialetto genovese), le olive taggiasche che regalano un olio extravergine delicato, i pinoli delle pinete costiere, l’aglio di Vessalico dal sapore inconfondibile e i pregiati formaggi pecorino sardo e parmigiano reggiano si sono incontrati nel mortaio per dare vita a una sinfonia di sapori unica.

La prima vera codifica della ricetta del pesto genovese come la conosciamo oggi risale all’Ottocento, ma è indubbio che le sue radici affondino in preparazioni più antiche, testimoni della sapienza contadina ligure nell’utilizzare al meglio i doni della sua terra.

Oggi, il pesto è un ambasciatore della Liguria nel mondo, un condimento amato e reinterpretato in mille modi, ma che conserva nel suo cuore l’eco dei gesti lenti e sapienti della sua preparazione tradizionale nel mortaio. Un piccolo assaggio di storia e di passione che rende ogni piatto un’esperienza unica.

Il Medioevo in un mortaio:

erbe, monasteri e il potere della conservazione Nel XII secolo, la Liguria era un crocevia di monaci contemplativi e marinai temerari. Nei chiostri, i religiosi coltivavano basilico – erba simbolo di amore e prosperità – insieme a salvia e rosmarino, sperimentando miscele per infusi e unguenti. Intanto, i navigatori genovesi, in cerca di cibi che resistessero ai lunghi viaggi, univano ingredienti locali come pinoli (preziosi per il loro apporto energetico) e formaggio stagionato, conservandoli sotto strati di olio d’oliva. Fu l’incontro di questi due mondi a dare vita a una primitiva forma di pesto: una crema di erbe pestate nel mortaio di marmo, arricchita con aglio e sale, che i marinai portavano nelle loro spedizioni per insaporire zuppe e gallette.

L’arte del mortaio: perché solo il marmo (e la pazienza) fanno la differenza. La scelta del mortaio non è casuale: quello tradizionale ligure, in marmo di Carrara, mantiene una temperatura fresca che preserva gli aromi del basilico, evitando l’ossidazione. La tecnica di pestatura è un rituale codificato:

Aglio e pinoli per primi, per creare una base cremosa.

Foglie di basilico strappate a mano (mai tagliate con il coltello, per non ossidarle), aggiunte gradualmente.

Formaggio Pecorino e Parmigiano, legati dall’olio extravergine ligure dal sapore fruttato.

Un processo lento che, ancora oggi, separa il pesto autentico dalle imitazioni industriali. Curiosità: nel 2007, il pesto genovese è diventato Denominazione Comunitaria, con regole ferree: solo basilico DOP della Liguria, pinoli mediterranei e olio della Riviera.

Pesto ieri e oggi: tra puristi e rivoluzioni Oggi il pesto divide puristi e innovatori: c’è chi usa il frullatore (peccato capitale per i tradizionalisti) e chi aggiunge spinaci o avocado. Eppure, in Liguria resistono rituali immutati:

La Festa del Pesto a Genova, dove centinaia di partecipanti pestano a ritmo di musica.

Il “Pesto World Championship”, competizione internazionale che celebra l’arte del mortaio.

(anche qui un consiglio per chi utilizza il frullatore: usate foglie intere non tagliarle mai, mettete la caraffa delle lame nel freezer per mezz’ora, prima di utilizzarla e a metà “frullata” buttare una manciata di cubetti di ghiaccio nella caraffa. Evitate l’ossidazione e il pesto resterà di un bel verde brillante)

E mentre i food blogger lo abbinano a sushi e poke bowl, i genovesi restano fedeli alle trofie, pasta arrotolata che trattiene ogni goccia di salsa.

Perché il pesto è più di una salsa. È un codice genetico gastronomico: in ogni foglia di basilico c’è il sole della Liguria, in ogni goccia d’olio il sudore dei contadini, in ogni pestata la memoria di monaci e naviganti. Una ricetta nata per caso, diventata poesia.

