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Di fatto, cioè, la Guerra fredda fu una sfida per l’acquisizione del potere in tutte le sue forme da parte delle due superpotenze

Vista la mancanza di accordo tra studiosi ed esperti e considerate le nuove domande di cui si arricchisce, in generale, la storia internazionale <14, la storiografia sulla Guerra fredda è molto ampia e destinata, con buone probabilità, ad arricchirsi ulteriormente: come ha sottolineato Federico Romero, questa pluralità di punti di vista e di diverse prospettive rivela la difficoltà di individuare l’oggetto dello studio o, in altre parole, la difficoltà di definire quale sia la natura della Guerra fredda.
[…] Di fatto, cioè, la Guerra fredda fu una sfida per l’acquisizione del potere in tutte le sue forme da parte delle due superpotenze, fosse esso militare, politico, culturale, o economico. Nel corso del conflitto, le vittorie e le sconfitte su ognuno di questi ambiti furono misurate dall’avanzata o la ritirata dei due modelli, quello liberal-capitalista a trazione statunitense da una parte e quello socialista incarnato dall’Unione Sovietica dall’altro <16. La dimensione ideologica alla base delle scelte dei governi delle due superpotenze risulta fondamentale per spiegarne le motivazioni: è questo scontro, del resto, il vero fil rouge della Guerra fredda <17.
Come ha sottolineato Melvyn Leffler, la Guerra fredda fu sia il prodotto di un insieme di contingenze che delle ideologie che animavano i leader di Washington e Mosca, in parte frutto di pregiudizi e paure per la sicurezza nazionale e in parte della volontà di esportare il proprio modello politico ad altri stati <18. Sia gli Stati Uniti che l’Unione Sovietica, infatti, nutrivano la convinzione di incarnare le caratteristiche del modello politico migliore possibile, l’unico in grado di garantire la pace mondiale: per gli Stati Uniti, la mera esistenza di un paese con i caratteri dell’Unione Sovietica rappresentava la possibilità che si creassero nuovamente le condizioni per lo scoppio di una guerra mondiale. Finché fosse esistita l’URSS, pensavano le élite politiche statunitensi, il mondo non avrebbe potuto raggiungere una condizione di pace vera e duratura. Per l’Unione Sovietica, invece, il problema principale non era tanto quello annientare gli Stati Uniti in quanto tali, quanto quello di annichilire il loro progetto imperialista riconducendo la nazione alla condizione di “normalità” di uno stato borghese senza velleità espansionistiche <19.
In virtù di questa auto-rappresentazione e di questo modo di dipingere l’avversario, le classi dirigenti delle due nazioni credevano di essere investite di una missione universale: per gli Stati Uniti, il loro modello politico di stampo liberal-capitalista era l’unico in grado di funzionare e andava esportato nel resto del mondo. In modo uguale e contrario, la classe dirigente dell’Unione sovietica riteneva che le contraddizioni interne dei sistemi capitalistici li avrebbero condotti all’estinzione e all’inevitabile presa del potere delle classi proletarie, cosa che avrebbe a sua volta portato alla creazione di regimi comunisti in tutto il mondo. Si trattava di convinzioni radicate nella cultura nazionale e dettate da una lettura ideologica e pre-orientata dei fenomeni politici, oltre che di una diversa interpretazione del corso della storia <20.
