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Il vescovo di Triste e la strage tedesca di Opicina

La rappresaglia messa in atto il 3 aprile fu effettuata il giorno successivo all’attentato del pomeriggio del 2 aprile. La lista dei destinati alla fucilazione doveva quindi essere già pronta nella notte tra il 2 e il 3 aprile visto che all’alba del 3 fu fatto, in carcere, l’appello dei condannati.
Tra le poche informazioni raccolte attorno alla fucilazione interessante è la reazione del Vescovo di Trieste Antonio Santin. Avuta notizia della condanna a morte degli ostaggi per l’attentato al cinema di Opicina, il vescovo, alle 5 del mattino, tentò di raggiunge l’altopiano in macchina, sperando di arrivare prima dell’esecuzione. Arrivato a Opicina si fece guidare dal parroco don Andrea Zini sino al poligono di tiro. Giunse, però, troppo tardi, quando la condanna era già stata eseguita e i cadaveri erano stati già portati via dal luogo dell’eccidio. <93 Tra le carte dell’Archivio della Diocesi di Trieste è stato ritrovato un fascicolo su Opicina <94 che ci può aiutare a fare chiarezza su quali furono le reazioni da parte degli organi ufficiali tedeschi e italiani all’attentato. Il 4 aprile l’Ortskommandantur <95 di Villa Opicina emise il seguente comunicato alla popolazione della frazione triestina: “Per ordine delle autorità militari tedesche, la popolazione di Opicina deve fare luce entro 8 giorni sull’attentato. Tutte le indicazioni devono essere presentate per iscritto o personalmente alla Ortskommandantur. E’ assicurata la più totale discrezione da parte delle autorità militari tedesche. E’ nell’interesse della stessa popolazione contribuire all’accertamento del colpevole. Il termine è fissato per il 12.4.44. Il presente ordine dovrà essere comunicato immediatamente attraverso le autorità Comunali (Consiglio Comunale) e le autorità religiose”. <96
L’ordine delle autorità militari di Opicina era chiaro, ma tardivo rispetto alla punizione dell’attentato. La reazione del vescovo Santin non si fece certo attendere: egli scrisse subito una lettera all’Ortskommandantur di Opicina, una al Comando della Wehrmacht nell’OZAK ed infine una terza al Podestà Cesare Pagnini. “Prego cortesemente codesto Ortskommandantur di disporre che l’ordine dato alla popolazione per le ricerche intorno all’attentato nel cinematografo sia comunicato in altro modo non potendo codesto parroco eseguire personalmente quanto viene disposto sulla lettera di questi (lettera del 4 aprile 44). La ragione è la seguente. Fino ad oggi nella nostra regione furono uccisi ben tredici
sacerdoti, ed anche recentemente i partigiani hanno portato via un parroco. Essi sono continuamente minacciati di morte. Sono diligentemente controllati in tutto quello che fanno e dicono, e tutto ciò che sembrare ostile a loro è motivo per decidere della loro sorte. Quanto viene chiesto al vecchio parroco di Opicina sarebbe interpretato certamente in questo senso e ne potrebbe andare della sua vita. Ecco perché io stesso ho disposto che in Chiesa non avvenga la chiesta pubblicazione” <97. La paura del vescovo di non compromettere il suo parroco non era giustificata, in quanto il vecchio don Zini era ben voluto dalla popolazione locale. È chiaro che si tratta di un tentativo di evitare di compromettere l’autorità religiosa, facendosi da tramite tra la popolazione e le autorità tedesche in questo particolare momento di violenza. Le parole scritte per il Comando della Wehrmacht sembrano più interessate alle sorti della popolazione di Opicina: “[…] Come vescovo della Diocesi, mentre deploro nel modo più deciso il proditorio attentato di Villa Opicina, non posso non esprimere il mio dolore per l’uccisione di tanti miei diocesani che certamente, se erano in carcere, non avevano commesso il fatto. Tanto più viva è la mia sofferenza in quanto, come promesso, non fu accordata loro l’assistenza religiosa, diritto sacro del quale nessuno può essere privato. La popolazione fu invitata a fornire indicazioni sopra gli autori dell’attentato, minacciando severe misure militari se entro 8 giorni non fosse fatta luce sullo stesso. Pesa così su quella povera gente un incubo proprio durante questi giorni santi. E siccome gli autori si saranno
probabilmente eclissati, e, sia la mancata conoscenza degli stessi, sia il terrore largamente diffuso dai partigiani, impediranno che vi siano rivelazioni di qualche importanza, così si teme il peggio per la povera popolazione. […] io chiedo vivamente a codesto Comando di voler desistere da simili misure. La punizione già data è tale, che ulteriori provvedimenti, salvo che non si raggiungano i veri autori, desterebbero oltre che immensa pena anche l’indignazione di tutta la regione” <98.
