#esercito

2025-12-02

L'articolo (il cui contenuto condivido) è scritto da un generale. Giusto per non fare perdere tempo agli eletti che disprezzano l'opinione di un nostro servitore (da Costituzione) e dare loro una (ennesima) buona ragione per non seguirmi. L’Ateneo che chiude le porte allo Stato. Il paradosso dell'#AlmaMater letto da Caruso formiche.net/2025/12/lateneo-c

@attualita

#Bologna #esercito

LaRampa.itlarampa
2025-11-21
Associazione Peacelinkpeacelink@sociale.network
2025-11-15

#Germania potenzia l'#esercito: servizio militare volontario e coscrizione a richiesta - Il Fatto Quotidiano
ilfattoquotidiano.it/2025/11/1

Metalli Rarimetallirari
2025-11-13

L’esercito USA punta a 1 milione di droni, in una corsa alla superiorità militare
metallirari.com/esercito-usa-p
L’ degli Stati Uniti prepara una svolta epocale: entro tre anni punta ad acquistare almeno un milione di , trasformandoli da armi sofisticate a strumenti “usa e getta” della moderna.

2025-09-18

#lascuolavaallaguerra - L’#esercito a #scuola per distanziare i bambini. Assolto Antonio Mazzeo, docente e attivista dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università. L’"occupazione” #militare da parte della Brigata “Aosta” #nowar