La mia spassionata opinione è che il pesto fatto in casa è assolutamente più buono del migliore pesto già confezionato. Non c’è paragone, sia che usiate aglio coltivato in Liguria o nel vostro orto. Il profumo del pesto fatto in casa è un’altra cosa.

Dulcis in fundo, prendete una bottiglia di alcool per alimenti, immergetevi cento foglie intere di basilico. Coprite la bottiglia per non fare filtrare la luce e lasciate a macerare per un mesetto. In seguito preparate uno sciroppo con zucchero e acqua (1 terzo zucchero, 2 terzi acqua). Filtrate il macerato e buttate le foglie. Mischiate lo sciroppo e il macerato tenendo conto che più si aggiunge zucchero e più si abbassa la gradazione alcolica percepita. Conservare in frigorifero.

Si può bere a fine pasto oppure farne un sorbetto. Ha un sapore dolce, fresco e pungente come la menta.

“In ogni foglia di basilico, un viaggio nel tempo: il pesto genovese non si mangia, si racconta Il pesto è un ponte tra epoche: nelle sue note erbacee risuonano le preghiere dei monaci medievali, il clangore delle ancore sui velieri genovesi e il rumore dei mortai nelle cucine di oggi. Non è solo una salsa, ma un atto d’amore verso una terra stretta tra monti e mare, dove persino l’umile basilico diventa oro verde. Che lo si prepari con un frullatore o seguendo i dettami dei nonni, ogni cucchiaiata è un tributo a chi, secoli fa, capì che la grandezza nasce dall’unire semplicità e passione. Perché, come dicevano i vecchi liguri: «Quello che non fa il tempo, lo fa la pazienza». E il pesto, nella sua lentezza, è la prova che la perfezione sa aspettare. 🌿✨⚓

#cognitiva #hobby #malattia #realtà #ricette #sogni

Domenike Famelikezamply.help@zamply.help
2025-04-21

Cena vegana

C’è stato un periodo significativo della mia vita in cui mi sono completamente immerso nel mondo della cucina vegana. Per quasi dieci anni, ho abbracciato questa filosofia alimentare con grande passione e dedizione, non solo nella mia vita personale, ma anche trasformando il mio locale in un punto di riferimento per la cucina vegetale.

Il risultato fu sorprendente e gratificante. Mi dedicavo instancabilmente alla creazione di nuove ricette, sperimentando continuamente con ingredienti e tecniche innovative, alla ricerca della perfezione in ogni piatto.

Con grande entusiasmo, ogni settimana presentavo un menù completamente rinnovato, strutturato con cura: un antipasto creativo, un primo piatto sostanzioso, un secondo ricco di proteine vegetali e un dolce delizioso, tutti rigorosamente vegani. La mia attenzione si estendeva anche alla selezione di pane, condimenti e vini, assicurandomi che fossero privi di qualsiasi derivato animale, comprese le tracce animali spesso presenti nei vini.

Questo impegno si traduceva in quattro nuove creazioni ogni settimana, sedici piatti innovativi al mese e centonovantadue ricette originali all’anno, senza contare le proposte del menù alla carta.

Ecco un esempio di un menù degustazione che proposi circa quindici anni fa…

Non ricordo le ricette nel dettaglio, ognuno è libero di interpretarle come meglio crede.

Zucchine in cialda di riso fritta, polpettina di miglio e pesto di foglie di rapanello.
Ricordo che mi ritrovavo con grandi quantità di foglie di rapanello da buttare, allora pensai di scottarle in acqua e aceto come tutte le foglie verdi prima di usarle. Errore! Il risultato fu una crema verde amarissima! Sono da usare crude, come il basilico e si ottiene un pesto delicato e fresco, molto buono.Tortino di tofu con riso nero al pesto di pomodori secchi.

Il tofu era tagliato a fette con l’affettatrice e avvolgeva un riso nero mantecato con pomodori secchi frullati, una bontà. Di fianco c’erano delle palline di melone con sopra come una cresta , del wasabi. Ecco questo era stata una vera e propria scoperta, la dolcezza del melone veniva poco dopo l’assaggio sostituita dalla potenza del wasabi e lasciava in bocca una freschezza pronta a ricevere la sapidità del riso nero di un nuovo boccone.

