#terziario

Il contesto era anche quello dell’applicazione del Trattato di Maastricht

A portare a compimento il processo di industrializzazione del paese, arriva negli anni Ottanta la cosiddetta “terziarizzazione”, ovvero un’accelerazione del settore terziario, costituito dai servizi secondo diverse le diverse tipologie elaborate per distinguerli dai beni. Genericamente si parla di commercio, servizi pubblici, turismo, trasporti, attività finanziarie, bancarie e assicurative, attività di ricerca, ecc., ma l’individuazione dei servizi è avvenuta in base a classificazioni molto elaborate <57.
Il terziario va a conquistare il centro del panorama economico che l’industria occupava dagli anni Sessanta <58. Nel 1980 esso rappresenta già una fetta di oltre il 48% degli occupati e il 51,6% del valore aggiunto. L’anno successivo, la “terziarizzazione” dell’economia produce un ulteriore spostamento degli occupati: i servizi assorbono la quota maggiore di lavoratori, quasi il 50%, l’industria scende sotto il 40% e l’agricoltura arretra all’11%. Nel 1995 le percentuali sono rispettivamente al 61,3%, 32,7% e 6%. Gli addetti al terziario nel 2009 saranno il 67,0%, con l’industria al 29,2% e l’agricoltura al 3,8%.
I settori dei servizi che giocano un ruolo determinante nel nuovo corso economico sono la finanza, l’informazione e ricreazione, e i servizi sociali. Soprattutto i servizi finanziari acquistano una centralità a livello globale nell’intreccio tra informatica e telecomunicazioni. “Fu determinante per lo sviluppo dei mercati monetari, nonché dei numerosi servizi e figure professionali ad essi collegati”, segnala Ginsborg <59.
In Italia, al contrario, proprio questo settore, come altri di punta del terziario, ha avuto un andamento atipico e più instabile rispetto alle altre potenze economiche. Per esempio, le banche, dopo il fortunato periodo senza precedenti degli anni Settanta e inizio Ottanta, quando approfittarono soprattutto della propensione italiana al risparmio, si mossero con lentezza e senza i rinnovamenti organizzativi e di configurazioni societarie in grado di competere con i colossi internazionali.
D’altro canto, la grande vitalità della produzione italiana è testimoniata dall’andamento dell’economia del nostro paese nella seconda parte degli anni Ottanta, in coincidenza con la decisa ripresa dell’andamento internazionale. In particolare, se la crescita in tutta Europa ha un progressivo incremento, in Italia le cose vanno ancora meglio, con un aumento del Pil da metà anni Settanta alla fine degli Ottanta di poco meno del 50%, un cinque per cento in più rispetto alla media degli altri partner europei. Ed è proprio sul finire di quel decennio che l’Italia può annunciare di essere diventata la quinta potenza economica mondiale del G7, cioè il Group of seven, il club ristretto delle sette democrazie più industrializzate al mondo dove il suo ingresso aveva fatto storcere il naso ad alcuni partner. È il cosiddetto “sorpasso” della Gran Bretagna annunciato nel gennaio 1987 dall’allora ministro del Tesoro e presa male da Londra, ma confermata dalle organizzazioni internazionali e solidamente legata alla grande realtà della capillare diffusione della piccola impresa, assente nel Regno Unito.
A livello industriale, le ragioni di questa rinnovata energia del comparto italiano vanno ricercate nella sua adeguatezza ad una nuova struttura dei mercati internazionali, sempre più dinamici e in continua espansione. Si tratta del fenomeno che vede la crisi mondiale della grande impresa ispirata al modello americano, incapace di incorporare attributi come rapidità e flessibilità nella produzione, presente invece nei distretti industriali italiani. Questi consistevano in reti di imprese che spesso si concentrarono in aree geografiche limitate, che avevano una serie di vantaggi nell’approvvigionamento della manodopera, nelle relazioni commerciali e nella specializzazione, indotta dalla concentrazione intorno ad una o più fasi di un processo produttivo.