Con l’armistizio tentarono la costituzione di una Guardia Nazionale

Per meglio comprendere le opposte politicizzazioni cui furono soggetti i soldati, esposti ai «megafoni che gridano promiscuamente in lingue politiche diverse» <1270, è necessario approfondire i termini con cui, nell’autunno del 1944, si arrivò all’arruolamento di migliaia di volontari provenienti dalle fila partigiane.
Già nel corso della guerra fascista, il Regio Esercito confermò la propria diffidenza nei confronti di uomini particolarmente motivati come i volontari. Temuti portatori di un sistema di valori slegato dalla semplice obbedienza all’autorità, la loro fedeltà politica materializzatasi nell’assunzione dell’onere del combattimento metteva implicitamente in discussione la legittimità di una gerarchia, incardinata sull’obbligo giuridico e personale di servire la patria in armi.
Il volontarismo per la guerra fascista fu visto da Mussolini come un’occasione per confermare il ruolo di guida del Partito, ma proprio l’istituzione militare era diffidente di fronte a forme troppo aperte di politicizzazione.
[…] Dopo l’armistizio l’arruolamento di volontari ebbe una storia parimenti travagliata, i partiti di sinistra proposero proprio il volontarismo come condizione per ricostruire un Esercito screditato <1272. Alla supposta incompetenza dei quadri dirigenti, compromessi con il fascismo e responsabili di una guerra perduta, venne contrapposto lo slancio che i volontari avrebbero potuto portare ad una struttura stanca e burocratica. Lo spirito patriottico dei volontari avrebbe potuto ridare linfa e spirito combattivo anche ai militari di leva. Presentati come quieti, fedeli ed obbedienti, i soldati sarebbero stati vittime dell’inettitudine degli alti gradi, responsabili della guerra fascista.
I governi che si susseguirono nel corso della Guerra di Liberazione promulgarono due bandi per l’arruolamento di volontari, emessi però in condizioni e con obiettivi molto diversi.
Dopo il 25 luglio, i partiti riammessi all’agone politico dopo la destituzione di Mussolini, sopratutto quelli con un’anima più “rivoluzionaria” come il Partito d’Azione ed il Partito Comunista Italiano, si diedero da subito una politica militare che avrebbe dovuto fare i conti con il Regio Esercito e con il suo ruolo istituzionale. Il PCI chiese al governo di siglare la pace con gli Alleati e di iniziare la guerra contro i tedeschi <1273. Con l’Armistizio i comunisti, assieme agli altri partiti antifascisti, tentarono la costituzione di una Guardia Nazionale – un nome che rimandava a fasti risorgimentali e giacobini – che potesse affiancare le truppe regolari nella lotta contro i tedeschi. Ogni tentativo fu frustrato dal rifiuto dei militari di armare delle formazioni politicizzate <1274.
All’indomani dell’8 settembre, Ferruccio Parri ribadì agli stupiti rappresentanti dei servizi segreti americani la sua intenzione di organizzare un’armata di volontari da affiancare alle truppe regolari nella lotta contro i tedeschi, suscitando in Allen Dulles una certa diffidenza. Nei mesi seguenti, il Partito d’Azione fu fra i maggiori assertori del volontarismo come mezzo di rinnovamento delle forze armate <1275.
Il giorno dell’armistizio, le richieste di armi da parte dei “volontari” si moltiplicarono <1276. Come ricorda Giuseppe Conti, ci fu chi cercò di fare del volontariato antifascista «uno strumento nuovo di guerra, in contrapposizione all’ormai superato esercito monarchico», ma anche chi cercò di organizzare un volontariato meno politico e ostile alle forze armate regie <1277.
Con lo stabilizzarsi della situazione nel “Regno del sud”, Badoglio cercò di regolare definitivamente la questione. Nella porzione di terre liberate i volontari cominciarono ad essere arruolati da privati cittadini più o meno vicini ai partiti, allo scopo di dimostrare la volontà degli italiani di combattere e di sottrarre alla monarchia il monopolio dell’ancora inesistente sforzo bellico per il concorso alla liberazione della penisola. A Bari l’iniziativa passò nelle mani degli antifascisti, nella forma di un manifesto affisso a firma del Fronte Nazionale d’Azione, composto dai quattro partiti presenti in città. Il Prefetto ordinò l’arresto del tipografo e dei due esponenti del PdA e del PCI responsabili di aver diffuso dei manifestini incoraggianti per l’arruolamento <1278. Allo stesso tempo, un gruppo di monarchici organizzò una colonna volontari che avrebbe dovuto tanto combattere i tedeschi, quanto puntellare la monarchia di fronte ad una temuta rivolta comunista, che si sarebbe dovuta manifestare anche durante il congresso di Bari nel gennaio del 1944 <1279.
Il IX Corpo d’Armata propose di organizzare un vero e proprio «partito dell’ordine» con i reduci della Grande guerra, in modo da contrastare l’efficace propaganda del PCI <1280. Questa vicenda non rimase isolata nei confusi giorni successivi all’8 settembre, dato che «Comitati di volontari di guerra e Comitati d’azione» erano presenti in molte città pugliesi <1281. Lo stesso Badoglio decise di bloccare ogni tentativo di organizzare «irresponsabili bande di volontari», almeno nelle province sotto la sua giurisdizione, precisamente per assicurare l’ordine pubblico alle spalle degli eserciti alleati da poco sbarcati in Italia. In fin dei conti, «a coloro i quali fossero effettivamente animati da volontà di combattere, si era data la possibilità di arruolarsi in reparti regolari dell’Esercito» <1282. Il 10 ottobre 1943 Badoglio diramò una circolare ai prefetti, nella quale ribadì che: “nessun individuo, ente o associazione è autorizzato alla formazione di bande di volontari. Solamente l’Esercito è incaricato di ricevere, armare e istruire volontari. Chiunque operi contrariamente a queste tassative disposizioni sarà immediatamente arrestato e deferito al Tribunale di Guerra. Le bande eventualmente costituite o in corso di costituzione, vanno immediatamente sciolte e diffidati i promotori ad astenersi da ulteriori attività in merito” <1283.
In questo modo Badoglio cercò di rassicurare Vittorio Emanuele, che «mostrava di avere una fiducia più piena in Roatta, Ambrosio e gli altri militari “puri”, ostilissimi al volontariato». Per questo il 10 ottobre diffidò ogni cittadino dall’arruolare privatamente reparti volontari, ponendo un freno ai movimenti apparentemente appoggiati anche dagli alleati, come i Gruppi Combattenti Italia del generale Giuseppe Pavone <1284. Chiunque avesse voluto far guerra ai tedeschi avrebbe dovuto usare gli ordinari canali istituzionali. Questi vennero aperti dal Bando 8 del 28 ottobre 1943, con cui Ambrosio ordinò che fossero costituiti dei reparti composti unicamente da volontari da affiancare alle unità regolari <1285. I termini d’arruolamento previsti dal Bando 8 non mancarono di deludere quei partiti che avevano chiesto a gran voce una riforma dell’Esercito. “Si proibiscono dapprima come criminali di lesa maestà gli arruolamenti di volontari e quando, dopo la mortificazione prodotta dal troppo indugiare, lo slancio volontaristico è stato sviato e ridotto, si indicono arruolamenti concepiti con la tipica mentalità delle caserme per la quale un uomo è un numero e non già il portatore di un’esperienza e di un’idea” <1286.