Burger di legumi, asparagi con carote all’anice stellato.

Un classico Burger di legumi, come fagioli, ceci e aromi, viene accompagnato da asparagi e carote saltate in olio con l’aggiunta finale di anice stellato la cui freschezza aiuta a non stancarsi della sapidità dei fagioli.

Mousse di soia alla vaniglia, semifreddo di more, cialda di quinoa .

Ricordo che facevo la mousse come se fosse una maionese di soia, Lecitina di soia con olio di girasole con aceto , limone e senape per la versione salata. Con zucchero e vaniglia per quella dolce.

Poi facevo un caramello e con la quinoa lessata ricavavo dei cerchi croccanti. Infine toglievo i frutti di bosco dal freezer ci aggiungevo lo zucchero a velo e frullavo alla massima velocità. Ma lo zucchero quello in vendita nei negozi, perchè quello fatto in casa non va bene a meno che non conosciate bene le proporzioni di zucchero e amido di mais, altrimenti diventa acqua.

A fine degustazione mettevo un foglietto sul tavolo dei clienti dove ciascuno poteva dare un voto ai piatti. Nella foto ho usato a mo’ di esempio uno dei pochi rimasti( bèh tenevo sempre quelli con i voti più alti).

Col tempo, ho compreso che non stavo semplicemente preparando cibo, ma coltivando una comunità attorno a una tavola di valori condivisi. Oggi, guardando indietro a quel decennio di passione verdeggiante, riconosco che la vera ricetta che avevo scoperto era quella della gioia autentica che nasce quando il nutrimento del corpo diventa anche nutrimento dell’anima.

#cognitiva #cucina #hobby #malattia #realtà #ricette #sogni

2025-03-20

“Dobbiamo #disarmare le parole, per disarmare le menti e disarmare la Terra. C’è un grande bisogno di riflessione, di pacatezza, di senso della complessità. (...)
E nella #malattia la #guerra appare ancora più assurda".
#Francesco. #fragilità.
Oggi per @larepubblica_it

una malata che guarda dalla finestra. due bombe scendono giù.
Massimo MarcianoMassimoMarciano
2025-03-19

: morta , 76 anni

L’, il cui nome all’anagrafe era , è scomparsa ieri a a causa di una . Nata a da papà statunitense di origini tedesche e mamma statunitense di origini italiane, aveva iniziato la carriera artistica come di night club, per poi divenire un’icona delle negli anni Settanta e Ottanta.

metropoli.online/flash-news/

Domenike Famelikezamply.help@zamply.help
2025-03-11

Il Tajine Marocchino: Un Viaggio tra Sapori e Storia

Il tajine marocchino è un’autentica sinfonia di sapori: piccante e saporito, dolce e gustoso, con una salsa densa come uno sciroppo. È un abbraccio culinario di carne tenera, pesce o verdure stufati alla perfezione in una salsa densa e oleosa, impreziosita da frutta, erbe aromatiche, spezie, spesso addolcita con miele e ravvivata dal peperoncino. La tajine classica ci regala lo stufato di agnello con frutta secca, il pollo con limoni sottaceto e olive verdi, l’anatra con datteri e miele, e il pesce cucinato con pomodori freschi, limone e coriandolo.

Oggi possiamo gustare il tajine grazie ai berberi, popolo nativo dell’Africa settentrionale e dell’Egitto. Sebbene il tajine sia un piatto di origine berbera, altri popoli che hanno abitato il Marocco in epoche diverse hanno arricchito il suo sapore e la sua preparazione con il proprio patrimonio culturale. Questi includono gli arabi, i discendenti dei moreschi che migrarono dall’Andalusia, gli ebrei sefarditi e i colonizzatori francesi – un meraviglioso esempio di come la cucina diventi testimone di incontri tra civiltà.

