Il contesto era anche quello dell’applicazione del Trattato di Maastricht
A portare a compimento il processo di industrializzazione del paese, arriva negli anni Ottanta la cosiddetta “terziarizzazione”, ovvero un’accelerazione del settore terziario, costituito dai servizi secondo diverse le diverse tipologie elaborate per distinguerli dai beni. Genericamente si parla di commercio, servizi pubblici, turismo, trasporti, attività finanziarie, bancarie e assicurative, attività di ricerca, ecc., ma l’individuazione dei servizi è avvenuta in base a classificazioni molto elaborate <57.
Il terziario va a conquistare il centro del panorama economico che l’industria occupava dagli anni Sessanta <58. Nel 1980 esso rappresenta già una fetta di oltre il 48% degli occupati e il 51,6% del valore aggiunto. L’anno successivo, la “terziarizzazione” dell’economia produce un ulteriore spostamento degli occupati: i servizi assorbono la quota maggiore di lavoratori, quasi il 50%, l’industria scende sotto il 40% e l’agricoltura arretra all’11%. Nel 1995 le percentuali sono rispettivamente al 61,3%, 32,7% e 6%. Gli addetti al terziario nel 2009 saranno il 67,0%, con l’industria al 29,2% e l’agricoltura al 3,8%.
I settori dei servizi che giocano un ruolo determinante nel nuovo corso economico sono la finanza, l’informazione e ricreazione, e i servizi sociali. Soprattutto i servizi finanziari acquistano una centralità a livello globale nell’intreccio tra informatica e telecomunicazioni. “Fu determinante per lo sviluppo dei mercati monetari, nonché dei numerosi servizi e figure professionali ad essi collegati”, segnala Ginsborg <59.
In Italia, al contrario, proprio questo settore, come altri di punta del terziario, ha avuto un andamento atipico e più instabile rispetto alle altre potenze economiche. Per esempio, le banche, dopo il fortunato periodo senza precedenti degli anni Settanta e inizio Ottanta, quando approfittarono soprattutto della propensione italiana al risparmio, si mossero con lentezza e senza i rinnovamenti organizzativi e di configurazioni societarie in grado di competere con i colossi internazionali.
D’altro canto, la grande vitalità della produzione italiana è testimoniata dall’andamento dell’economia del nostro paese nella seconda parte degli anni Ottanta, in coincidenza con la decisa ripresa dell’andamento internazionale. In particolare, se la crescita in tutta Europa ha un progressivo incremento, in Italia le cose vanno ancora meglio, con un aumento del Pil da metà anni Settanta alla fine degli Ottanta di poco meno del 50%, un cinque per cento in più rispetto alla media degli altri partner europei. Ed è proprio sul finire di quel decennio che l’Italia può annunciare di essere diventata la quinta potenza economica mondiale del G7, cioè il Group of seven, il club ristretto delle sette democrazie più industrializzate al mondo dove il suo ingresso aveva fatto storcere il naso ad alcuni partner. È il cosiddetto “sorpasso” della Gran Bretagna annunciato nel gennaio 1987 dall’allora ministro del Tesoro e presa male da Londra, ma confermata dalle organizzazioni internazionali e solidamente legata alla grande realtà della capillare diffusione della piccola impresa, assente nel Regno Unito.
A livello industriale, le ragioni di questa rinnovata energia del comparto italiano vanno ricercate nella sua adeguatezza ad una nuova struttura dei mercati internazionali, sempre più dinamici e in continua espansione. Si tratta del fenomeno che vede la crisi mondiale della grande impresa ispirata al modello americano, incapace di incorporare attributi come rapidità e flessibilità nella produzione, presente invece nei distretti industriali italiani. Questi consistevano in reti di imprese che spesso si concentrarono in aree geografiche limitate, che avevano una serie di vantaggi nell’approvvigionamento della manodopera, nelle relazioni commerciali e nella specializzazione, indotta dalla concentrazione intorno ad una o più fasi di un processo produttivo.
All’incremento sostenuto della competitività delle piccole e medie imprese, corrispose una ristrutturazione dei centri industriali di grandi dimensioni. Per ridurre i propri costi, in particolare legati alle retribuzioni dei dipendenti, e guadagnare produttività, si fece ricorso all’automazione e ai vantaggi suscitati dalla rivoluzione informatica e tecnologica in corso, così come al decentramento, sia trasferendo parte della produzione fuori dai confini nazionali, sia esternalizzandola alle imprese di dimensioni più ridotte. <60
L’area del triangolo Torino-Milano-Genova perse conseguentemente parte della sua importanza, in seguito all’emergere di un notevole numero di distretti nelle aree più orientali del Nord Italia e lungo la costa Adriatica. Quest’ampia zona geografica, indicata con la sigla NEC, Nord-Est e Centro, prese il nome di Terza Italia.
Ma intanto, nello scenario internazionale gli ultimi anni Ottanta sono quelli della svolta che si prepara ad Est. A ridefinire gli equilibri globali è il cambio di rotta del blocco Sovietico, contrapposto a quello Occidentale nel mondo diviso in due. Nel 1985 il nuovo segretario generale del Partito Comunista, Michail Gorbaciov, annuncia che l’Unione Sovietica per sopravvivere deve uscire dalla stagnazione da cui è strangolata, attraverso una riorganizzazione dei principi che hanno guidato il regime comunista. I sui programmi di riforme, che furono segnati da resistenze e fallimenti, aprirono comunque la strada a quella spinta incontenibile che portò nel 1989 alla caduta del Muro di Berlino, con la riunificazione tedesca, e successivamente alla dissoluzione dell’Impero sovietico e alla fine della Guerra fredda. A livello psicologico, in Occidente la fine del Comunismo è vissuta come fine del Socialismo, della Socialdemocrazia e, in genere, di ogni intervento dello Stato nel Mercato.