[NOTE]
1270 ISNENGHI, Le guerre degli italiani…, p. 317.
1272 Vedi SANNA Daniele, Riorganizzazione e ridimensionamento del regio esercito durante la luogotenenza (giugno 1944 – giugno 1946), in «Amministrare. Rivista quadrimestrale dell’Istituto per la Scienza dell’Amministrazione pubblica», n. 1, 2010, pp. 248-250; CONTI, Aspetti della riorganizzazione…; pp. 100-103.
1273 Pavone, Una guerra civile…, p. 11.
1274 In questo senso andò una delle prime azioni del Fronte Nazionale costituito a Napoli, cui partecipò fra gli altri il futuro sottosegretario comunista al Ministero della Guerra, Mario Palermo, assieme a Pasquale Schiano, Adriano Reale e Vincenzo Arangio Ruiz. La speranza fu quella di convincere il generale Del Tetto, responsabile della difesa di Napoli, ad armare delle bande popolari. Le armi non furono date, PALERMO, Memorie…, pp. 159-160.
1275 PAVONE, Una guerra civile…, pp. 10-11; POLESE REMAGGI Luca, La nazione perduta. Ferruccio Parri nel Novecento italiano, Il Mulino, Bologna 2004, pp. 231-232; DE LUNA Giovanni, Storia del Partito d’Azione. La rivoluzione democratica (1942/1947), Feltrinelli, Milano 1982, pp. 99-101. CONTI, Aspetti della riorganizzazione…, pp. 101-103.
1276 Il comitato antifascista di Venezia chiese all’aiutante di campo del duca di Genova (che nel frattempo era fuggito) di poter essere armato per formare una «Legione Veneta» forte di 1.500 uomini, ma ottenne un secco rifiuto. A Ravenna le richieste di armi incontrarono l’opposizione del generale Carabba. A Novara il rifiuto venne dal generale Sorrentino, che comunque promise di armare una “Guardia Nazionale”. A Torino Adami Rossi non ricevette i rappresentati politici che chiedevano di essere armati, e lo stesso accadde nella Milano del generale Ruggero, che consegnò ottanta fucili il 9 settembre ma, dopo la resa ai tedeschi del 10, fece affiggere un proclama che minacciava di passare per le armi chiunque avesse accennato ad una resistenza. A Firenze il generale Chiappi usò un po’ di tatticismo incoraggiò i comunisti ad organizzarsi, salvo poi rifiutare loro le armi. A Piombino, nonostante l’opposizione dei comandi militari i “partiti” riuscirono anche a respingere un primo sbarco tedesco, ma Cesare Maria De Vecchi ordinò poi di liberare i prigionieri e di non aprire il fuoco sulle truppe tedesche. A Napoli il Comitato dei Partiti Antifascisti propose al comandante militare della città di armare il popolo LONGO Luigi, Un popolo alla macchia, Mondadori, Milano 1952, pp. 54-55, pp. 91-92; SPRIANO, Storia del partito comunista italiano. 7. La Resistenza, Togliatti e il partito nuovo, Einaudi, Torino 1975, pp. 24-37. Per entrare nel campo delle testimonianze, in questo senso vanno sia il racconto di Pasquale Plantera, che avrebbe partecipato allo sfortunato tentativo di fermare delle autocolonne tedesche tentato dal 5º Reggimento Bersaglieri a Volterra; sia quello di Alvaro Sabatini (Marco), che, assieme ad altri, avrebbe cercato di organizzare una difesa organizzata a Montepulciano. Sia Plantera che Sabatini sarebbero poi stati tra i partigiani senesi arruolatisi volontari del Gruppo “Cremona”. Vedi testimonianza di Pasquale Plantera (Serpente), e quella di Alvaro Sabatini (Marco) in Lo strano soldato…, p. 304, pp. 327-328; di natura molto diversa la “brigata proletaria” composta da operai di Monfalcone che avrebbero cercato di difendere le infrastrutture dove lavoravano, Voce Trieste, brigata Garibaldi, in COLLOTTI, SANDRI, SESSI (a cura di), Dizionario della Resistenza, vol II., Luoghi, formazioni, protagonisti, Torino, Einaudi, 2006, p. 234.
1277 CONTI, Aspetti della riorganizzazione…, p. 96; vedi anche PAVONE, I Gruppi Combattenti Italia. Un fallito tentativo di costituzione di un corpo di volontari nell’Italia Meridionale (settembre-ottobre 1943), in «Il Movimento di Liberazione in Italia», 1955, f. 1-2, n. 34-35, pp. 80-119.
1278 DEGLI ESPINOSA, Il regno del sud…, pp. 41-42, vedi anche p. 181. Dell’episodio parla anche PAVONE, I Gruppi Combattenti Italia…, pp. 82-83. ALOSCO A., L’arresto dei liberalsocialisti di Bari nel 1943, in «Annali dell’istituto Ugo La Malfa», vol. III, 1987.
1279 Il gruppo dirigente della colonna fu processato dal Tribunale Militare Territoriale di Bari nel gennaio del 1945, proprio a causa delle azioni violente che avrebbe organizzato in vista del congresso dei CLN, vedi ASBa, Tribunale Militare Territoriale di Guerra di Bari, vol. 9, Sentenze 1945, come citato in LEUZZI Vito Antonio, Lotta politica dopo l’8 settembre 1943. Reazione monarchica e organizzazione di una colonna armata contro il Congresso di Bari dei Cln, in SOVERINA, 1943…, pp. 236-239.
1280 ACS, PCM Napoli-Salerno 1943-1944, c. 4, n. 10 Situazione politica interna, sf. 9, Propaganda del partito comunista, Comando del IX Corpo d’Armata. Ufficio Affari Civili, prot. N. 349/AC/Ris, Combattenti della guerra 1915-1918.-, 19 novembre 1943.
1281 ACS, PCM Brindisi-Salerno, 1943-’44, c. 2-6, f.1, CC.RR. Italia merid., 4 ott. ’43, n. 23-1 prot., in CONTI, Aspetti della riorganizzazione…, p. 96n.
1282 BADOGLIO Pietro, L’Italia nella seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano 1946, p. 281.
1283 ACS, PCM Brindisi-Salerno, 1943-’44, c. 3-5, telegramma di Badoglio ai prefetti, 10 ott. ’43, n. 513, in CONTI, Aspetti della riorganizzazione…, p. 98.
1284 PAVONE, I Gruppi Combattenti Italia…, p. 101; un impressione, quella sull’isolamento di Badoglio rispetto a Vittorio Emanuele III e alla cerchia dei capi di stato maggiore, Roatta e Ambrosio in testa, confermata anche da Piero Pieri e Giorgio Rochat in PIERI Piero, ROCHAT Giorgio, Badoglio, UTET, Torino 1974, pp. 828-829.
1285 Raccolta ufficiale dei provvedimenti emanati dal governo italiano dall’8 settembre all’8 luglio 1944, Roma, 1944, p. 44, Bando del 28 ottobre 1943, n. 8, Arruolamento volontari nel Regio Esercito, emanato nella «Gazzetta Ufficiale», 27 novembre ’43, n. 3-B.
1286 «L’Italia del Popolo», n. 4, 19 nov ’43, Esercito e Milizia, p.2, citato in CONTI, Aspetti della riorganizzazione…, p. 100.
Nicolò Da Lio, Il Regio Esercito fra fascismo e Guerra di Liberazione. 1922-1945, Tesi di dottorato, Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”, 2016