Nel contesto della Guerra fredda, una definizione ristretta dell’ideologia non esaurisce le spiegazioni dietro alle singole scelte politiche dei governi statunitense e sovietico. In effetti, come suggerisce l’antropologo statunitense Clifford Geertz, con il termine “ideologia” si deve indicare qualcosa di più ampio rispetto a ciò che siamo più comunemente abituati a pensare. Secondo Geertz, l’ideologia non è una dottrina del pensiero con uno specifico e codificato riferimento scritto, come può essere il marxismo-leninismo ma, piuttosto, un «insieme di convinzioni connesse che riduce le complessità di una particolare porzione della realtà in termini facilmente comprensibili e suggerisce modi appropriati per confrontarsi con essa» <21. In questo senso, qualsiasi visione politica contiene in sé i tratti dell’ideologia, una serie di convinzioni pre-determinate, basate su elementi di irrazionalità o su giudizi acquisiti su una determinata questione. Per lungo tempo, gli uomini politici degli Stati Uniti hanno ritenuto di essere privi di condizionamenti ideologici e sbandierato la necessità di intraprendere una lotta contro i regimi politici che ne erano soggetti. Gli Stati Uniti non operavano sulla base dell’ideologia ma sulla base della sicurezza nazionale e della difesa dei valori democratici. In realtà, come ha messo in luce la storiografia statunitense dalla corrente revisionista in avanti <22, l’ideologia ha occupato un ruolo centrale nelle decisioni prese dalla classe politica statunitense, tanto in politica interna quanto, forse in modo più evidente, in politica estera. L’eccezionalismo, l’idea dell’esistenza di una “gerarchia delle razze”, l’anti-radicalismo, rappresentano, così, i tasselli di un paradigma ben consolidato sulla base del quale sono state adottate numerose scelte politiche che non si possono spiegare in termini di mera convenienza materiale o di analisi realiste degli equilibri di potere <23.
Il rapporto tra politica ed ideologia nel conflitto tra Stati Uniti e Unione Sovietica fu messo in luce dal giornalista Walter Lippmann, che parlò per la prima volta di «Guerra fredda» in una raccolta di saggi pubblicata nel 1947 <24 in risposta al famoso saggio pubblicato da George Kennan in forma anonima su “Foreign Affairs”, la rivista del Council on Foreign Relations, nel 1947. Kennan, che lanciava così la dottrina del containment, scrisse che: “[…] The thoughtful observer of Russian-American relations will find no cause for complaint in the Kremlin’s challenge to American society. He will rather experience a certain gratitude to a Providence which, by providing the American people with this implacable challenge, has made their entire security as a nation depending on their pulling themselves together and accepting the responsibilities of moral and political leadership that history plainly intended them to bear” <25.
Le parole del diplomatico statunitense erano rivolte al pubblico di “Foreign Affairs”, fatto di specialisti e politici, ed erano destinate ad avviare un intenso dibattito sul ruolo degli Stati Uniti nel mondo dopo la fine della Seconda guerra mondiale. I decisori politici sotto l’amministrazione del presidente Truman sposarono le convinzioni di Kennan e ne fecero la base per la loro strategia nei confronti dell’Unione Sovietica. L’immagine del nemico si arricchì, nel tempo, di particolari preoccupanti per gli Stati Uniti. Nel 1950, Truman commissionò un documento al Policy Planning Staff del National Security Council che contenesse informazioni sulla politica sovietica (conosciuto come l’NSC 68). Il risultato fu un report dai toni quasi propagandistici, benché riservato esclusivamente all’uso interno del governo: «L’obiettivo del Cremlino […]», scrissero gli esperti del governo federale guidati da Paul Nitze, «è la sottomissione totale dei popoli sotto il suo controllo […]. La politica del Cremlino verso le aree che non sono sotto il suo controllo è l’eliminazione della resistenza al suo volere e l’estensione della sua influenza e controllo. Persegue questa politica perché non può […] tollerare l’esistenza di società libere» <26. Sulla base di una lettura così allarmante per il futuro degli Stati Uniti, la classe dirigente americana decise di mettere in campo tutti gli strumenti utili a spostare in proprio favore gli equilibri internazionali. Le armi e la diplomazia non sarebbero più stati sufficienti a questo sforzo; bisognava sconfiggere i sovietici anche sul piano dell’immaginario collettivo, conquistando “i cuori e le menti” dell’opinione pubblica mondiale.
[NOTE]
14 Thomas Zeiler, The Diplomatic History Bandwagon: A State of the Field, in “The Journal of American History”, Vol. 95, No. 4, 2009, pp. 1053-1073 e le risposte di Mario Del Pero, On the Limits of Thomas Zeiler’s Historiographical Triumphalism, in “The Journal of American History”, Vol. 95, No. 4, 2009, pp. 1079-1082 e Jessica Gienow-Hecht, What Bandwagon? Diplomatic History Today, in “The Journal of American History”, Vol. 95, No. 4, 2009, pp. 1083-1086.