All’incremento sostenuto della competitività delle piccole e medie imprese, corrispose una ristrutturazione dei centri industriali di grandi dimensioni. Per ridurre i propri costi, in particolare legati alle retribuzioni dei dipendenti, e guadagnare produttività, si fece ricorso all’automazione e ai vantaggi suscitati dalla rivoluzione informatica e tecnologica in corso, così come al decentramento, sia trasferendo parte della produzione fuori dai confini nazionali, sia esternalizzandola alle imprese di dimensioni più ridotte. <60
L’area del triangolo Torino-Milano-Genova perse conseguentemente parte della sua importanza, in seguito all’emergere di un notevole numero di distretti nelle aree più orientali del Nord Italia e lungo la costa Adriatica. Quest’ampia zona geografica, indicata con la sigla NEC, Nord-Est e Centro, prese il nome di Terza Italia.
Ma intanto, nello scenario internazionale gli ultimi anni Ottanta sono quelli della svolta che si prepara ad Est. A ridefinire gli equilibri globali è il cambio di rotta del blocco Sovietico, contrapposto a quello Occidentale nel mondo diviso in due. Nel 1985 il nuovo segretario generale del Partito Comunista, Michail Gorbaciov, annuncia che l’Unione Sovietica per sopravvivere deve uscire dalla stagnazione da cui è strangolata, attraverso una riorganizzazione dei principi che hanno guidato il regime comunista. I sui programmi di riforme, che furono segnati da resistenze e fallimenti, aprirono comunque la strada a quella spinta incontenibile che portò nel 1989 alla caduta del Muro di Berlino, con la riunificazione tedesca, e successivamente alla dissoluzione dell’Impero sovietico e alla fine della Guerra fredda. A livello psicologico, in Occidente la fine del Comunismo è vissuta come fine del Socialismo, della Socialdemocrazia e, in genere, di ogni intervento dello Stato nel Mercato.
Un passaggio storico che in Italia non si traduce nella sola ridefinizione del ruolo del Partito Comunista, ma che precipita in una crisi di decomposizione l’intero sistema dei partiti, imperniato su un consolidato patto di potere DC-PSI, a cui il PCI non è estraneo, coinvolgendo tutte le classi e forze sociali. Ma ciò accade proprio perché, se il quadro è quello della caduta del Muro di Berlino, ad agire sono anche fattori interni, legati soprattutto all’insoddisfazione proprio dei ceti medi urbani. Se da un lato l’irrompere nel 1992 di Tangentopoli, l’inchiesta giudiziaria sulla pratica consolidata delle tangenti da parte dei partiti, è vissuto come “questione morale”, dal punto di vista della Banca d’Italia “prese la forma di una crisi di indebitamento che avrebbe causato la sfiducia europea e internazionale nei confronti dell’economia italiana” <61.
Tanto più che il decennio si era aperto con la recessione del 1991 che aveva colpito in primo luogo gli Stati Uniti, per cause strutturali e non solo connesse alla fine della Guerra Fredda, esprimendosi come economia delle contraddizioni. “La Borsa di Wall Street continua a segnare record dopo record. Le corporation continuano ad annunciare profitti strepitosi. Ma per ogni punto guadagnato dalla Borsa e per ogni dollaro guadagnato dalle azioni di una corporation, ci sono migliaia di nuovi disoccupati” <62.
E così anche l’Italia, nel pieno infuriare di Tangentopoli e della guerra allo Stato dichiarata dalla Mafia in Sicilia, si trovò a dover far quadrare i difficili numeri della congiuntura economica. Una crisi di carattere finanziario che ebbe importanti effetti sul sistema economico e sulle condizioni di vita della popolazione: sostenibilità della situazione del bilancio pubblico, con un disavanzo corrente previsto oltre i quarantamila miliardi di lire, necessità di riforme strutturali, rilancio della competitività del sistema economico, collocazione dell’Italia nel commercio mondiale, aumento dell’efficienza della Pubblica Amministrazione, lotta alla corruzione, perdita di credibilità della classe politica.