È interessante notare come anche la Tunisia abbia il suo tajine, ma di natura profondamente diversa. La variante tunisina si avvicina più a una frittata italiana, o a ciò che noi chiameremmo una casseruola – un affascinante esempio di come lo stesso nome possa racchiudere tradizioni culinarie differenti.

Accomodati sulla tua sedia e lasciati trasportare dalla mia storia sul tajine marocchino. Una volta assaporato questo piatto, me ne sono innamorato incondizionatamente e per sempre. Non lasciarti confondere dalla ripetizione della parola “tajine” nel racconto. Il fatto affascinante è che il tajine non è solo il piatto che si gusta, ma anche il recipiente in cui viene cucinato. Questi recipienti sono straordinariamente insoliti e belli, qualcosa di veramente favoloso. Basta osservare quel caratteristico coperchio a cupola per comprenderne la magia.

I significati profondi del tajine marocchino

Il tajine non è semplicemente un oggetto decorativo – è ricco di significati culturali e pratici. Rappresenta il tegame perfetto per la cottura lenta, poiché grazie al suo coperchio a cupola, si crea un particolare processo di condensazione del vapore. Il tajine cuoce lentamente, a fuoco basso. Il vapore, arricchito dalle spezie, sale, si condensa sulle pareti della cupola e ricade dolcemente sugli ingredienti. Si crea così una circolazione costante di umidità all’interno del tajine. Grazie a questo processo alchemico, qualunque ingrediente venga cucinato nel tajine risulta straordinariamente tenero e succoso, avvolto da un vapore aromatico che racconta storie di terre lontane.

I tajine marocchini autentici sono realizzati in argilla, un materiale che parla della connessione con la terra. Possono essere smaltati e decorati con motivi pittorici, oppure lasciati al naturale. Per cucinare, è sufficiente un tajine semplice, senza necessità di decorazioni elaborate. Se hai la fortuna di procurarti un autentico tajine marocchino, ricorda di immergerlo in acqua per una notte intera prima del primo utilizzo – un rituale che riduce il rischio di crepe e prepara il recipiente al suo viaggio culinario.

I recipienti non smaltati hanno il pregio di assorbire le spezie e gli oli, così che il tuo tajine migliorerà il suo sapore ad ogni utilizzo, come un libro che si arricchisce ad ogni lettura. Quando scegli un tajine, assicurati che abbia un fondo molto spesso e pesante, altrimenti si romperà inevitabilmente. I marocchini hanno tradizionalmente cucinato i loro tajine sui carboni ardenti, in un dialogo diretto con il fuoco. Se utilizzi un fornello a gas, procurati uno spargifiamma. Con una stufa in vetroceramica, scegli un tajine dal fondo particolarmente spesso e utilizzalo con delicata attenzione.

Il Tajine Marocchino: Un Viaggio Culinario tra Tradizione e Tecnica

Questo meraviglioso metodo di cottura è davvero un tesoro della cucina nordafricana che racchiude in sé non solo una tecnica, ma un’intera filosofia culinaria.

Quando prepariamo un tajine marocchino, ciò che facciamo essenzialmente è stufare – un processo antico quanto la civiltà stessa. Che si tratti di carne, pollame, pesce o verdure, la magia avviene in quella caratteristica pentola conica che dà il nome al piatto stesso.

La brasatura, è quell’arte paziente di cuocere lentamente piccoli pezzi di cibo in un liquido che appena mormora. È un atto d’amore, un dialogo silenzioso tra il cuoco e gli ingredienti. Il liquido – che sia acqua, brodo o vino – diventa un messaggero di sapore, un veicolo che trasporta calore uniformemente attraverso ogni fibra del cibo.

Ricordo ancora la prima volta che vidi preparare un tajine nel mio locale, dalla mamma di una ragazza che lavorava in sala, le cui mani raccontavano storie di mille pasti. Mi spiegò che la vera anima del tajine risiede proprio in quella temperatura moderata, mai superiore agli 80 gradi. “È come cullare il cibo,” mi disse, “non aggredirlo.”