La popolazione aveva già subito una punizione dura ed esemplare, non si doveva andare oltre. Il vescovo chiude la lettera con un’ultima analisi dei fatti accaduti: “E’ solo la giustizia che viene accettata da ognuno, comunque egli senta, e placa gli animi; ed è essa il segno chiaro della grandezza di un popolo. Il terrore, anche come reazione, ottiene solo effetti molto effimeri e spinge ancor di più gli animi alla disperazione e quindi verso la zona della violenza”. <99
Santin vuole cercare di bloccare un’escalation di violenza all’interno della zona cittadina, per evitare gli orrori che ben conosce nel resto del territorio della sua Diocesi (vedi l’Istria soprattutto). Sullo stesso tono la lettera al podestà: «non posso non deplorare una reazione che colpisce un tale numero di innocenti di quel delitto. Tali sistemi introdotti non so come e non so da chi negli usi di questa guerra gettano una luce ben fusca sopra la nostra generazione». <100 Quali dovessero essere le severe misure militari nei riguardi della borgata nessuno lo sapeva con precisione, si temeva la distruzione delle case e la deportazione in Germania, stessa sorte accaduta ai paesi di Comeno e Rifembergo qualche mese prima (fatti ben conosciuti da Santin). Alla richiesta di un intervento deciso presso le autorità tedesche per impedire ulteriori violenze, rispose il podestà alla vigilia del termine dell’ultimatum: “Ho fatto quanto stava in me per evitare ulteriori dolori alla gente di Poggioreale del Carso. Ho scritto una lettera al Comandante di Brigata delle SS barone von Malsen-Pockau esprimendo che le rappresaglie si fermassero alle 70 fucilazioni e dicendomi convinto che il rispetto alle leggi e agli ordini delle superiori Autorità troverà sempre conferma in questa zona e che un atto di clemenza potrà avere gli stessi o migliori risultati di un atti di repressione sulla popolazione, poiché ritengo che il pericolo sia esterno e che queste popolazioni debbano essere considerate vittime e non complici degli atti di terrore”.
[…] Scaduto l’ultimatum tedesco non ci furono altre rappresaglie nella borgata di Opicina anche se, come conferma il 21 aprile il Prefetto di Trieste in un comunicato al Ministero degli Interni della Repubblica di Salò, i colpevoli non furono individuati: “Si comunica [che] le locali autorità germaniche, in seguito all’attentato terroristico compiuto nel cinematografo di Poggioreale del Carso che provocava la morte di alcuni militari germanici, ha proceduto, per rappresaglia, all’esecuzione di 70 banditi comunisti, già detenuti. I responsabili dell’attentato finora non risulta siano stati identificati. Inoltre il Supremo Commissario per la Zona d’Operazioni Litorale Adriatico, con ordinanza del 2 corr., ha ordinato lo “stato di guerra” per la frazione di Poggioreale del Carso” <104.
Due giorni dopo però, un’altra esplosione sconvolse la città di Trieste e i suoi cittadini.
[NOTE]
93 G. Botteri, Antonio Santin Trieste 1943-45, Udine 1963, p. 41. Si tratta del giorno 4 aprile sicuramente.
94 ADTS, fasc. 317/1944 Opicina.
95 L’Ortskommandantur era il Comando di presidio locale della Wehrmacht.
96 ivi, Ortskommandantur Villa Opicina den, 4. April 1944.
97 ivi, minuta della lettera del vescovo Santin indirizzata alla Ortskommandantur di Opicina, del 4 aprile 1944.
98 ivi, minuta della lettera del vescovo Santin indirizzata al Comando della Wehrmacht della Zona d’operazione Litorale Adriatico, del 5 aprile 1944.
99 ivi.
100 ivi, minuta della lettera del vescovo Santin al Podestà di Trieste, del 5 aprile 1944.