Il contesto era anche quello dell’applicazione del Trattato di Maastricht, firmato il 7 febbraio 1992 nella cittadina olandese, nel quale l’allora Comunità Europea fissava le regole politiche e i parametri economici e sociali necessari per l’ingresso e la permanenza dei vari stati nell’Unione. Si fissava, inoltre, l’Unione economica monetaria, stabilendo che entro il primo gennaio 1999 si sarebbe dato il via alla moneta unica, l’Euro con la nascita della Banca centrale europea. Si indicavano un rapporto deficit pubblico/Pil non superiore al 3%, un rapporto debito pubblico/Pil non superiore al 60%, un tasso di inflazione non superiore del’1,5% rispetto a quello dei tre paesi più virtuosi. Mentre per diversi paesi, soprattutto del nord Europa, si pose il problema della ratifica del trattato, cui si opponevano ampie fasce di popolazione, per l’Italia la vera difficoltà era proprio doversi conformare a questi parametri. Il deficit di bilancio italiano all’epoca era il 9,9% del Pil, rispetto al 3% indicato dal Trattato. Il debito pubblico era al 103% del Pil anziché minore del 60%. Il tasso d’inflazione sfiorava il 10% del Pil, invece di essere entro il 3%.
[NOTE]
57 Grande influenza ha avuto la distinzione proposta da T.P.Hill nel 1977, secondo il quale “i servizi non sono beni immateriali o invisibili, ma godono di proprietà specifiche e devono quindi beneficiare di un diverso statuto concettuale”. Quanto alla destinazione, è stata in genere definita in relazione a due tipologie generali di mercato: servizi al produttore o intermedi da una parte, servizi al consumatore o finali dall’altra. Esempi del primo tipo sono servizi alle aziende quali la contabilità, la consulenza legale e finanziaria, la pubblicità, etc. Tra gli esempi del secondo tipo, i servizi ricreativi, la sanità l’istruzione. P. Ginsborg, ibidem.
58 Al censimento 1931 le percentuali erano: agricoltura 46,8, industria 30,8 e servizi 22,4. Nel secondo dopoguerra, l’agricoltura incide ancora per il 42% ma industria e servizi acquistano maggiore peso, 32% e 26%. È lo sviluppo industriale degli anni Sessanta che modifica la distribuzione degli occupati fra settori: nell’industria arrivano al 41%, nei servizi al 30% mentre gli occupati in agricoltura si attestano sotto il 30% (Fonte Istat).
59 P. Ginsborg, ibidem. “La gamma dei servizi finanziari, sia al produttore sia al consumatore, si ampliò in maniera spettacolare. Allo stesso tempo, i mercati monetari vennero trasformati dal volume e dalla mobilità dei capitali, dalla volatilità sia del prezzo del denaro (tassi d’interesse) sia dei rapporti tra le valute (tassi di cambio)”.
60 Ennio De Simone, Storia Economica, pp. 323-324
61 P. Ginsborg, ibidem, pag.472.
62 Piero Scaruffi, Il Terzo Secolo, almanacco della società americana alla fine del millennio (Feltrinelli, 1996).
Lorenzo Petrone, La classe media in Italia: un baricentro. L’evoluzione della compagine sociale protagonista del miracolo economico, Tesi di laurea, Università Luiss “Guido Carli”, Anno Accademico 2016-2017

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L’egemonia cattolica nel Veneto determina rapporti di forza peculiari tra la DC e il PCI

Il Veneto è una regione popolata da piccole città, piccole imprese, agricoltura contadina ed è permeata dalla devozione al cattolicesimo. <35 La chiave di successo della sua economia, che decollò negli anni ’50 per poi svilupparsi negli anni ’60 e raggiungere l’apice negli anni ’70, fu il basso costo del lavoro derivante dall’impegno part time nell’industria e dal lavoro domestico, ossia la cosiddetta “economia sommersa”.
Alla base della politica del dopoguerra che predominò in Veneto, vi fu il controllo della riproduzione della forza lavoro, dal punto di vista materiale e ideologico, e soprattutto, quello delle condizioni di vita al di fuori della fabbrica. Questo fu possibile dalla frammentazione e dalla dispersione e, conseguentemente, dalla debolezza organizzativa della classe operaia; in secondo luogo, dalla presenza delle istituzioni sociali della Chiesa, una serie di organizzazioni collaterali come le cooperative, le casse di mutuo soccorso, l’Azione Cattolica, tutte facenti capo alla parrocchia, il cuore della vita religiosa.
Nel 1945 il governo italiano scelse un tipo di sviluppo guidato dalle forze del mercato, specialmente da quello internazionale, garantendo così l’incremento dei consumi interni moderni e la compressione dei salari. Questa modello portò un ritardo allo sviluppo della classe operaia nell’industria, lo spostamento di massa dalla campagna alla città e quindi un rapido sviluppo del terziario e dell’ingrossamento delle fila dei ceti medi, sia in ambito produttivo che in quello distributivo. Il cardine di questo percorso era la mobilità individuale e, quindi, lo sfruttamento proprio delle disuguaglianze nel sistema al fine di incentivare la partecipazione ai profitti che il sistema poteva elargire.
