Tanto come luogo di fuga quanto come luogo di rifugio, la famiglia si configurava dunque come un luogo di inclusione repressiva
Lo scontro politico tra modernizzatori e conservatori fu culturalmente accompagnato da fenomeni sociali che trovarono difficile ascolto e precaria attenzione. L’Italia del secondo dopoguerra era riuscita a trasformarsi nella sua veste istituzionale, politica ed economica ma i primi vent’anni di storia repubblicana sembravano rimandare l’altro aspetto del rinnovamento, quello socio-culturale. Abbiamo già richiamato l’attenzione sull’importanza di considerare il concetto di modernizzazione come un concetto totale, che includa cioè non solo gli aspetti più visibili di un cambiamento ma anche quelli più profondi, i quali, toccando le strutture antropologiche di una società, si dimostrano capaci di creare un consenso più genuino di quanto possa fare l’approvazione di un algido codice giuridico.
Ora, gli spazi entro i quali l’assenza o il ritardo di questa seconda trasformazione meglio si possono osservare sono quelli della famiglia, in cui per certi versi colpevole, per altri innocente appare il retaggio culturale di alcune tradizioni, gli istituti scolastici, in cui manca una progettualità riformatrice, e infine la fabbrica, luogo dove emerge più potente l’esclusione della classe lavoratrice dal processo di modernizzazione.
Vediamo dunque come, ciascuno a suo modo, questi spazi siano attraversati da una forma di inclusione repressiva.
Famiglia. Le testimonianze che sono state raccolte in un prezioso studio del 1988 di Luisa Passerini, “Autoritratto di un gruppo”, e che segnano una specie di autobiografia collettiva di quella generazione che fece il Sessantotto, mostrano da diverse angolazioni quanto problematico fosse il rapporto che questa ebbe con la famiglia. Nell’Italia delle passioni politiche, del boom economico e dell’immigrazione venivano a coagularsi in questo vissuto privato stimoli e circostanze che producevano incomprensioni, distanze, scontri e rifiuti non ricomponibili.
Poteva ad esempio accadere che, pur aderendo alla stessa fede politica di famiglia, alcuni vivessero con incomprensione ciò che, privatamente ostentato con orgoglio, veniva pubblicamente nascosto o stentava a trovare un riconoscimento identitario. Era questo il caso di Franco Russo: “Io sono di famiglia proletaria, mio padre era falegname e mia madre ha fatto la portiera, insomma i quattro quarti di nobiltà proletaria. Mio padre è socialista da sempre e mi portava ai comizi, però bisognava nascondere l’«Avanti!». Mio padre non è stato aiutato dal suo partito a fare della condizione di proletario un punto di identità sociale, è stato un continuo mascheramento di questa identità. C’è sempre stata una zona d’ombra in cui si è vissuti in casa” <95.
In altri casi, come in quello di Maria Teresa Fenoglio, la distanza con la famiglia era strettamente legata a quella incomunicabilità che risentiva del peso della tradizione sia in modo diretto, cioè come oggettiva difficoltà a confrontarsi con il cambiamento di costume in atto, sia in modo indiretto, cioè come incapacità soggettiva, anche in presenza di un’apertura mentale, di accettare fino in fondo la rottura di alcuni tabù culturali: “Mia madre era in tutto e per tutto meridionale, portava la cultura mediterranea della suggestione magica, del malocchio. Mi era impossibile identificarmi con un materno così minaccioso, legato alla grande potenza della madre benefica e malefica. Un altro elemento materno era il piacere dell’esibizione, che mia mamma aveva moltissimo, le unghie rosse laccate, la gonna stretta, il trucco. Quando nell’adolescenza tentavo di imitarla, il risultato era un grande senso di depressione, perché mi giudicavo. Non potevo piacermi in quella maniera, perché dal punto di vista delle scelte ideali ero con mio padre – socialdemocratico, poi socialista, uno dei pochi comandanti delle Garibaldi non comunisti: idee democratiche, convinzione di essere superiore agli altri, per noi non contano i beni materiali. La rottura con mio padre è poi avvenuta con la mia scelta di libertà sessuale” <96.
Ma a segnare lo scontro era la distanza tra l’orgoglio di appartenere ad una storia proletaria e l’imitazione di modelli sociali che invece garantivano la promozione sociale, sporcando così quella dignità dovuta alla fierezza della propria differenza. È questo il ricordo di Marino Sinibaldi: “Io sono nato in un quartiere a forte tradizione anarchica e socialista, mio nonno era fornaciaio, e nella piazza c’è sempre stato attaccato «Umanità nuova», oltre all’«Unità». Ma io andai al liceo Mamiani, e c’è dietro una storia patetica familiare. Mia nonna lavava i panni di gente ricca che abitava nel quartiere Prati e mia madre mi raccontò, che ero già grande, che quando era piccola accompagnava mia nonna a prendere e a portare i panni e passava davanti al Mamiani e vedeva questi ragazzi bellissimi con le automobili. E lei si è battuta moltissimo perché andassi al Mamiani, mentre per la territorialità mi sarebbe spettato un altro liceo. Quando me l’ha rivelato, ho radicalizzato il mio odio per questa scuola, naturalmente” <97.