104 ARS, AS 1829, dok. 1016. Per «stato di guerra» si intendeva una situazione di controllo totale della borgata e sui suoi cittadini. Una situazione che poteva portare ad arresti preventivi indiscriminati, alla requisizione di intere zone ritenute importanti ai fini della difesa delle forze di occupazione. Secondo il racconto del Prefetto Coceani, fu grazie al suo intervento presso il Comandante di Brigata, il barone von Mahlzen (comandante della Polizia per la Provincia di Trieste) che furono scongiurate altre rappresaglie nella frazione. Cfr: B. Coceani, Mussolini, Hitler, Tito cit., p.116
Giorgio Liuzzi, La politica di repressione tedesca nel Litorale Adriatico (1943-1945), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Pisa, 2004

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Un pugno di banditi di borgata riesce in poco tempo a controllare tutta Roma

La Banda della Magliana
Esattamente cento anni dopo da quanto documentato da Bonfadini e Franchetti nella Capitale stava nascendo la prima organizzazione criminale di stampo mafioso autoctona: la Banda della Magliana. Prima degli anni ’70 la malavita era distribuita in modo inorganico su tutto il territorio romano, non vi era coordinazione tra i gruppi, ognuno di essi gestiva il proprio quartiere e non vi era il dominio di una famiglia, o di un gruppo, sulle altre, la cui economia ruotava intorno a piccoli furti, spaccio, prostituzione, gioco d’azzardo. In questo contesto si inseriscono Albert Bergamelli, Maffeo Bellicini e Jacques Berenguer, i Marsigliesi <17, un cartello criminale francese che operava il traffico di stupefacenti ed il contrabbando di sigarette dalla Turchia; i tre avevano intravisto nella Capitale la possibilità di estendere il loro business. Per comprendere la genesi di questa associazione bisogna tornare alla fine degli anni ’70, a Roma, quando gli elementi più rilevanti della criminalità romana si costituivano in associazione. Prima di allora la malavita romana si occupava di furti, rapine ed estorsioni. Un gruppo di giovani criminali, quasi allo sbaraglio, che desideravano inserirsi nei business, come i sequestri <18, più redditizi soprattutto in quel periodo <19.
“Franco Giuseppucci era un criminale di trent’anni, apparteneva alla vecchia guardia. Faceva il fornaio e per questo era soprannominato er Fornaretto […]. Temuto e stimato, aveva ottimi canali per la ricettazione ed era molto conosciuto nell’ambiente delle corse di cavalli: agli scommettitori clandestini prestava a strozzo i soldi accumulati con le rapine, riuscendo così a riciclare il denaro […].” <20
Nel 1976 escono di scena Bergamelli, Berenguer e Bollicini per l’azione delle forze dell’ordine coordinate dal magistrato Vittorio Occorsio, il quale stava indagando sulla relazione che intercorreva tra la Loggia P2 <21, l’estrema destra, i servizi segreti e la criminalità organizzata, che lo portò ad essere ucciso il 09 luglio 1976 per mano del neofascista Concutelli <22. “Molti sequestri avvengono per finanziare attentati o disegni eversivi…. Sono certo che dietro i sequestri ci siano delle organizzazioni massoniche deviate e naturalmente esponenti del mondo politico. Tutto questo rientra nella strategia della tensione: seminare il terrore tra gli italiani per spingerli a chiedere un governo forte, capace di ristabilire l’ordine, dando la colpa di tutto ai rossi…Tu devi cercare i mandanti di coloro che muovono gli autori di decine e decine di sequestri. I cui soldi servono anche a finanziare azioni eversive. I sequestratori spesso non sono che esecutori di disegni che sono invisibili ma concreti. Ricordati che loro agiscono sempre per conto di altri” <23, così diceva il magistrato a Ferdinando Imposimato.
L’unione delle batterie
Tra il 1975 e il 1976 a Nicolino Selis viene l’idea di creare la Banda della Magliana, nella speranza di sfruttare le diverse batterie <24 sparse nei vari quartieri romani, come racconta Abbatino agli inquirenti. Elabora il suo piano a partire dall’idea di Raffaele Cutolo, come sostiene Antonio Mancini <25 “Mentre ero detenuto insieme a Selis a Regina Coeli si parlava del fatto che a Napoli tal Raffaele Cutolo, che allora non era noto come lo sarebbe diventato in seguito, stava mettendo in piedi un’organizzazione criminale allo scopo di escludere dal territorio infiltrazioni di altre organizzazioni di diversa estrazione territoriale. Con Selis si decise di tentare su Roma la stessa operazione che Cutolo stava tentando su Napoli” <26 e ancora “si era innamorato del pensiero di Cutolo che aveva organizzato un gruppo che si opponeva a chi veniva da fuori, ovvero i siciliani che, come la si suol dire, la comandavano a Napoli Cutolo voleva difendere il suo territorio e Selis voleva fare la stessa cosa a Roma”. <27 Selis diventerà segretamente il capozona di Cutolo.