La bellezza di questa tecnica risiede nella sua capacità di trasformare i tagli più umili in piatti regali. L’agnello – preferibilmente colli o stinchi – si abbandona a questo abbraccio caldo per ore, sciogliendosi poi in bocca come un ricordo dolce. È la quintessenza della cucina popolare elevata ad arte: prendere ciò che è semplice e, attraverso la pazienza, renderlo sublime.

I limoni salati sono davvero un tesoro della dispensa marocchina. La fermentazione in salamoia è un altro esempio di come il tempo sia un ingrediente fondamentale in questa cucina. Un mese di attesa si trasforma in note di sapore impossibili da replicare altrimenti – agrodolci, complesse, profonde come la storia stessa di quelle terre.

La sua osservazione sul tajine di gamberi mi faceva sorridere – aveva colto un’importante verità culinaria: ogni tecnica ha i suoi protagonisti ideali. I gamberi, con la loro delicatezza, non sono forse i candidati migliori per lunghe cotture, eppure la sperimentazione ci porta talvolta a scoperte inaspettate.

Se dovessi dare un consiglio a chi si avvicina per la prima volta a questa cucina, direi proprio ciò che suggerisci: iniziate pure con una cocotte di ghisa se non avete ancora il tajine tradizionale, ma preparatevi – l’incantesimo di questo metodo di cottura vi conquisterà presto, e vi ritroverete a cercare quella caratteristica pentola conica che, come un vecchio saggio, custodisce segreti ancestrali di sapore e convivialità.

Ingredienti per Tajine di pollo con frutta caramellata:

Ingredienti

1 pollo (1,5 kg)
1 mela
1 pera
8-10 scalogni
1 cipolla
3 cucchiai di olio vegetale
2 bastoncini di cannella
cannella macinata per la decorazione
1 cucchiaio di zenzero grattugiato
2 cucchiai di semi di sesamo
200 ml. acqua di zafferano
2 cucchiai di olio vegetale
1 mazzetto di coriandolo legato con spago bianco
2 cucchiai di miele
20g di burro
30 ml di acqua di rose (opzionale)
sale, pepe a piacere

Passi per preparare questo tipo di tajine marocchino:

Tagliare il pollo in 8 pezzi. Scaldare l’olio vegetale nella base di una tagine. Tagliare la cipolla a dadini e soffriggerla nell’olio fino a quando sarà leggermente dorata. Aggiungere il pollo, il coriandolo, lo zenzero, le stecche di cannella, il sale, il pepe e l’acqua di zafferano. Chiudere la tagine con un coperchio e cuocere il tutto a fuoco lento per 45 minuti.
Sbucciare le mele e le pere, tagliarle in quarti ed eliminare i torsoli. Sciogliere il burro in una padella. Mescolare il miele. Mettere la frutta nella padella e farla caramellare. La frutta dovrebbe ricoprire tutti i lati di miele, assumendo un bel colore dorato e leggermente incrostato. Irrorare la frutta caramellata con acqua di rose (se si usa) e lasciarla bollire. Cospargere di cannella la frutta.
Versare lo scalogno sull’acqua bollente e lasciare riposare per 5-10 minuti. Questo lo renderà più facile da sbucciare. Scaldare l’olio vegetale in una padella, caramellare lo scalogno in esso per 10 minuti, o fino a quando non è rosolato su tutti i lati.
Se si desidera, la frutta può essere caramellata senza miele, come lo scalogno.
In una piccola padella, tostare delicatamente i semi di sesamo fino a quando non sono delicatamente dorati, mescolando costantemente per evitare che si attacchino.
Aggiungere le mele, le pere e lo scalogno al pollo cotto. Coprire la tagine con un coperchio e cuocere a fuoco lento per altri 15 minuti. Dopo 15 minuti, rimuovere il coriandolo.
Decorare il tagine con semi di sesamo. Potete immergere alcuni pezzi di frutta nei semi di sesamo per bellezza. Servire immediatamente.
Se decidete di ricreare completamente l’ambiente marocchino, dovreste riunire tutta la famiglia intorno al tavolo e mangiare il piatto finito con le mani, afferrando il cibo con indice, medio e pollice. È così che mangiano i veri marocchini! Ah sì, e non dimenticare di servire delle tortillas calde da intingere nella salsa.
Un po’ di zafferano:
Lo zafferano, il re indiscusso delle spezie, è spesso aggiunto alle tagine. Può essere utilizzato in modo più efficace se si prepara l’acqua allo zafferano. La soluzione preparata può essere conservata in frigorifero per tre o quattro settimane. Un cucchiaino di fili di zafferano darà 250 ml di acqua allo zafferano.