16 Nigel Gould Davis citato in Giles Scott-Smith, Western Anti-Communism and the Interdoc Network. Cold War Internationale, London, Palgrave Macmillan, 2012, p. 2.
17 Si veda la riflessione di Leopoldo Nuti, On recule pour mieux sauter, or “What needs to be done” (to understand the 1970s), in Pons and Romero (edited by), Reinterpreting the End of the Cold War., cit., pp. 39-51.
18 Cfr. Melvyn P. Leffler, For the Soul of Mankind: the United States, the Soviet Union and the Cold War, New York, Hill and Wang, 2007.
19 Stephanson, Fourteen Notes, cit.
20 Westad, The Global Cold War, cit., p. 40.
21 Clifford Geertz citato in Michael H. Hunt, Ideology, in Frank Costigliola and Michael J. Hogan (edited by), Explaining the History of American Foreign Relations, Cambridge, Cambridge University Press, 2016, p. 222.
22 L’inizio della corrente storiografica revisionista è attribuito a William A. Williams, The Tragedy of American Diplomacy, New York, Dell Publishing Co., 1962. Cfr. anche Anthony Mohlo and Gordon S. Wood (edited by), Imagined Histories. American Historians Interpret the Past, Princeton, Princeton University Press, 1998, Frank Ninkovich, The Wilsonian Century. American Foreign Policy since 1900, Chicago and London, University of Chicago Press, 1999 e Erez Manela, The Wilsonian Moment. Self-Determination and the International Origins of Anticolonial Nationalism, Oxford, Oxford University Press, 2007; Gordon S. Wood, Empire of Liberty: A History of the Early Republic, 1789-1815, Oxford, Oxford University Press, 2009.
23 Cfr. Michael H. Hunt, Ideology and U.S. Foreign Policy, New Haven and London, Yale University Press, 1987.
24 Walter Lippmann, The Cold War: a Study in U.S. Foreign Policy, New York, Harper, 1947.
25 X, The Sources of Soviet Conduct, in “Foreign Affairs”, Vol. 25, No. 4, Jul., 1947, p. 582.
26 Ibidem.
Alice Ciulla, Gli intellettuali statunitensi e la “questione comunista” in Italia, 1964-1980, Tesi di dottorato, Università degli Studi Roma Tre, 2012

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Il “Memoriale di Yalta” non fu un tema di ampio dibattito nel mondo intellettuale statunitense

L’opera in due volumi curata da Griffith e pubblicata nel 1964 intitolata “Communism in Europe. Continuity, Change, and the Sino-Soviet Dispute” faceva parte di una collana intitolata “Studies in International Communism”, pubblicata dalla casa editrice del MIT, e legata al lavoro del Center for International Studies attivo al suo interno. Nel momento in cui vennero pubblicati, la situazione del CIS era ancora stabile. La Guerra fredda era già entrata, tuttavia, in una fase nuova. Così, mentre veniva avviato il processo di Distensione e mentre nel panorama dei Soviet Studies appariva più di un’analisi sulla frattura sino-sovietica, un evento era destinato a mutare la storia italiana e a generare discussioni, sebbene timide, nella comunità transatlantica che si dedicava allo studio del PCI: la morte di Togliatti e la pubblicazione, sulle colonne del settimanale comunista “Rinascita”, del testamento intellettuale del leader comunista, passato alla storia come il “Memoriale di Yalta”, nel settembre del 1964. In quel momento, all’interno del progetto “Studies in International Communism” guidato da Griffith, venne lanciato un progetto sul comunismo europeo, perlopiù grazie all’impegno di uno degli affiliati della prima ora del centro, Donald L.M. Blackmer, che stava contestualmente iniziando la ricerca per la sua tesi di dottorato sui legami internazionali del PCI. Blackmer si unì al centro di ricerca di Cambridge poco dopo la sua fondazione, in un primo momento per ricoprire l’incarico di assistente del direttore, Lucien Pye. Il suo primo lavoro con il CIS fu la curatela del volume “The Emerging Nations and the Politics of the United States”, con l’economista Max Millikan. Si trattava di un volume scritto a venti mani, un esperimento ambizioso e forse non perfettamente riuscito di dieci autori diversi del centro. Tradotto da Il Mulino nel 1962, il libro è in realtà piuttosto breve, e risulta quasi un manifesto delle declinazioni del concetto di “modernizzazione”: si fa ampio uso di categorie di “sviluppo” e “sottosviluppo”, “tradizione”, e naturalmente “transizione” alla modernità, sulla base dell’opera di Rostow “The Stages of Economic Growth”. Probabilmente, l’aspetto più innovativo del lavoro consiste nell’inserimento delle strategie politiche che gli