Un passaggio storico che in Italia non si traduce nella sola ridefinizione del ruolo del Partito Comunista, ma che precipita in una crisi di decomposizione l’intero sistema dei partiti, imperniato su un consolidato patto di potere DC-PSI, a cui il PCI non è estraneo, coinvolgendo tutte le classi e forze sociali. Ma ciò accade proprio perché, se il quadro è quello della caduta del Muro di Berlino, ad agire sono anche fattori interni, legati soprattutto all’insoddisfazione proprio dei ceti medi urbani. Se da un lato l’irrompere nel 1992 di Tangentopoli, l’inchiesta giudiziaria sulla pratica consolidata delle tangenti da parte dei partiti, è vissuto come “questione morale”, dal punto di vista della Banca d’Italia “prese la forma di una crisi di indebitamento che avrebbe causato la sfiducia europea e internazionale nei confronti dell’economia italiana” <61.
Tanto più che il decennio si era aperto con la recessione del 1991 che aveva colpito in primo luogo gli Stati Uniti, per cause strutturali e non solo connesse alla fine della Guerra Fredda, esprimendosi come economia delle contraddizioni. “La Borsa di Wall Street continua a segnare record dopo record. Le corporation continuano ad annunciare profitti strepitosi. Ma per ogni punto guadagnato dalla Borsa e per ogni dollaro guadagnato dalle azioni di una corporation, ci sono migliaia di nuovi disoccupati” <62.
E così anche l’Italia, nel pieno infuriare di Tangentopoli e della guerra allo Stato dichiarata dalla Mafia in Sicilia, si trovò a dover far quadrare i difficili numeri della congiuntura economica. Una crisi di carattere finanziario che ebbe importanti effetti sul sistema economico e sulle condizioni di vita della popolazione: sostenibilità della situazione del bilancio pubblico, con un disavanzo corrente previsto oltre i quarantamila miliardi di lire, necessità di riforme strutturali, rilancio della competitività del sistema economico, collocazione dell’Italia nel commercio mondiale, aumento dell’efficienza della Pubblica Amministrazione, lotta alla corruzione, perdita di credibilità della classe politica.
Il contesto era anche quello dell’applicazione del Trattato di Maastricht, firmato il 7 febbraio 1992 nella cittadina olandese, nel quale l’allora Comunità Europea fissava le regole politiche e i parametri economici e sociali necessari per l’ingresso e la permanenza dei vari stati nell’Unione. Si fissava, inoltre, l’Unione economica monetaria, stabilendo che entro il primo gennaio 1999 si sarebbe dato il via alla moneta unica, l’Euro con la nascita della Banca centrale europea. Si indicavano un rapporto deficit pubblico/Pil non superiore al 3%, un rapporto debito pubblico/Pil non superiore al 60%, un tasso di inflazione non superiore del’1,5% rispetto a quello dei tre paesi più virtuosi. Mentre per diversi paesi, soprattutto del nord Europa, si pose il problema della ratifica del trattato, cui si opponevano ampie fasce di popolazione, per l’Italia la vera difficoltà era proprio doversi conformare a questi parametri. Il deficit di bilancio italiano all’epoca era il 9,9% del Pil, rispetto al 3% indicato dal Trattato. Il debito pubblico era al 103% del Pil anziché minore del 60%. Il tasso d’inflazione sfiorava il 10% del Pil, invece di essere entro il 3%.
[NOTE]
57 Grande influenza ha avuto la distinzione proposta da T.P.Hill nel 1977, secondo il quale “i servizi non sono beni immateriali o invisibili, ma godono di proprietà specifiche e devono quindi beneficiare di un diverso statuto concettuale”. Quanto alla destinazione, è stata in genere definita in relazione a due tipologie generali di mercato: servizi al produttore o intermedi da una parte, servizi al consumatore o finali dall’altra. Esempi del primo tipo sono servizi alle aziende quali la contabilità, la consulenza legale e finanziaria, la pubblicità, etc. Tra gli esempi del secondo tipo, i servizi ricreativi, la sanità l’istruzione. P. Ginsborg, ibidem.
58 Al censimento 1931 le percentuali erano: agricoltura 46,8, industria 30,8 e servizi 22,4. Nel secondo dopoguerra, l’agricoltura incide ancora per il 42% ma industria e servizi acquistano maggiore peso, 32% e 26%. È lo sviluppo industriale degli anni Sessanta che modifica la distribuzione degli occupati fra settori: nell’industria arrivano al 41%, nei servizi al 30% mentre gli occupati in agricoltura si attestano sotto il 30% (Fonte Istat).
59 P. Ginsborg, ibidem. “La gamma dei servizi finanziari, sia al produttore sia al consumatore, si ampliò in maniera spettacolare. Allo stesso tempo, i mercati monetari vennero trasformati dal volume e dalla mobilità dei capitali, dalla volatilità sia del prezzo del denaro (tassi d’interesse) sia dei rapporti tra le valute (tassi di cambio)”.
60 Ennio De Simone, Storia Economica, pp. 323-324
61 P. Ginsborg, ibidem, pag.472.
62 Piero Scaruffi, Il Terzo Secolo, almanacco della società americana alla fine del millennio (Feltrinelli, 1996).
Lorenzo Petrone, La classe media in Italia: un baricentro. L’evoluzione della compagine sociale protagonista del miracolo economico, Tesi di laurea, Università Luiss “Guido Carli”, Anno Accademico 2016-2017
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