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Le carte passano senza soluzione di continuità

A seguito del bombardamento [su Roma] del luglio 1943, l’unico ufficiale amministrativo in forza al Cerimoniale e propaganda fu distaccato al Servizio sinistrati creato in seno alla Ripartizione V. Il provvedimento ratificò sostanzialmente il momentaneo blocco delle attività dell’Ufficio, privato così del terzo funzionario nel grado gerarchico dopo Moneta – assente perché richiamato nell’esercito – e il suo vice Arnaldo Galeazzi.
La situazione in cui si venne a trovare l’Ufficio negli ultimi mesi del regime è fotografata da una delle tante relazioni che periodicamente erano redatte dai responsabili degli uffici per esporre lo stato dei servizi <27. Il rapporto fu stilato nelle giornate immediatamente successive all’8 settembre 1943 e consegnato a Renato Melis De Villa, rimasto a capo del Gabinetto anche con il commissario straordinario Riccardo Motta, subentrato a Borghese dopo gli eventi di fine luglio. Il documento porta la firma di Galeazzi, che aveva nel frattempo assunto la reggenza dell’Ufficio quando anche Moneta era partito per il fronte. Dal tono dignitoso emerge la volontà di far risaltare l’impegno dei funzionari nel perseguire gli obiettivi in capo all’Ufficio, pur fra inevitabili ritardi e nell’inadeguatezza di risorse disponibili. Gli effettivi erano infatti passati dai quattordici della vigilia della guerra a quattro, fra cui un’impiegata mobilitata civile a mezzo servizio: «Con l’attuale personale è possibile, data la notevole diminuzione dell’attività dell’Ufficio, mantenere efficienti, sia pure in forma ridotta, i vari servizi e svolgere regolarmente e con la necessaria sollecitudine le nuove attività affidate all’Ufficio in dipendenza delle attuali contingenze» <28.
[…] Il 21 settembre 1943, pochi giorni dopo aver ricevuto la relazione di Galeazzi, Motta sospese «provvisoriamente» le delibere che avevano costituito i servizi del cerimoniale e della propaganda in organo proprio e li riassegnò al Gabinetto, sanzionando di fatto la fine dell’esistenza autonoma dell’Ufficio del cerimoniale e dei servizi della propaganda <32. L’attività, in ogni caso, proseguì a un ritmo sempre più blando fino al 1945, cessando definitivamente poco dopo la soppressione della struttura governatoriale, di cui era stata diretta espressione e nella quale, di fatto, l’opera dell’Ufficio si risolveva per intero.
[…] L’attività dell’Ufficio cerimoniale e propaganda fu talmente ritualizzata e fissata nelle sue pratiche da superare praticamente indenne i numerosi rivolgimenti istituzionali abbattutisi in breve tempo sulla capitale: la caduta del regime, la dichiarazione della città ‘aperta’, l’occupazione tedesca e, in seguito, l’arrivo dell’esercito alleato con il conseguente disfacimento dell’amministrazione governatoriale. Il cambiamento di registro – o, piuttosto, la sua assenza – nella ridefinizione degli obiettivi fu esemplare. Negli ultimi due anni di attività, le difficoltà del doversi relazionare con referenti sempre nuovi non intaccarono le modalità di lavoro dell’Ufficio. Gli stessi funzionari che avevano accolto sulla piazza del Campidoglio l’auto del generale tedesco Rainer Stahel, responsabile della Wehrmacht a Roma, predisposero qualche tempo dopo la cerimonia per il passaggio di consegne dal comando statunitense a Doria Pamphilj <73. Allo stesso modo, le carte passano senza soluzione di continuità, senza interruzioni nella numerazione di protocollo e senza un evidente cambiamento nella forma – che non sia la sbrigativa cancellazione dei riferimenti passati dalle carte intestate – dalla colazione offerta al comando germanico in Campidoglio alla celebrazione dell’indipendenza degli Stati Uniti d’America, dalla distribuzione della Befana fascista alla commemorazione dell’eccidio delle Fosse Ardeatine <74.
[…] Dopo la destituzione di Mussolini, il 25 luglio del 1943, Riccardo Motta, ex prefetto e senatore del Regno, fu posto a capo dell’amministrazione nuovamente commissariata. Divenuto in breve inviso agli occupanti tedeschi <105, con la proclamazione della Repubblica sociale fu arrestato e sostituito da Giovanni Orgera. Uomo del regime, a lungo podestà di Napoli, Orgera fu nei primi mesi del 1944 un semplice ‘passacarte’ alla mercé del comando tedesco <106, e fuggì poi dalla capitale poco prima dell’arrivo degli Alleati nel giugno seguente <107. Nelle giornate successive, fu il generale Roberto Bencivenga, referente a Roma del ‘Regno del Sud’ quale comandante del Fronte militare clandestino <108, a reggere il Campidoglio come commissario straordinario. In seguito, il comando militare alleato, di concerto con il governo di Ivanoe Bonomi, affidò l’amministrazione a Filippo Andrea Doria Pamphilj – nuovamente un esponente della nobiltà -, che guidò una giunta nominata dai partiti del Comitato di liberazione nazionale fino all’autunno del 1946.