Considerando che l’Italia faceva parte del blocco occidentale e si trovava sotto la tutela statunitense che impose, nel 1947, l’esclusione dal governo del PCI (il partito che rappresentava la classe operaia), e dall’altro lato, l’apparato produttivo del paese era quello di un paese in via di sviluppo e si basava sull’eccesso di manodopera a basso costo, si capisce perché il governo del tempo abbia optato per questo tipo di modello di sviluppo.
La svolta che portò alla concretizzazione del miracolo economico del 1958-1962 fu l’attuazione di una politica basata su grandi profitti derivanti dai bassi salari che stimolavano gli investimenti necessari ad assicurare un buon livello di produttività, il quale a sua volta garantiva la crescita, la competitività dell’economia italiana a livello internazionale. Due elementi fondamentali di tale processo furono la produzione industriale di beni di largo consumo a bassa tecnologia e i salari bassi (conseguenza dell’elevato tasso di disoccupazione e della debolezza dei movimenti operai organizzati nel periodo della Guerra Fredda).
Questo scenario spiega, in un certo modo, il successo del settore della piccola impresa nel Veneto, la quale ha contribuito a mantenere costante il benessere della regione e della piccola industria, dove il lavoro a tempo parziale e il lavoro domestico avevano mantenuto relativamente basso costo della manodopera. Ricordiamo che, oltre al conflitto scatenato dagli uomini se ne aggiunse in quegli anni uno provocato dalla natura <36: nel 1951, una devastante alluvione sconvolse il Polesine, allagando oltre la metà della provincia, causando più di 100 vittime e 180mila sfollati (80 mila persone lascerà la regione per sempre). Mentre nel 1963, una frana dal monte Toc, ai confini tra le province di Pordenone e Belluno, piomba nel lago artificiale creato dalla diga del Vajont; provocando la morte di 1917 persone e distruggendo gli abitati del fondovalle. <37
Nonostante le guerre e disastri naturali, la capacità e la voglia di ripresa riescono farsi largo. L’avvio vero come detto è degli anni Sessanta, quando il reddito nazionale netto aumenta del 54 per cento, e il risparmio del 170. Nel 1961, le aziende con meno di 100 addetti assorbono il 72 per cento dell’occupazione. È un salto di qualità progressivo anche se rapido: l’operaio che lavorava giorno e notte in fabbrica, un po’ alla volta si mette in proprio diventando imprenditore di successo, scrivendo storie di tante crescite tipicamente venete. A renderlo evidente è il tasso di natalità delle imprese dell’epoca, di gran lunga superiore a quello della crescita occupazionale: segno evidente che molti ex dipendenti hanno deciso di fare il salto di qualità, avviando un’attività autonoma.
Negli anni Settanta, avviene uno storico sorpasso, gli addetti all’industria hanno superato il fatidico 50 per cento. Se negli anni Sessanta il reddito pro capite del Veneto è stato nettamente inferiore a quello della media nazionale, nel 1970 si verifica l’aggancio, merito di un’industrializzazione che marcia di pari passo con il potere d’acquisto. Inizia, come già annunciato, a decollare anche il settore terziario: una persona su tre, nella popolazione attiva, opera in questo settore. Per il resto dell’economia di questa regione, la seconda parte degli anni Settanta, è quella del grande balzo, con un trend che si dimostrerà costante fino ai primi anni Ottanta.
Pur la Chiesa subendo negli anni ’70, pressioni di una crescente e generale secolarizzazione, l’amministrazione locale con i suoi provvedimenti, in particolar modo nei settori dell’edilizia e della previdenza sociale, divenne un elemento fondamentale per il conseguimento e il mantenimento dell’egemonia di quel partito che per quasi l’intero dopoguerra governò questa regione, la DC.