A fare parte del primo nucleo della Banda della Magliana sono: “Franco Giuseppucci, Enrico De Pedis detto Renatino, Raffaele Pernasetti, Ettore Maragnoli e Danilo Abbruciati. […] presto si aggregarono Maurizio Abbatino, Marcello Colafigli, Enzo Mastropietro” <28 due batterie Trastevere/Testaccio e Magliana, che decidono di gestire i traffici illegali su Roma. Rapimenti, estorsioni, rapine, droga, riciclaggio di denaro sporco.
“Era accaduto che Giovanni Tigani, la cui attività era quella di scippatore, si era impossessato di un’auto Vw “maggiolone” cabrio, a bordo nella quale Franco Giuseppucci custodiva un “borsone” di armi appartenenti ad Enrico De Pedis. Il Giuseppucci aveva lasciato l’auto, con le chiavi inserite, davanti al cinema “Vittoria”, mentre consumava qualcosa al bar. Il Tigani, ignaro di chi fosse il proprietario dell’auto e di cosa essa contenesse, se ne era impossessato. Accortosi però delle armi, si era recato al Trullo e, incontrato qui Emilio Castelletti che già conosceva, gliele aveva vendute, mi sembra per un paio di milioni di lire. L’epoca di questo fatto è di poco successiva ad una scarcerazione di Emilio Castelletti in precedenza detenuto. Franco Giuseppucci non perse tempo e si mise immediatamente alla ricerca dell’auto e soprattutto delle armi che vi erano custodite e lo stesso giorno, non so se informato proprio dal Tigani, venne a reclamare le armi stesse. Fu questa l’occasione nella quale conoscemmo Franco Giuseppucci il quale si unì a noi che già conoscevamo Enrico De Pedis cui egli faceva capo, che fece sì che ci si aggregasse con lo stesso. La “batteria” si costituì tra noi quando ci unimmo, nelle circostanze ora riferite, con Franco Giuseppucci. Di qui ci imponemmo gli obblighi di esclusività e di solidarietà” <29 racconta Maurizio Abbatino, nell’interrogatorio del 13 dicembre 1992.
Un pugno di banditi di borgata riesce in poco tempo a controllare tutta Roma, con obblighi di esclusività e solidarietà, ma il desiderio di potere e comando li porta a sbranarsi tra loro. Il 13 settembre 1980 viene assassinato Giuseppucci; due anni dopo, il 13 aprile 1982 muore in uno scontro a fuoco Danilo Abbruciati.
La fine delle batterie
Con la morte di Renatino, il 2 febbraio 1990, in via del Pellegrino a Roma <30, muore definitivamente il nucleo fondatore della Banda della Magliana. <31
Scrive, poco dopo la morte di De Pedis, il sostituto procuratore Franco Ionta “La malavita romana può definirsi mafia dei colletti bianchi per il suo ruolo di riciclaggio di ingenti somme di denaro in immobili, pelliccerie e gioiellerie, ristoranti e locali notturni gestito attraverso un reticolo di società a responsabilità limitata […]. L’organizzazione è in grado di investire negli appalti di grandi opere edilizie in Sudamerica e in Africa grazie al Venerabile Licio Gelli” 32. Dice Izzo “dietro la morte di Mattarella, Concutelli mi disse che c’erano la mafia e gli ambienti imprenditoriali, ma anche esponenti romani della corrente democristiana avversa a Mattarella. Valerio aggiunse che si erano fidati di lui perché aveva garantito la Banda della Magliana” e ancora, il professor Alberto Volo “Mangiameli mi raccontò che l’uccisione del presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana era stata decisa a casa di Gelli per via delle aperture al PCI che stavano maturando in Sicilia”. <33
Viene costruita una struttura capillarmente organizzata, a partire da alcune batterie, basata sul rispetto e la fiducia, che gestiva traffici illegali – droga, armi, prostituzione – e con legami forti con altre organizzazioni criminali, poteri forti, politica, terrorismo ed estremismo.