Preparare l’acqua allo zafferano.

Per farlo avete bisogno di:
Scaldare una padella a fuoco molto basso, e friggere gli stami mescolando costantemente per 2-3 minuti fino a quando lo zafferano diventa di un colore rosso intenso.
Trasferire immediatamente lo zafferano in un mortaio e macinarlo in polvere. Potete usare una piccola ciotola e un cucchiaio di legno.
Versate con cura la polvere in una brocca o in un bicchiere pulito, senza perdere nessuno dei suoi preziosi grani, e versateci sopra 250 ml di acqua calda. Chiudi bene e agita bene. Lo zafferano dovrebbe quasi dissolversi nell’acqua.
Lasciare raffreddare e mettere in frigorifero. Oppure utilizzare come indicato.

Tajine di manzo marocchino con frutta secca

Un giorno stavo facendo l’osso buco Tagine (cioè lo stinco di manzo). Non c’era altra carne disponibile. Trovo che per il Tagine, lo stinco è perfetto perché è carne con l’osso. I marocchini usano più spesso le parti meno costose dell’agnello o del manzo con l’osso. Poiché la tagine richiede molto tempo per cuocere, la carne alla fine diventa molto tenera e si stacca letteralmente dall’osso. Detto questo, niente e nessuno vi impedisce di usare parti più costose dell’animale.

Per prima cosa, occupiamoci del recipiente stesso – il Tagine.

Qual è il significato della cupola?

Grazie a un coperchio così insolito, otteniamo una condensazione di vapore, in cui qualunque cosa si cucini, tutto risulta molto tenero e succoso. Il fatto è che cuciniamo tutto con il coperchio chiuso e a fuoco molto basso. Così facendo, il vapore intriso di spezie sale, si condensa e risale. Le tagine autentiche hanno un foro nella cupola attraverso il quale il vapore in eccesso deve uscire. Altrimenti, cercherà di uscire nello spazio tra la base e il coperchio, il che non è giusto. Il piatto assorbirà correttamente i sapori delle spezie e delle erbe, diventando molto morbido e fragrante.

Allo stesso tempo otterremo carne o pesce succosi, a seconda di ciò che stiamo cucinando, e salsa – densa e fragrante come uno sciroppo. Inoltre, la carne sarà incredibilmente morbida. La carne nel tagine cuoce abbastanza a lungo, da due ore in su. Pollo, pesce e verdure non hanno bisogno di una cottura così lunga. Tuttavia, diventano anche molto deliziosi nella tagine, ottengono una consistenza e un sapore speciali. La tagine trattiene l’umidità al suo interno, da cui la succosità. Il calore viene cucinato dal basso, attraverso la base della tagine, e dall’alto, grazie alla cottura a vapore.

Il coperchio di solito ha un manico con un incavo, così è facile toglierlo e controllare il processo di cottura. È comodo mettere un cucchiaio nell’incavo, con il quale si mescola il tagine. Io, comunque, preferisco ancora una spatola di legno. Una volta rimosso il coperchio, si può servire il piatto direttamente nella base. La base è poco profonda e fatta così per una ragione. Il fatto è che i marocchini servono il piatto pronto nel piatto stesso, o lo mettono nella sua versione più ornata.

Mangia il tajine come fanno i marocchini!