Durante la dittatura, con la soppressione dei partiti e dei principali corpi intermedi, i poteri locali attuano ovunque in Italia forme di “resistenza” e di salvaguardia della propria collocazione nella struttura sociale. <38 Nel Veneto rurale operano in tale direzione fattori specifici, legati al ruolo della Chiesa che sembrano mitigare l’impatto del fascismo sulla società locale. Non si può non notare che, anche in Veneto l’effetto delle politiche di fascistizzazione della società e di formazione delle nuove generazioni concepite da Mussolini per l’intera nazione (con l’aiuto della stampa, radio, scuola e corpi intermedi creati ad hoc), hanno avuto un forte impatto. Infatti, sarebbe errato attribuire al Veneto del primo dopoguerra una cromatura “bianca”, talmente spessa da riemergere, intatta, dopo la caduta del fascismo. <39 Dalla fine dell’Ottocento, oltre all’associazionismo cattolico, compare e si diffonde anche quello di aspirazione socialista: nei primi anni del Novecento in molti centri urbani del Veneto si formano alleanze comprendenti socialisti, radicali e repubblicani che, dando vita alla stagione delle cosiddette giunte bloccarde, spezzano l’egemonia moderata in ambito amministrativo. <40 Una parte dell’associazionismo mutualistico Veneto urbano favorisce il radicamento del Partito socialista nel territorio, secondo un progetto basato sulle trasformazioni di capitale sociale sedimentato nelle associazioni mutualistiche in risorsa politica, mediante la presenza del partito e il controllo del municipio. Il Partito socialista in Veneto si rivela incapace di saldare le proprie lotte nelle campagne, a differenza delle realtà urbane. In Veneto, nel biennio 1919-20 la mobilitazione delle classi subalterne raggiunge livelli ineguagliati. <41 La contrapposizione fra organizzazioni “bianche” e “rosse” pregiudica la possibilità di successo dei contadini, ma rivela l’eterogeneità degli orientamenti politici nel Veneto d’inizio secolo. In Veneto, la devozione dei contadini ha reso possibile l’incapsulamento nella filigrana “bianca” delle plebi rurali mobilitate a seguito della crisi agraria di fine Ottocento. La storia elettorale del Veneto vede emergere il cromatismo “bianco” già agli inizi del Novecento. Ma l’incidenza della frattura città-campagna discrimina l’insediamento elettorale dei cattolici (rurale) da quello dei socialisti (urbano): il bianco, quindi, è dominante solo in campagna. Lungi dal costituire soltanto “una parentesi”, il fascismo modificherà in profondo il profilo politico lasciando sopravvivere, alla sua caduta, solo le realtà organizzative più forti, ossia solo il capitale sociale “bianco”. Per capire le caratteristiche di fondo della subcultura “bianca”, e al contempo, i motivi per i quali essa ha potuto attraversare il fascismo senza esserne sradicata: dobbiamo immaginare una sorta di sfera immutabile, dove vigevano “leggi” stabilite probabilmente attorno al Settecento, custodite dagli uomini di Chiesa che, creavano una specifica cultura paesana, dove contadini e artigiani erano gli attori principali.
L’apparente immutabilità che sembra caratterizzare il Veneto “bianco” nel passaggio dal fascismo alla democrazia è data dalla centralità della Chiesa nella cultura politica locale e dalla sua capacità di riproporsi quale schermo protettivo nei confronti di qualunque intervento esterno ritenuto pericoloso dalla società locale. Senza più il fascismo e con uno Stato molto diverso da quello scaturito dal Risorgimento nulla più osta alla trasformazione del suo capitale sociale anche in una risorsa politica. È prevalsa l’interpretazione secondo cui in Veneto l’egemonia politica cattolica fosse acquisita fin dal primo dopoguerra. Possiamo sostenere invece che tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento la Chiesa abbia consolidato l’egemonia <42 nei contesti rurali, mentre è solo durante il ventennio fascista, in virtù della libertà di iniziativa ottenuta mediante il compromesso che il regime, che essa riesce a divenire fulcro anche dell’ambiente urbano. Il passaggio attraverso il fascismo può essere identificato come una fase di mutamento del capitale sociale “bianco” sia per effetto dell’annichilimento delle forme organizzative altre e minori ad opera della dittatura, sia in seguito al riposizionamento operato dalla Chiesa nella struttura delle linee di frattura. Con la nascita della DC e la sua posizione dominante nel corso della seconda metà del Novecento la frattura Stato-Chiesa può essere gestita da posizioni molto favorevoli per il Vaticano, che può concentrare la propria forza politica nel proporsi come ancora di salvezza contro il comunismo. Lo spostamento nella struttura delle linee di frattura comporta un cambiamento nelle modalità di azione per la Chiesa: dall’intervento sociale, contro lo Stato liberale e in concorrenza con il movimento socialista fino all’avvento del regime, al controllo del perimetro ideologico in funzione anticomunista nel secondo dopoguerra.