Grazie alle confessioni e al pentimento di Maurizio Abbatini, la Squadra Mobile dà il via all’“Operazione Colosseo” con la quale “quasi seicento uomini di Criminalpol, Digos e Squadra Mobile sono entrati in azione in tutta Roma, dalla zona residenziale di via Archimede ai casermoni del Tufello. Sessantanove gli ordini di cattura firmati, secondo la procedura del vecchio codice, dal giudice istruttore Otello Lupacchini. Solo tredici ricercati sono scampati alle manette, mentre una decina di provvedimenti sono stati consegnati in carcere ad altrettanti detenuti. A San Vitale, nelle stanze della questura romana, fino a tarda mattinata” <34.
Il primo processo ebbe vita il 20 gennaio 1995 <35, sempre grazie alle parole del pentito Abbatini, per il sequestro e l’omicidio Grazioli.
[NOTE]
17 C. Armati, Italia criminale: Personaggi, fatti e avvenimenti di un’Italia violenta, Newton Compton, 2010
18 A. Camuso, Mai ci fu pietà: La banda della Magliana dal 1977 a Mafia Capitale, Castelvecchi, 2014
19 Per un confronto sugli eventi degli anni ’70 si consigliano A. Orsini, Anatomia delle Brigate Rosse, Rubettino, 2010; G. Bocca, Gli anni del terrorismo. Storia della violenza politica in Italia dal 1970 ad oggi, Roma, Armando Curcio, 1988; http://espresso.repubblica.it/palazzo/2009/09/22/news/io-bosscercai-di-salvare-moro-1.15744.
20 A. Camuso, Mai ci fu pietà: La banda della Magliana dal 1977 a Mafia Capitale, Castelvecchi, 2014
21 Cfr. N. Di Matteo e S. Palazzolo, Collusi. Perché politici, uomini delle istituzioni e manager continuano a trattare con la mafia, BUR, 2015; A. A. Mola, Storia della Massoneria italiana dalle origini ai nostri giorni, Bompiani, 1992.
22 Per un approfondimento sul terrorismo nero cfr. P. Sidoni, P. Zanetov, Cuori rossi contro cuori neri, Newton Compton Editori; A. Colombo, Storia Nera, Cairo, 2007.
23 S. Manfredi, Il Sistema. Licio Gelli, Giulio Andreotti e i rapporti tra Mafia Politica e Massoneria, Narcissus, 2014.
24 Piccoli gruppi criminali, come spiega C. Armati, Roma Criminale, cap. XVII, Newton Compton Editori 2006
25 G. Flamini, La banda della Magliana, Kaos editore 2002
26 https://www.iltempo.it/cronache/2014/08/17/gallery/rapine-droga-e-scommesse-ascesa-e-fine-diselis-il-sardo-951242/
27 A. Camuso, Mai ci fu pietà: La banda della Magliana dal 1977 a Mafia Capitale, Castelvecchi, 2014
28 A. Camuso, Mai ci fu pietà: La banda della Magliana dal 1977 a Mafia Capitale, Castelvecchi, 2014
29 A. Giangrande, La mafia in Italia, Indipendently Published, 2018
30 http://www.storia.rai.it/articoli/ucciso-il-boss-della-banda-della-magliana/11973/default.aspx
31 R. di Giovacchino, Il libro nero della Prima Repubblica, Fazi Editore, 2005
32 R. di Giovacchino, Il libro nero della Prima Repubblica, Fazi Editore, 2005
33 R. di Giovacchino, Il libro nero della Prima Repubblica, Fazi Editore, 2005
34 https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/04/17/operazione-colosseo-blitz-all-alba-69.html
35 http://www.radioradicale.it/scheda/71905/71975-processo-per-il-sequestro-e-lomicidio-del-duca-grazioli-abbatino-9
Giulia Dominedò, Corruzione: Un’analisi etica del fenomeno e delle sue accezioni verso la definizione del caso “Mafia Capitale”, Tesi di laurea, Università Luiss “Guido Carli”, 2016

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2022-08-24

Durante l'estate di 33 anni fa (luglio-settembre 1990), le tensioni sull'emergenza abitativa non erano poi tanto diverse da quelle di oggi. Le case ancora oggi non sono abbastanza e l'occupazione rimane una delle forme di lotta che sopperisce all'inutilità dello stato:

"D'estate in quartiere alcuni di noi del Casale, non io, ossia non ci ho abitato, quindi non potrò darne la giusta descrizione, occupano insieme a delle famiglie di giovani coppie e senza casa le palazzine e le torri IACP vuote di Via Paolo Buzzi, è un'esperienza controversa con pro e contro che andrà avanti fino ad aprile 1991 giorno dello sgombero."

(Continua)

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