A volte il dramma dell’abbandono e il peso di un’educazione tradizionale erano così forti da trasformare l’estraneità nei confronti dei propri genitori in un rifiuto totale della famiglia. Così Roberto Dionigi: “Gli estremi: miniborghesia, due insegnanti, uno di ginnastica, uno di lettere. Vivono di lavoro, senza niente alle spalle, mio nonno paterno era oste, quell’altro era un maresciallo dei carabinieri in Sicilia. Tante bastonate, grande pedagogia fascista. Non ho niente in casa, nessun bagaglio di memoria, dalla famiglia non mi viene nulla” <98.
Quello che queste voci sembrano dire è che a mancare fu quel valore di testimonianza – di fragilità, di esempio, di difficoltà a scegliere la giusta educazione in un momento in cui il paese stava cambiando – proprio delle figure parentali che avrebbe costruttivamente accompagnato i figli nella complessità di crescere in un momento come quello che l’Italia stava vivendo. L’assenza di questo valore spinse spesso a scegliere tra le stesse figure parentali, scelta che, data l’impossibilità di confrontarsi criticamente con il peso di una tradizione o di un’appartenenza, lasciò insoddisfatti e soli, rendendo la famiglia stessa come luogo di non identità.
Non stupisce allora come il sentimento che molto spesso prevalse in questa generazione fu l’identificazione in un rifiuto radicale: la scelta di essere orfani. Lo ricorda, ad esempio, Fiorella Farinelli con un senso estremo di liberazione: «La più bella scritta sui muri della mia facoltà, me la ricordo in maniera nettissima, di tutte quelle che c’erano: “Voglio essere orfano”. L’ho condivisa, l’ho fotografata, mi sono portata il manifesto a casa, era quella che a me piaceva di più: “Voglio essere orfano”» <99. E tanto sentita appariva la verità di quella frase che essa finì per allargarsi anche alle altre istituzioni della società: «Non siamo figli, né padri di nessuno, siamo uomini che non vogliono credere in niente e a nessuno: senza dio, senza famiglia, senza patria, senza religione, senza legge, senza governo, senza Stato, senza polizia […]. Ecco, siamo dei bastardi» <100 – avrebbe scritto un gruppo di Provos milanesi in un foglio volante alla metà degli anni Sessanta.
Ora, il rifiuto radicale dell’appartenenza alla famiglia era la soluzione estrema a cui molti giunsero data appunto l’impossibilità di un confronto interno con quegli aspetti, materiali e culturali, a cui la modernità richiamava.
D’altra parte, però, si poteva assistere alla reazione contraria: posti davanti alla modernità metropolitana, la famiglia appariva non come luogo da cui fuggire ma come luogo in cui rifugiarsi dalla perdizione e dalla corruzione indotte da quella stessa modernità. Questo aspetto toccava prevalentemente il mondo degli immigrati: molto spesso le difficoltà oggettive in cui si trovarono a muoversi le famiglie meridionali – alloggio, ricerca di un posto di lavoro e un generale senso di straniamento indotto dalla città e dai suoi atteggiamenti razzisti – rendevano questo l’unico spazio sicuro, sia in termini economici – in famiglie numerose il lavoro di uno dei membri poteva provvedere a compensare i bisogni primari degli altri nelle fasi di assestamento o di crisi -, sia in termini socio-culturali – tanto profonda era la differenza tra città e campagna da preferire la riproposizione di valori tradizionali davanti ad un mondo che incuteva timore <101.
Tanto come luogo di fuga quanto come luogo di rifugio, la famiglia si configurava dunque come un luogo di inclusione repressiva: o perché, culturalmente non aperta, poteva difficilmente costituirsi come spazio di dialogo e di confronto gravata dal peso innocente di tradizione ed appartenenza, o perché, culturalmente chiusa, sostituiva alla lontananza e all’incertezza dei nuovi diritti la sicurezza e l’intimità della tradizione. In tutto questo, la responsabilità politica stava nell’incapacità di intuire quale riflesso determinante avrebbe avuto gestire in modo diverso il processo di trasformazione sociale, rendendo meno difficoltosa nei suoi ostacoli immediati la trasformazione antropologica: gli scarsi investimenti, sia materiali che culturali, nel settore della formazione avrebbero appunto dimostrato questa incuria.
[NOTE]
95 Passerini, Autoritratto di un gruppo, cit., p. 44.
96 Ivi, p. 53.
97 Ivi, p. 45.
98 Ivi, p. 47.
99 Ivi, p. 46.
100 Citato in A. De Bernardi – M. Flores, Il Sessantotto, Il Mulino, Bologna 1998, p. 167.
101 Uno dei capolavori cinematografici del neorealismo italiano girato da Luchino Visconti nel 1960, Rocco e i suoi fratelli, ha colto molto bene questa dinamica di scontro della famiglia immigrata con la metropoli. L’incontro con la modernità viene qui proposto, inter alia, secondo la prospettiva della giustizia democratica: davanti al diniego e alla disapprovazione della famiglia, la scelta di Ciro di denunciare alla polizia l’omicidio compiuto dal fratello Simone rompe in questo senso quella solidarietà meridionale tradizionalmente legata allo ius sanguinis per aprirsi alla fiducia nelle istituzioni moderne.
Andrea Bertini, Una sola moltitudine. Rivoluzione e modernizzazione alle origini del Sessantotto, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2013-2014
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