[…] Testa ricoprì l’incarico di segretario fino all’inizio del 1944, quando, sgradito ai nuovi vertici, le contingenze lo costrinsero a farsi da parte. Resosi irreperibile, nell’aprile successivo l’amministrazione lo collocò a riposo. Fu sostituito prima da Mario Bedoni, quadro capitolino di provata fede politica, e poi da Americo Beviglia, comandato invece dall’esterno; dopo la presa di potere da parte degli Alleati, l’incarico di segretario generale fu affidato a Gino Crispo, anch’egli un funzionario interno <168.
Testa fu in seguito definitivamente allontanato quando il ritorno al comune elettivo comportò la soppressione della carica. Proprio la posizione assunta fra i ruoli ministeriali, che la legislazione sul Governatorato gli aveva imposto, rese impossibile il rientro di Testa nella funzione comunale. Il Consiglio di Stato infatti – cui Testa ricorse – riconobbe il bisogno di tutela dell’autonomia municipale dall’ingerenza dello Stato, negandogli di riprendere servizio in Campidoglio <169. Il restaurato clima politico liberale sconsigliò quindi una pronuncia in suo favore, che avrebbe comportato di fatto l’imposizione di un funzionario statale in un’amministrazione locale <170. La sentenza anticipò un rinnovamento nel rapporto fra Stato ed enti locali, di lì a poco incorniciato normativamente dalla carta costituzionale; prefigurava altresì un cambiamento nel ruolo del segretario comunale e un suo possibile ritorno nei ranghi del comune che, invece, non si sarebbe verificato.
[NOTE]
27 Le risultanze di queste relazioni venivano inoltre utilizzate per pubblicizzare l’attività svolta dal Governatorato su «Capitolium», alla cui redazione i capi ripartizione dovevano fare pervenire entro il primo di ogni mese eventuali
notizie ritenute di utile pubblicazione. Cfr. ASC, UCP, Carteggio, b. 38, f. 7, «Raccolta notizie per la rivista Capitolium», nota del capo di Gabinetto ai capi ripartizione, 14 settembre 1940.
28 ASC, UCP, Carteggio, b. 48, f. 11, «Attività attualmente svolta dall’Ufficio e curata dagli impiegati rimasti in servizio o parzialmente trasferiti in seguito alle attuali contingenze», 16 settembre 1943, p.2
32 Deliberazione del commissario straordinario n. 2800 del 21 settembre 1943.
73 ASC, UCP, Carteggio, b. 47, f. 2, «Visita del generale Stäel comandante Città aperta», appunto di Moneta. 28 ottobre 1943; ivi, b. 49, f. 1, «Cerimonia di conferimento dei poteri civili al sindaco p.pe Doria Pamphili da parte dell’autorità militare americana gener. Brig. Hume», 1944.
74 Addirittura, sono conservate in uno stesso fascicolo sia la pratica relativa alla colazione per gli occupanti tedeschi che quella sulla conferenza tenuta pochi mesi dopo dal dottor Attilio Ascarelli (capo della Commissione Cave Ardeatine da luglio a novembre 1944), al termine delle esumazioni per il riconoscimento delle vittime. Ivi, b. 49, f. 18. Per un dettagliato riepilogo del lavoro svolto dalla commissione e delle relative carte, cfr. Martino Contu – Cecilia Tasca – Mariano Cingolani, I verbali inediti di identificazione dei Martiri Ardeatini: 1944-1947, Cagliari, AM&D, 2012.
105 Secondo una nota trasmessa della Presidenza del Senato all’Alta corte di giustizia per le sanzioni contro il fascismo, Motta «fu arrestato dalle autorità nazifasciste per aver svolto opera di costante ostruzionismo e di sabotaggio», in Archivio storico del Senato della Repubblica, Fascicoli dei senatori, «Motta Riccardo», nota n. prot. 187/13 del 10 ottobre 1945.
106 È noto l’omaggio rivolto a nome della città alle vittime dell’azione di via Rasella, in ASC, GS, Carteggio, b. 2274, f. 3, telegramma inviato da Orgera al comando germanico di Roma, 24 marzo 1944.
107 Poco dopo la partenza di Orgera furono rinvenute, nei locali del Governatorato, documenti relativi a conti intestati a suo nome insieme a carte d’identità in bianco, in ASC, GS, Carteggio, b. 2222, f. 4, «Ragioneria ed economato», 1944.
108 Il Fronte militare clandestino fu un’organizzazione resistenziale che riuniva molti degli ufficiali delle forze armate italiane che avevano scelto di sottrarsi all’autorità della Repubblica sociale. Operò nel centro Italia, in particolare a Roma, dal settembre 1943 al giugno del 1944, e fu riconosciuto ufficialmente dal governo di Brindisi quale proprio rappresentante nella capitale occupata.
168 ASC, Segretariato generale, Carteggio, b. 847, titolo II, cl. 1, sottocll. 1 e 4, marzo – giugno 1944; cfr. anche «Posizione Testa», in ivi, b. 986, f. 12, 1947.
169 Si veda la copia della decisione del Consiglio di Stato, in ivi, b. 942, titolo II, cl. 12, sottocl. 20, 1946.
170 Testa proseguì in seguito la propria carriera proprio come consigliere di Stato, presso le Sezioni IV e VI. Fu infine collocato a riposo il 4 giugno 1959. Cfr. XL Annuario del Consiglio di Stato, Roma, Istituto poligrafico dello Stato, 1967, p. 105.
Paolo Saverio Pascone, L’immagine di Roma. Le carte dell’Ufficio del cerimoniale e dei servizi della propaganda e dell’Ufficio studi del Governatorato di Roma (1935-1945), Tesi di dottorato, Università degli Studi “Sapienza” – Roma, 2019