Stati Uniti avrebbero dovuto adottare nei confronti delle “nazioni emergenti”: elargizione di aiuti economici, assistenza militare, informazione, con esplicito richiamo alla pletora di strumenti messi in campo con il piano Marshall in Europa. L’obiettivo era quello di favorire la formazione di élite democratiche, che «sappiano mantenere un governo efficiente e ordinato senza far ricorso a metodi totalitari […], che siano disposti a cooperare nelle misure internazionali di controllo economico, politico e sociale» <177. L’obiettivo del contenimento del comunismo, scrivevano gli autori, «è chiaramente implicito negli interessi positivi, costruttivi e più fondamentali che abbiamo definito» <178. Fu proprio la pubblicazione del Memoriale di Togliatti ad aprire una prima discussione tra la comunità accademica del MIT e Giorgio Galli: il 17 settembre 1964, Blackmer scrisse una lettera indirizzata al politologo italiano. Gli chiedeva di rivedere un manoscritto, che Galli aveva inviato a Griffith per la pubblicazione, per poter fornire una chiave di lettura adeguata al revisionismo italiano alla luce della pubblicazione del segretario del PCI <179. A Blackmer faceva eco, del resto, lo stesso Griffith che riteneva superata la tesi di Galli alla luce di quelli che definiva «two major events», la diffusione del Memoriale di Togliatti e la caduta di Chruscev. Sebbene, sottolineava l’autore, “I agree with most of Italian writers, including yourself, that the testament presents little that is new in PCI writings, it is, rather, a codification of them. Nevertheless, it does go farther than Togliatti ever did before in public criticism of the Soviet Union and, more importantly, whatever may be the actual degree of novelty of its contents, it is already quite clear that its reverberation within the international Communist movement will be great” <180. In ogni caso, l’eventuale dissidio tra Galli e Griffith venne superato dal fatto che quest’ultimo, per timore di proporre analisi parziali o affrettate, decise di rimandare la pubblicazione di un volume sul revisionismo italiano. Occorre mettere in evidenza, comunque, che il “Memoriale di Yalta” non fu un tema di ampio dibattito nel mondo intellettuale statunitense. Il 1964 risulta però importante anche perché fu proprio allora che vennero effettuate le prime ricerche sul PCI da parte di studiosi che non concordavano con le interpretazioni precedenti, figlie dell’anticomunismo liberale. Donald Blackmer, che grazie al suo lavoro all’interno del MIT decise di intraprendere il programma di dottorato, scelse di redigere una tesi sul comunismo italiano. Arrivò in Italia nel 1964 per effettuare una serie di interviste, come impongono le scienze sociali. Il volume frutto di quell’esperienza italiana, intitolato “Unity in Diversity: Italian Communism and the Communist World” uscì nel 1968. Membro del CIS dal 1956, Blackmer si era formato negli studi sull’Unione Sovietica. Si era avvicinato all’accademia, peraltro, piuttosto tardi: figlio di un professore del Philips College di Andover, in Massachusetts, cresciuto in un ambiente intellettuale stimolante, aveva avuto, molto giovane, una predilezione per lo studio delle lingue straniere. Ebbe modo di viaggiare in Europa subito dopo la Seconda guerra mondiale e di vedere con i propri occhi le città francesi e inglesi distrutte dal conflitto. Conosceva già francese e tedesco prima di iniziare l’università e, da undergrad, si dedicò allo studio del russo. Laureatosi in storia e letteratura russa sotto la supervisione di Richard Pipes presso il dipartimento di Russian Studies all’Università di Harvard, fu arruolato nell’esercito americano e coinvolto in attività di Intelligence a Washington nei primi anni della Guerra fredda: si dedicava all’intercettazione e decifrazione di conversazioni telefoniche tra Berlino est e Berlino ovest. Dopo il periodo passato a lavorare per l’Intelligence in Germania, prima a Salisburgo e poi a Francoforte, venne assunto presso il CIS nel 1956 come assistente di Millikan, che era un conoscente del padre. Circa cinque anni dopo decise di cominciare un dottorato sul legame del Partito comunista italiano con il movimento comunista internazionale. L’argomento era certamente, all’epoca, di interesse del governo statunitense: i fondi che Blackmer ricevette furono tuttavia quelli del CIS, che gli consentì di passare un breve periodo in Italia per fare ricerca sul campo <181.
