Sliding Doors #3
Intanto dall’altra parte del paese…
“Mamma, è a casa la zia?” chiese Thérèse sbirciando dalla finestra, spostando delicatamente la tendina di pizzo con le sue dita affusolate e pallide. I suoi occhi scrutavano con attenzione il panorama familiare del cortile, cercando qualsiasi segno di movimento o vita dall’altra parte.
Guardava indagatrice quelle finestre sbarrate al di là del cortile e si chiedeva con crescente preoccupazione come mai non erano ancora aperte e la zia Anna non era in cortile a pulire e incerare qualche mobile come faceva ogni mattina, seguendo la sua routine quotidiana quasi religiosa. Il silenzio che avvolgeva la casa della zia era inquietante, così diverso dal solito viavai di attività mattutine.
L’aveva sempre ammirata quella zia che si spaccava in quattro per gli altri e non era mai abbastanza per se stessa. La sua generosità sembrava non avere limiti, come un pozzo senza fondo di bontà e dedizione. Ricordava con tenerezza di quando andava a scuola e la zia Anna tutti quegli anni le faceva da autista, portandola e riprendendola tutti i giorni con pazienza infinita, e concludeva il viaggio sempre con la stessa frase detta con un sorriso luminoso “come sei bella!”. Quelle parole, pronunciate con tanto affetto sincero e incondizionato, le avevano dato sicurezza negli anni dell’adolescenza quando ne aveva più bisogno. La zia era stata come un faro nella sua vita, una presenza costante e rassicurante.
E comunque aveva cominciato a chiedersi, d’accordo la zia è un pò particolare con le sue manie e le sue abitudini rigide, ma anche il suo Jerome è parecchio strano però, con quei suoi silenzi improvvisi e quegli scatti d’ira apparentemente immotivati che facevano tremare le pareti. C’era qualcosa di inquietante nel modo in cui lui poteva passare dalla calma più assoluta alla rabbia più cieca in pochi secondi, come se un interruttore scattasse nella sua mente. E la zia, povera donna, sembrava sempre più piccola e fragile accanto a lui, come se la sua presenza la schiacciasse lentamente.
“Mi sembra d’averla vista rientrare presto ieri sera,” rispose con un velo di ironia la madre, scuotendo la testa con disapprovazione. “Questo vuol dire che avevano litigato di nuovo e che quindi se ne starà rintanata in casa per un paio di giorni, come fa sempre quando succedono queste cose. Non riesco proprio a capire perché continui a sopportare quella situazione. Mi chiedo come Jerome la possa sopportare!”
La madre fece una pausa, come se stesse cercando le parole giuste. “Sai,” continuò con voce più bassa, quasi confidenziale, “tua zia non è sempre stata così. Prima di Jerome era una donna forte, indipendente. Ora sembra l’ombra di se stessa, sempre attenta a non fare o dire qualcosa che possa irritarlo. È come se vivesse costantemente sul filo del rasoio, in attesa della prossima esplosione.”
Thérèse sentì un brivido correrle lungo la schiena. Le parole della madre davano voce a tutte quelle preoccupazioni che lei stessa aveva ma non osava esprimere. Continuò a fissare la finestra della zia, sperando di vedere un segno, un movimento, qualsiasi cosa che potesse rassicurarla che tutto andava bene. Ma le tende rimanevano immobili, come un sipario calato su un palcoscenico vuoto, e il silenzio continuava a pesare nell’aria come una presenza tangibile.
“D’altra parte stasera e domani il bar rimane chiuso e avranno tutto il tempo per schiarirsi le idee e fare pace come sempre,” concluse Brigitte mentre affondava delicatamente le mani nella terra fresca, sistemando con cura meticolosa l’ultima piantina di Fucsia nel vaso di terracotta decorato. I suoi movimenti erano precisi e misurati, come se stesse eseguendo un rituale sacro. Nel pomeriggio sarebbe arrivato Marco, il giardiniere di fiducia della famiglia da generazioni, per appendere i vasi lungo il porticato. Già immaginava l’effetto stupendo che avrebbero creato quei fiori fucsia accesi, danzando come piccole ballerine colorate accanto al maestoso Glicine che si arrampicava con eleganza naturale sulle imponenti colonne bianche, creando un armonioso gioco di colori e forme.
“Aspe’… adesso la chiamo” – annunciò Brigitte a Thérèse.
In una stanza buia e silenziosa, dove l’aria sembrava densa e immobile come in una cripta, la suoneria del telefono squarciò improvvisamente il silenzio opprimente come un fulmine in un cielo sereno.
Driiiiinnnn Driiiinnnn
Lo schermo del telefonino si illuminò di colpo, proiettando la sua luce spettrale e fioca sul comodino di Anna. Le ombre create da quella luce artificiale danzavano inquietanti sulle pareti della stanza immersa nell’oscurità, come spettri silenziosi che si muovevano al ritmo della suoneria insistente.
Driiiiinnnn Driiiinnnn
“E adesso chi diavolo sarà?” si chiese Anna con voce rauca, emergendo controvoglia dal suo bozzolo di coperte come una creatura marina che risale dalle profondità. Fece una smorfia di dolore e fastidio mentre il trillo persistente del telefono martellava nella sua testa dolorante, un ricordo tangibile della notte insonne appena trascorsa. Il suono le sembrava amplificato mille volte, come un picchio impazzito che batteva senza sosta contro le pareti del suo cranio.