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Vario fu l’atteggiamento del movimento partigiano nei confronti dei disertori tedeschi

Il contributo che i disertori [tedeschi] diedero alla lotta di Liberazione è di difficile valutazione dal punto di vista strettamente militare, perché per molti di loro non si hanno sufficienti informazioni, mentre in molti altri casi le informazioni disponibili provengono da un’unica fonte (ovvero partigiana) e furono prodotte spesso in momenti particolari che ci costringono per lo meno ad interrogarci sulla loro attendibilità (vale a dire in previsione cioè del rimpatrio nei paesi d’origine o in vista del lavoro delle commissioni per il riconoscimento delle qualifiche partigiane).
Si deve comunque considerare come molto spesso ad unirsi alle forze ribelli furono soldati che avevano già in passato combattuto su diversi fronti; la loro esperienza poté quindi rappresentare un valido aiuto, per un esercito come quello partigiano che era in buona parte costituito da civili con scarsi precedenti di guerra.
Deve essere valutato anche il contributo offerto da quanti, pur non lasciando le fila del proprio esercito, collaborarono in modi differenti fornendo, ad esempio, armi e materiale o informazioni di carattere militare (spostamenti delle truppe, loro armamento, nominativi circa le persone con ruoli di comando, morale all’interno delle formazioni). Degni di ulteriori ricerche sono anche gli episodi che videro il supporto della popolazione civile e degli enti religiosi a questi soldati in fuga in Italia, sia durante che al termine del conflitto.
Vario fu l’atteggiamento del movimento partigiano nei confronti di quanti si consegnarono alle formazioni ribelli. La diserzione venne sicuramente considerata un fattore importante, sia da parte dei partigiani che degli alleati per lo svolgimento della guerra, come dimostrano i vari appelli lanciati in tal senso tramite volantini o altro materiale. Non mancarono però atteggiamenti di diffidenza, in particolare verso i disertori di origine germanica, motivati dal timore che tra di esse si potessero nascondere spie e infiltrati. Fondamentali per il giudizio dei partigiani erano anche le condizioni nelle quali questi soldati disertavano (ad esempio portando o meno con sé le armi) o venivano fatti prigionieri (opponendo o meno resistenza).
In alcuni casi, soprattutto negli ultimi mesi di guerra, si provvide a far loro “passare il fronte”, consegnandoli cioè agli alleati, sia perché essi stessi non intendevano continuare a combattere a fianco dei partigiani, sia perché il loro numero era aumentato in modo eccessivo e ciò poteva rappresentare un ostacolo a livello organizzativo, trattandosi spesso di persone che avevano disertato principalmente perché avevano riconosciuto come ormai persa la guerra.
Sicuramente le scelte dei disertori della Wehrmacht contribuirono anche al fatto che si iniziasse a valutare il nemico non più come un blocco omogeneo, ma a riconoscerne le specificità e le differenze (provenienza geografica, carriera militare, ruolo nell’esercito). Tali dettagli vennero a volte utilizzati come elemento discriminante nel decidere riguardo la prigionia, l’ingresso nelle formazioni o ancora l’uccisione di quanti venivano catturati, ma vennero anche sfruttati proprio per indebolire il fronte avversario, come nel caso degli specifici appelli alla diserzione lanciati da partigiani e alleati.
Questa differenziazione su base etnica ebbe però anche la conseguenza di relegare ai margini il riconoscimento nei confronti di quei soldati provenienti dalla Germania che decisero di ribellarsi al nazifascismo in Italia e di continuare la guerra all’interno delle formazioni partigiane. Ad essere riconosciuto, al contrario, fu il contributo soprattutto di sovietici e jugoslavi, sia perché rappresentavano una maggioranza all’interno di queste formazioni, sia perché facenti parti di nazioni che uscirono come vincitrici dalla guerra, sia infine per le affinità ideologiche di molti di questi con le bande partigiane di ispirazione comunista. Ricordare il contributo dei soldati provenienti dal blocco sovietico significava (anche) contrapporsi alla forza politica e militare americana, che nei nuovi equilibri creatisi in seguito alla guerra aveva nella Germania federale uno dei suoi primi alleati strategici in Europa. Come già riportato al termine del V capitolo, furono poi gli stessi soldati provenienti da questi paesi ad aver maggior interesse a veder riconosciuto, anche tramite i certificati prodotti nel dopoguerra, il ruolo che essi avevano svolto all’interno delle formazioni partigiane italiane, attestati che avrebbero anche dovuto avere una funzione riabilitativa rispetto alla loro passata militanza nell’esercito nazista.
Anche questo aspetto, come gli altri messi in luce nel VI capitolo, fece sì che molte delle esperienze di lotta dei soldati tedeschi andarono perse nel dopoguerra; circostanza questa che contribuì così al consolidarsi nella storiografia italiana di un’immagine che identificava il nemico nel “cattivo tedesco” <632 e che non contemplava la possibilità che ci potesse essere, anche tra questi soldati, chi si fosse ribellato alla guerra nazista.
Ricostruire la storia di quanti decisero di abbandonare le fila dell’esercito nazista, pur con la molteplicità di motivazioni che fu alla base di tali scelte, ci permette viceversa di porre in discussione questa costruzione e di ribadire il ruolo di internazionalità della lotta al nazifascismo.
Ci aiuta però anche a ricordare come, anche nelle condizioni più difficili, ci furono persone capaci di interrogarsi e riflettere sulla giustezza o meno del proprio comportamento e di quanto veniva loro ordinato di fare, insegnamento questo in grado di superare ogni limite temporale e geografico.
Forse le loro storie ci aiutano anche a rispondere a quanto affermò alcuni anni fa Nuto Revelli, che aveva prima combattuto in Russia ed era poi stato partigiano in Italia, il quale ripensando alla sua esperienza in guerra scrisse: “Non provo alcuna pietà nei confronti dei tedeschi. Ma se è esistito anche un solo tedesco diverso dall’immagine che io mi ero fatto di loro, vorrei proprio conoscerne la storia” <633.
[NOTE]
632 Filippo Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano, cit. Su questo tema anche Massimo Castoldi (a cura di), 1943-1945: i «bravi» e i «cattivi». Italiani e tedeschi tra memoria, responsabilità e stereotipi, Donzelli Editore, Roma, 2016.
633 Nuto Revelli, Il disperso di Marburg, Einaudi, Torino, 1994, p. 35.
Francesco Corniani, “Sarete accolti con il massimo rispetto”: disertori dell’esercito tedesco in Italia (1943-1945), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 2016-2017