Effettivamente, lo studio del PCI in quei termini era piuttosto innovativo negli Stati Uniti e, nella prospettiva di chi si apprestava a diventare uno scienziato sociale, la possibilità di passare un periodo nel paese oggetto della ricerca era senz’altro allettante. In URSS, dove comunque studenti e professori statunitensi venivano accolti già da qualche anno, sarebbe stato più difficile trovare persone da intervistare, specie se politicamente attive. Grazie, dunque, al tema della sua ricerca, Blackmer si trovò in Italia, precisamente a Roma, nel 1964 e, come impone la ricerca politologica, dedicò parte del suo tempo alla raccolta di interviste. Fu la giovane studiosa Gloria Pirzio Ammassari a fargli da tramite nel panorama italiano <182. La politologa romana, reduce da un soggiorno di ricerca alla Cornell University grazie alla vincita di una borsa di studio Fulbright, lavorava a quel tempo come assistente di Joseph LaPalombara, anch’egli a Roma. Proprio quest’ultimo fece da tramite tra Blackmer e Pirzio Ammassari, che aveva numerosi contatti nel mondo sindacale della capitale, e suggerì a Blackmer di coinvolgere nello studio Alberto Spreafico, sociologo dell’Università di Firenze <183.
Le poche note raccolte durante il viaggio indicano che Blackmer ebbe contatti con Bruno Trentin, Segretario generale della Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), il sindacato italiano più grande e a maggioranza comunista. Blackmer definì Trentin uomo «extraordinarily open. Honest», e aggiunse che a suo avviso parlava liberamente, esprimendo opinioni personali <184. Il politologo ebbe modo di incontrare anche Spreafico e l’intellettuale e scrittore Fabrizio Onofri. Di fede antifascista, Onofri era stato vicino ai comunisti impegnati nell’attività clandestina di opposizione al regime di Mussolini durante il ventennio. Dopo la Liberazione aveva aderito al PCI, lavorando nella Sezione propaganda e nella Commissione culturale, fino ad essere eletto membro del Comitato centrale nel 1948. All’indomani della pubblicazione del rapporto Chruscev e soprattutto dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria, Onofri animò un’accesa polemica nei confronti della linea del PCI, sino a essere espulso dal partito perché considerato ormai un oppositore interno. Nel 1956 fondò, assieme a Marco Cesarini Sforza, la rivista “Tempi moderni dell’economia, della politica, della cultura” con l’obiettivo di compiere revisione metodologica dell’esperienza della sinistra. Quando Blackmer lo conobbe, si dedicava ormai pienamente a “Tempi moderni”, attraverso la quale, nel frattempo, aveva stretto rapporti con la sinistra socialdemocratica e i sostenitori del federalismo europeo <185.
Il periodo che Blackmer prendeva in esame andava dalla morte di Stalin, nel 1953, alla morte di Togliatti. Mentre era difficile sottostimare l’importanza del PCI nella politica interna italiana, Blackmer riteneva che, alla luce dei suoi studi, il presunto carattere innovativo del partito rispetto al movimento comunista internazionale andasse ridimensionato: dopo aver analizzato la continua dialettica tra unanimità e divisioni all’interno del mondo comunista, Blackmer scrisse che il vero merito dei dirigenti del PCI, in particolare del segretario Togliatti, era stato quello di aver previsto l’emergere del policentrismo, molto più che aver contribuito a crearlo <186.
