Un fattore decisivo negli anni del “boom” è stato il basso costo del lavoro
A metà degli anni ‘50 l’Italia era ancora per molti aspetti un paese sottosviluppato. L’industria poteva vantare un certo progresso nei settori dell’acciaio, dell’automobile, dell’energia elettrica, e i grandi centri produttivi sorgevano principalmente nelle regioni del Nord. La maggior parte dell’economia si reggeva grazie al mantenimento di settori tradizionali, costituiti da piccole imprese artigianali basate sullo sfruttamento intensivo, dalla pubblica amministrazione, e dall’agricoltura che restava il settore con il maggior livello di occupazione <28. Diversamente, nelle regioni meridionali, dove il settore agricolo non garantiva prospettive di occupazione, iniziava ad avanzare il fenomeno migratorio, sia fuori che dentro i confini nazionali.
Nel periodo compreso negli anni 1958-1963, ricordato come il “boom economico”, il paese vedeva mutare profondamente le proprie strutture produttive, gli assetti urbanistici delle città, il mondo dell’agricoltura e le abitudini di grandi masse di cittadini <29. Allo sviluppo industriale si accompagnava qualitativamente anche un mutamento generalizzato dei consumi. Lo sviluppo industriale era concentrato nelle regioni dell’area definita, triangolo industriale, cioè nelle città di Milano, Genova e Torino, e nelle zone del Nord-Est dove si stavano sviluppando nuovi processi di industrializzazione nel settore petrolchimico <30.
Agli albori del “boom economico” l’industria italiana aveva raggiunto un sufficiente livello di sviluppo tecnologico tale, da poter competere con i paesi europei più avanzati. Fiat, Eni, Edison e Montecatini, rappresentavano i settori più innovativi della grande industria.
Un fattore decisivo negli anni del “boom” è stato il basso costo del lavoro. Gli alti livelli della disoccupazione negli anni ‘50 fecero in modo che la domanda di lavoro eccedesse abbondantemente l’offerta, con prevedibili conseguenze sull’andamento dei salari <31. La straordinaria crescita nell’industria elettrodomestica fu una delle espressioni più caratteristiche del “miracolo”; dietro questa trasformazione vi era un gran numero di fattori: l’abilità imprenditoriale dei proprietari delle nuove fabbriche, la loro capacità di autofinanziarsi, la tenacia nell’utilizzo di nuove tecnologie e nel rinnovamento continuo degli impianti, lo sfruttamento a basso costo del lavoro e l’elevata produttività.
La produzione automobilistica, dominata dalla Fiat, fu per molti versi il settore più attivo dell’economia <32. Il fenomeno umano più drammatico, che ha caratterizzato gli anni del “boom”, è stato la fuga di grandi masse rurali dalle campagne, e dalle regioni del Sud, verso le città industriali del Nord <33. L’emigrazione più massiccia ebbe luogo tra il 1955 e il 1963, che coinvolse in particolare la città di Torino, la quale si trovò ad assorbire percentuali molto elevate dell’immigrazione meridionale.
Uno degli aspetti più ragguardevoli del “miracolo economico” fu il suo carattere di processo spontaneo. Il piano economico, voluto dal ministro Vanoni nel 1954, aveva formulato una serie di progetti finalizzati ad uno sviluppo economico controllato e teso al superamento dei maggiori squilibri sociali e geografici, senza però produrre alcun risultato.
Il “boom” si realizzò seguendo la sua logica, rispondendo direttamente alle forze in gioco del libero mercato, e dando luogo come risultato, a profondi scompensi strutturali, tra i quali, la cosiddetta distorsione dei consumi. Infatti, alla crescita dei beni di consumo, non vi era un corrispettivo sviluppo di beni pubblici <34.
Il “miracolo economico” accrebbe in modo drammatico lo squilibrio tra le diverse aree del paese. Lo sviluppo produttivo e consumistico non ebbe distribuzione egemone su tutto il territorio nazionale, ma appunto, dette origine a sperequazioni sociali e distorsioni molteplici. In altri termini, l’Italia a cavallo tra i due decenni, 1950-60 si presentava come un paese diviso, attraversato da un processo di modernizzazione tanto rapido quanto squilibrato, che necessitava del supporto solido del governo, al fine di evitare consistenti lacerazioni nel paese <35.
La modernizzazione economica ebbe riflessi anche nel mondo del lavoro e in particolare all’interno delle fabbriche del Nord, dove furono i giovani operai emigrati a rilanciare l’inizio di una nuova fase di lotte collettive <36.
[NOTE]
28 P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988, p. 283.
29 Su questo tema mi limito a rimandare al testo di G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Donzelli Editore, Roma, 2005.
30 G. Tamburrano, Storia e cronaca del centro-sinistra, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1990, pp. 89-94.
31 P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988, pp. 288-289.
32 Ivi, p. 290.
33 Su questo tema mi limito a rimandare al testo di G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta.
34 P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988, p. 292.
35 Su questo tema mi limito a rimandare al testo di G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta. F. Barbagallo, La questione italiana. Il Nord e il Sud dal 1860 a oggi, Editori Laterza, Bari, 2013.
36 P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988, p. 340.
Paolo Vignali, Aspetti della critica alla modernizzazione nella cultura politica degli anni Sessanta in Italia, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pavia, Anno Accademico 2023-2024
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