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Il Mitte Berlinoilmitteberlino
2025-08-29

Dal 2027 visita medica per l'idoneità obbligatoria per i nati dal 2008 in poi, ma non solo. Ma la riforma Pistorius non convince la CDU: "Inefficace, la Germania non sarà in grado di difendersi".

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Le Forze Armate italiane nella NATO: dottrine e compiti

Prima ancora che la NATO adottasse ufficialmente la dottrina della “difesa avanzata”, le caratteristiche geostrategiche del fronte italiano resero obbligata la scelta di condurre la difesa aeroterrestre al Brennero e tra i fiumi Isonzo e Tagliamento, a ridosso del confine nordorientale, che appariva come il meglio difendibile: la sua estensione non superava i 70 km, dunque era ridotta, poggiava per gran parte sull’arco alpino o su terreno collinare adatto alla difesa, salvo che nella piana di Gorizia, la quale peraltro avrebbe potuto essere fortificata. Inoltre, i pochi assi di penetrazione percorribili dall’Ungheria, vale a dire dalla linea di attacco più prevedibile delle forze sovietiche e dei loro alleati, erano particolarmente vulnerabili all’offesa aerea e all’impiego di armi nucleari.
La scelta di soluzioni alternative, per contro, avrebbe comportato lo sbocco dell’aggressore nella pianura padana, dove la resistenza delle forze di difesa italiane si sarebbe rivelata ben più difficile. Infatti, nell’eventualità in cui fosse riuscito a stabilizzare una linea di difesa sull’Appennino e le Alpi occidentali, l’aggressore avrebbe rescisso il collegamento tra il fronte centrale e quello meridionale della NATO, si sarebbe impadronito di tre quarti del potenziale bellico nazionale (concentrato nel triangolo Milano-Torino-Genova) e avrebbe potuto creare un governo collaborazionista; ipotesi quest’ultima che, considerata la forza e il seguito del Partito comunista italiano, era tutt’altro che peregrina.
I perni della struttura difensiva italiana erano dunque il Brennero, il sistema Cadore-Carnia, la zona prealpina di Udine, la zona collinare e di pianura tra l’Isonzo e il Tagliamento, il Carso e Trieste, la Laguna veneta <84.
Per quanto concerne invece i compiti assegnati alle varie forze, essi erano i seguenti. Per l’Esercito, difendere soltanto con le proprie forze la frontiera orientale in attesa delle forze aeree statunitensi che avrebbero potuto raggiungere lo scacchiere orientale italiano, ad esempio decollando da portaerei in navigazione nel Mediterraneo. Questa capacità di resistenza avrebbe dovuto esercitarsi per tutto il tempo necessario a consentire la mobilitazione delle forze americane e di quelle NATO, una parte delle quali sarebbe stata destinata a supportare direttamente le truppe italiane sul fronte orientale della penisola. Oltre a questo compito prioritario, all’Esercito italiano era richiesto, come compito secondario, di tenere il controllo di tutto il Paese dal punto di vista dell’ordine pubblico. Per quanto concerne invece la Marina, ad essa era affidato l’incarico di operare come scorta dei convogli alleati nel Mediterraneo e di garantire la difesa costiera della penisola, oltre a supportare, in funzione comprensibilmente subalterna, il mantenimento del dominio navale alleato nell’area mediterranea e a consentire l’esplicazione del potere aeronavale alleato. L’Aeronautica, infine, dal momento che all’epoca era la Forza Armata più debole e antiquata di tutte, non avrebbe avuto altri compiti se non quello di concorrere, con mezzi limitati, all’azione delle altre forze <85.
Fu in questo periodo iniziale di partecipazione italiana all’Alleanza che si dimostrarono determinanti gli aiuti economici e militari statunitensi intesi ad accelerare la ricostruzione delle strumento militare italiano e, al tempo stesso, il suo ammodernamento <86.
Tutto questo sostegno non era ovviamente casuale, ma intendeva significare, in concreto, l’attenzione che gli Stati Uniti e, in subordine, la NATO attribuivano all’Italia quale caposaldo dello schieramento atlantico in Europa, un caposaldo che non intendevano assolutamente perdere e che anzi erano decisi a difendere dalle posizioni più avanzate possibili, in quanto perfettamente consapevoli del fatto che, se un’eventuale offensiva sovietica fosse riuscita a sfondare e a dilagare nella pianura padana, l’intero fianco Sud della NATO avrebbe rischiato di essere aggirato e la difesa occidentale sarebbe stata spinta all’indietro, fino alla penisola iberica, con conseguenza gravissime <87.
Su questo sfondo, resta ovviamente irrisolta la diatriba tra chi riteneva che l’allineamento atlantico del nostro Paese fosse una scelta determinata dalla volontà o imposta dalla necessità e chi riteneva invece che, pur partecipando allo schieramento atlantico, sarebbe stato preferibile, per l’Italia, adottare un atteggiamento meno passivamente prono agli interessi degli alleati e in particolar modo degli americani e più attento, per contro, alla tutela dell’interesse nazionale, senza peraltro dimenticare il fatto che, in quel periodo, non pareva chiaro né alla dirigenza politica né a quella militare quale fosse realmente il nostro interesse nazionale <88.