“Uff, mia sorella!” mormorò con un misto di irritazione e sollievo quando riconobbe il numero sul display. “La richiamerò più tardi, ora non ho proprio la forza mentale per sostenere una conversazione con nessuno.”
Si rintanò nuovamente sotto le coperte con un movimento rapido e deciso, cercando disperatamente rifugio in quel calore familiare che la avvolgeva come un abbraccio protettivo, un’oasi di conforto in mezzo alla tempesta dei suoi pensieri.
“Mia sorella!” riprese tra sé con crescente rabbia. “Cosa vuole a quest’ora del mattino! E quello là,” il pensiero di Jerome le fece salire una nuova ondata di rabbia, “figurarsi se si degna di chiamare, non l’ha mai fatto in tutti questi anni, aspetta sempre che sia io ad andare là a riverirlo come una serva devota! Questa volta no, LUI deve venire qui altrimenti non muovo un singolo dito, ne ho abbastanza delle sue prepotenze!”
Un fiume impetuoso di rabbia incontrollabile le scorreva nelle vene come lava incandescente, bruciando ogni altro pensiero razionale. La furia era così intensa che il suo corpo reagiva fisicamente: tremori violenti la scuotevano dalla testa ai piedi come scosse elettriche, e i singhiozzi che cercava di trattenere si trasformavano in pianti disperati e strazianti che sembravano non avere mai fine. Era come se ogni lacrima versata aprisse la strada a un’altra ancora più dolorosa, in un pozzo senza fondo di sofferenza che minacciava di inghiottirla completamente. Il dolore si alimentava da solo in un ciclo infinito, come un serpente che si morde la coda, senza possibilità apparente di trovare pace o sollievo.
“Ogni singola maledetta volta la stessa identica storia che si ripete all’infinito come un disco rotto!” singhiozzò Anna, la voce rotta dalla disperazione che le stringeva la gola. “Dice che sono io quella che scappa via, ma è lui che mi caccia via sistematicamente con i suoi comportamenti assurdi e incomprensibili! Con quei suoi modi cafoni e volgari da persona totalmente incivile, quella sua arroganza insopportabile che non conosce limiti né confini, quella prepotenza che cresce giorno dopo giorno come un cancro maligno!! Perché, perché continuo ostinatamente a mettermi sempre con uomini del genere che mi fanno solo soffrire? Cosa avrò mai fatto di così terribile nella vita per meritarmi questo tormento continuo, questa tortura senza fine?”
Nel buio più totale e opprimente della stanza, dove l’aria sembrava densa e pesante come piombo fuso, allungò la mano tremante per cercare a tentoni un fazzoletto di carta sul comodino. Le sue dita incontrarono la superficie liscia e fredda del mobile, vagando come piccoli esploratori ciechi alla ricerca di un appiglio. Finalmente trovò quello che cercava e si asciugò gli occhi gonfi e arrossati dal pianto incessante che sembrava non voler mai finire. Con un gesto carico di rabbia e disgusto buttò il fazzoletto umido a terra, dove andò ad unirsi agli altri già accumulati a formare un desolante tappeto bianco intriso di lacrime amare, dolore lancinante e delusioni infinite che sembravano non avere mai fine.
“Ogni dannata volta mi promette solennemente guardandomi dritto negli occhi che non succederà mai più,” proseguì tra i singhiozzi, la voce che si alzava e si abbassava come un’onda di marea, “ma invece eccomi qui di nuovo, a piangere da sola come una stupida nel mio letto freddo e vuoto, ad aspettare disperatamente un minimo segno che dimostri che non sono completamente invisibile e insignificante ai suoi occhi! E poi io, come al solito, come una perfetta idiota, lo implorerò disperatamente di tornare e lui si degnerà di venire qui, sempre e solo dopo estenuanti preghiere e suppliche infinite, e io, come una perfetta idiota senza un briciolo di dignità né amor proprio, accetterò ancora una volta le sue scuse vuote e false come monete di cioccolato! MI ODIO PROFONDAMENTE PER QUESTO, MI FACCIO SCHIFO, NON MI SOPPORTO PIÙ!”
Proruppe in una nuova serie di singhiozzi incontrollati che le squarciavano il petto come lame affilate, ogni respiro era un dolore acuto che le trafiggeva i polmoni. Si rintanò completamente sotto le coperte serrando gli occhi con forza, come una bambina che cerca di nascondersi dai mostri nell’armadio, cercando disperatamente di scomparire dal mondo e dalla sua stessa debolezza che la disgustava profondamente. Le lacrime continuavano a scorrere copiose sul suo viso arrossato, tracciando solchi umidi sulle guance già bagnate dal pianto precedente. Il suo corpo era scosso da tremiti violenti che non riusciva a controllare, come se fosse preda di una febbre altissima che la consumava dall’interno.
Nel silenzio della stanza, interrotto solo dai suoi singhiozzi soffocati, il dolore sembrava amplificarsi e rimbalzare contro le pareti come un’eco infinita. Ogni respiro affannoso, ogni gemito strozzato, ogni lacrima versata era un’accusa silenziosa contro se stessa e contro quella debolezza che la portava sempre a ricadere negli stessi errori, come un’attrazione fatale verso il dolore da cui non riusciva a liberarsi.
…