Il “Memoriale di Yalta” rappresentava così uno spartiacque non tanto per la novità del contenuto, che ribadiva una linea che il partito esprimeva già da qualche tempo, quanto per il fatto che metteva ancor più chiaramente in luce il ruolo indispensabile di Togliatti nel conciliare la politica del PCI in Italia con la linea del movimento comunista internazionale. Sebbene prevedere il futuro del partito con certezza fosse impossibile, Blackmer sosteneva che studiando le diverse prospettive generazionali se ne potesse intravedere qualche tratto, quantomeno alcune delle sfide principali cui il partito sarebbe stato sottoposto di lì a breve <187.
Pochi mesi prima della pubblicazione del volume di Blackmer, la casa editrice dell’Università di Yale, la Yale University Press, pubblicò la tesi di dottorato di un altro giovane studioso, che aveva terminato il suo corso di studi all’Università di Berkeley nel 1965: “Peasant Communism in Southern Italy”, pubblicato nella versione originale nel 1967 e tradotto in italiano per Einaudi nel 1972 <188. La tesi dello studioso era stata diretta dal politologo di Yale David E. Apter, autore del famoso volume “The Politics of Modernization”, pubblicato nel 1965 <189.
[NOTE]
177 Max Millikan e Donald L.M. Blackmer (a cura di), Le nazioni emergenti e la politica degli Stati Uniti, Bologna, Il Mulino, 1962, p. 131. (ed. or. Max Millikan and Donald L.M. Blackmer, The Emerging Nations. Their Growth and United States Policy, Boston, Little, Brown and Company, 1961).
178 Ibidem.
179 Donald L.M. Blackmer Papers (d’ora in poi DLMB Papers), MC 715, Box 5, Italy, Misc. People, Letter from Blackmer to Galli, Sept. 17, 1964, Massachusetts Institute of Technology (d’ora in poi MIT), Institute Archives and Special Collections, Cambridge, Massachusetts,
180 DLMB Papers, MC 715, Box 5, Italy, Misc. People, Letter from Griffith to Galli, Oct. 21, 1964, MIT, Institute Archives and Special Collections, Cambridge, Massachusetts.
181 Infinite History Project MIT, Interview with Professor Donald L.M. Blackmer, 8 marzo 2016, https://www.youtube.com/watch?v=BVxJDryL-UE (ultimo accesso 24 novembre 2017).
182 Blackmer, Unity in Diversity, cit., viii.
183 DLMB Papers, MC 715, Box 5, LaPalombara, Joseph, 1964-1984, Letter from LaPalombara to Blackmer, May 18, 1964, MIT, Institute Archives and Special Collections, Cambridge, Massachusetts.
184 DLMB Papers, MC 715, Box 5, Italian Interview Notes 1964, Interview to Bruno Trentin, July 20, 1964, MIT, Institute Archives and Special Collections, Cambridge, Massachusetts.
185 DLMB Papers, MC 715, Box 5, Italian Interview Notes 1964, Conversation with LaPalombara, Spreafico and Onofri, s.d., MIT, Institute Archives and Special Collections, Cambridge, Massachusetts; sul rapporto di Onofri con il PCI cfr. Albertina Vittoria, Togliatti e gli intellettuali: storia dell’Istituto Gramsci negli anni Cinquanta e Sessanta, Roma, Editori Riuniti, 1992 e Ajello, Intellettuali e PCI 1944-1958, cit.
186 Blackmer, Unity in Diversity, cit., pp. 375-394.
187 Ivi, p. 412.
188 Sidney G. Tarrow, Peasant Communism in Southern Italy, New Haven and London, Yale University Press, 1967.
189 David E. Apter, The Politics of Modernization, Chicago, Chicago University Press, 1965.
Alice Ciulla, Gli intellettuali statunitensi e la “questione comunista” in Italia, 1964-1980, Tesi di dottorato, Università degli Studi Roma Tre, 2012

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