In Marocco si mangia con le mani, spargendo il piatto in cerchio, afferrando il cibo con il pollice, l’indice e il medio. Si considera una cosa maleducata mettere le dita sul territorio del vicino. Anche se una tale usanza sembra strana per alcune persone, dovete essere d’accordo che c’è un sapore speciale in essa.

#cucina #hobby #malattia #realtà #ricette #sogni

Domenike Famelikezamply.help@zamply.help
2025-02-09

Il tavolino

C’era una volta un tavolino di arte povera.

Viveva tra il divano e il mobile libreria della televisione.

Come uno sparti-acque, appoggiato contro il muro riempiva uno spazio altrimenti rimasto vuoto ed in più aiutava a tenere diverse cose a portata di mano.

Sulla sua superficie lucida e liscia stavano appoggiati: una bottiglia d’acqua, un Ipad, una scatola con medicine varie, un tubetto di crema per le mani, un paio di auricolari.

Aveva anche un cassetto centrale con all’interno diverse cose tra cui un paio di forbici, un metro avvolgibile, dei cerotti, una decina di penne biro, gomma per cancellare.

Della sua figura eravamo ormai abituati e usavamo il suo aiuto tutti i giorni.

Però venne il giorno che qualcosa in lui stonava.

Come una sonata che era sempre stata orecchiabile da quel giorno in lui qualcosa di sgradevole faceva capolino ogni volta che lo si guardava.

Ho scoperto che cosa non funziona!” esclamò lei con gli occhi luccicanti di eccitazione.

Manca la chiave nel cassetto!” concluse e subito partì alla ricerca della chiave.

Dovete sapere che cercare una chiave in un’area che spazia da una casa di circa 300 mq con diverse camere e parecchi mobili con nmila cassetti a un’altra casa da 400 mq su tre piani e decine di mobili con nmila cassetti TUTTI da rovistare per trovare la chiave di “quel” cassetto non è impresa da poco.

Così dopo aver trovato una decina di chiavi ed aver constatato che nessuna di quelle era quella giusta, si decise adattarne una diversa ma il più possibile simile.

Si riempì la serratura di silicone, si mise il cassetto in bolla e si inserì la chiave.

Il giorno dopo tutta la toppa con la chiave dentro era un tutt’uno con il cassetto.

Un bel risultato non c’è che dire, l’arredamento a quel punto era completato.

Tranne che, ad un certo punto, non so come dire, dopo serate spese a guardare serie tv in compagnia del tavolino e la sua chiave successe che nell’alzarsi, incautamente, malauguratamente, come è facile immaginare la chiave sporge e questa sporgenza misurabile in tre centimetri tre va ad incastrarsi nel fianco.

Questo sommato allo slancio per alzarsi moltiplicato alla velocità di fuga dal divano dà come risultato il quasi ribaltamento del tavolino.

“Porco di quel 🤬🤯💢” esclamò.

E fu un attimo vedere il cassetto per terra con sopra un piede a schiacciarlo come la testa di un serpente e due mani che tenevano la chiave per strapparla dalla sua innaturale posizione e farla volare con tutto il silicone attorno attraverso la stanza.

Oggi il risveglio è stato tranquillo, il tavolino è ancora lì con il suo cassetto scevro di una chiave che ha avuto come unica colpa di essere stata al suo posto.

Enricofulvio

#cognitiva #cucina #hobby #malattia #realtà

Milano University Pressmilanoup@mastodon.uno
2025-02-04

#4febbraio #WorldCancerDay
Per la giornata mondiale contro il #cancro, proponiamo da #AltreModernità l'articolo:

"Every Cancer Narrative Is an Act of Life.
A conversation with Nancy K. Miller (January and February 2020)"

un'intervista alla studiosa e #femminista #NancyMiller a partire dal suo articolo “The Trauma of Diagnosis: Picturing Cancer in #Graphic Memoir" sulla rappresentazione grafica della #malattia nei fumetti: "If #cancer terrifies, #comics reassure"

⬇️ riviste.unimi.it/index.php/AMo

Client Info

Server: https://mastodon.social
Version: 2025.07
Repository: https://github.com/cyevgeniy/lmst