A livello dottrinale, vale a dire di elaborazione della dottrina operativa delle Forze Armate italiane <89, le prime pianificazioni postbelliche riguardarono l’organizzazione difensiva (1948), le operazioni combinate avioterrestri (1949), la difesa su ampi fronti (1950) e la cooperazione avioterrestre (1951).
La prima serie dottrinale dell’Esercito fu la 3000, elaborata a cavallo tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta, che fu anche l’ultima delle concezioni dottrinali ispirate a una visione del conflitto di tipo esclusivamente convenzionale <90.
La regolamentazione successiva, che risale al 1958-60 (circolari della serie dottrinale 600), rifletteva invece i principi della dottrina NATO della “rappresaglia massiccia”, adottata dall’Alleanza nel 1954. Si prevedeva infatti la costituzione di due posizioni difensive, poste a distanza di 50-90 km l’una dall’altra, il cui compito era quello di attirare le forze attaccanti nei punti più vulnerabili al fuoco nucleare. Non era prevista, peraltro, una manovra controffensiva su larga scala, il che la dice lunga su quello che era considerato il ruolo delle forze italiane, relegato di fatto a compiti di mera resistenza passiva, da esercitare fino a che non si sarebbe manifestato, sul terreno, il supporto militare alleato, soprattutto americano.
La serie dottrinale 600, approvata nell’aprile del 1958, fu comunque molto apprezzata, soprattutto negli USA, dove fu addirittura oggetto di studio e di insegnamento. Si trattava, infatti, della prima normativa di impiego elaborata da un esercito occidentale che prevedeva l’uso di armi atomiche e cercava di valutarne concretamente gli effetti tanto per chi difendeva quanto per chi attaccava <91. Come tale, era certamente ricca di spunti dottrinali di interesse non trascurabile, anche perché enormi erano gli interrogativi che gravavano sulla reale possibilità di condurre operazioni efficaci in ambiente pesantemente contaminato. Ogni contributo dottrinale in tal senso, quindi, era il benvenuto, anche se tutti parevano complessivamente alquanto ottimistici sul tema dell’operatività dei reparti dopo uno scambio di fuoco nucleare, in quanto era difficilissimo individuare l’entità delle distruzioni che avrebbero avuto luogo.
[NOTE]
84 Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica…, cit., p. 79 sg.
85 Enea Cerquetti, Le Forze armate italiane dal 1945 al 1975…, cit., p. 97.
86 Ibidem, p. 99 sg.
87 Enea Cerquetti, Le Forze armate italiane dal 1945 al 1975…., cit., p. 118.
88 Ibidem, p. 150 sg.
89 La dottrina militare è una delle due diverse e fondamentali fonti della tattica militare (l’altra fonte sono gli ordini di operazione), fornisce gli orientamenti per l’impiego delle forze nei casi medi. È contenuta in circolari e pubblicazioni delle serie dottrinali, il cui aggiornamento consegue o ad una mutata visione strategica ovvero a profondi cambiamenti nell’organizzazione delle Forze Armate. Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Tattica_militare
90 Enea Cerquetti, Le Forze Armate italiane dal 1945 al 1975…, cit., p. 107.
91 Ibidem, p. 186 sgg.
Roberto Pistoia, L’Italia e la NATO dal 1949 al 1989, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2012-2013

Nelle prospettive della NATO, la flotta all’inizio era considerata una struttura di sostegno rispetto all’enfasi sulle forze di terra, impegnate a contrastare l’armata rossa per mantenerla quanto più possibile distante dalle regioni occidentali, alle quali si richiedeva di garantire le linee di comunicazione e l’azione di ricognizione.
Questo disegno strategico si fondava sul convincimento che il controllo delle regioni europee avrebbe determinato le sorti d’ogni conflitto con Mosca.
Perciò, la marina insisteva perché la linea di difesa si concretizzasse quanto più possibile ad est dei confini della cortina di ferro e la flotta costituisse una percentuale considerevole di tutta la forza militare degli Alleati; tuttavia, per rendere effettiva la deterrenza, si confermò la centralità del sistema difensivo terrestre, affiancato però da un consistente concentramento di forze aeree e navali.
La scelta indusse ad approfondire le strategie per coordinare meglio tutti i soggetti impegnati nel teatro, di conseguenza, si incominciò a considerare con maggiore attenzione il Mediterraneo e la sesta flotta, rimasta sempre sotto comando statunitense.
Alessia Cherillo, I rapporti tra l’Unione Europa e la NATO, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Napoli “Federico II”, Anno Accademico 2011-2012

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