L’egemonia cattolica nel Veneto determina rapporti di forza peculiari tra la DC e il PCI segnati dal preponderante dominio elettorale della prima sulla seconda, e accompagna la trasformazione di un’area preminentemente rurale in zona ad alta densità di sviluppo industriale di piccola impresa. In Veneto, le fratture connesse alla formazione dello Stato nazionale (centro periferia e Stato-Chiesa), unitamente al cleavage città-campagna, hanno preceduto e contenuto la frattura capitale-lavoro, mentre il conflitto di classe si è manifestato in presenza di forme di controllo sociale capaci di impedirne una riproduzione in termini partitici significativi. <43 Questo incapsulamento della struttura di cleavages prevalenti funziona anche nel dopoguerra, quando la frattura principale diventa quella che contrappone il mondo “bianco” al comunismo, il quale condivide con i “nemici” storici, il “centro” del sistema politico, lo Stato, ma anche “il centro urbano”, l’essere percepito quale minaccia esterna in grado di depauperare la filigrana della società locale. Per almeno i primi decenni del secondo dopoguerra, in Veneto, il criterio decisivo di alleanza sarà il legame tra localismo e la sua cultura prevalente, si vota allo stesso modo della comunità a cui si fa parte e dei suoi leader, senza tener conto della propria posizione economica.44 Il localismo non si traduce in posizioni eversive e pericolose, in quanto la dimensione simbolica e organizzativa della Chiesa danno linfa ad un capitale sociale che garantisce la coesione, l’articolazione, l’aggregazione e la soddisfazione delle domande individuali e collettive (responsiveness) e la presenza della DC assicura l’accesso al sistema politico e il rispetto delle sue regole. <45 Il fattore religioso incide sul piano morale e, su quello dell’integrazione, dell’identità sociale e su quello materiale dell’organizzazione, della rappresentanza e della mediazione con le istituzioni. <46 Negli anni Cinquanta su iniziativa delle ACLI venne svolta un’indagine presso i giovani della provincia di Vicenza, dove emerse la rilevanza di tali elementi, quale la premessa e fondamento degli orientamenti politici nella subcultura “bianca”. <47 Dalla ricerca risulta che nella società veneta di quel periodo, il rapporto con la politica era complesso, come i rapporti di forza elettorali. I partiti considerati come attori non troppo amati né apprezzati, cui vengono attribuiti ruoli ben precisi: la DC appare attenta alla tutela della Chiesa e della libertà, ma indifferente ai problemi di chi lavora; mentre il PCI e PSI figurano come nemici della religione, ma sostenitori dei lavoratori. La religione costituisce la filigrana “bianca” che collega gli orientamenti di fondo, è nel nome della religione che la DC viene legittimata come protagonista delle scelte. L’appartenenza alla Chiesa viene ritenuta una premessa sufficiente per attribuire il consenso ad un partito che pure non gode di molta fiducia. La Chiesa rafforza questo aspetto, grazie alla capacità di gestire e riprodurre un sistema di valori e significati incardinato alla vita quotidiana, all’interno della quale è la stessa istituzione ecclesiastica a fornire alla società una peculiare concezione del mondo. Inoltre, la Chiesa produce anche risorse organizzative e beni materiali (assistenza sociale, sostegno economico e organizzazione territoriale), garantendo così, forme di accountability sociale nei confronti dei governanti, attraverso la pressione svolta dal mondo cattolico locale sui parlamentari veneti e l’opera di mediazione svolta dalle parrocchie, compensa il deficit di responsiveness della DC. <48 Adesione o rifiuto della dimensione religiosa comporta anche appartenenza o antagonismo rispetto ai valori e alle logiche dello sviluppo locale. L’alternativa fra DC e PCI non sembra, per i veneti degli anni Cinquanta, porsi come alternativa fra Chiesa e lavoro, ma fra due modelli di sviluppo differenti.
Dimensione religiosa e sviluppo territoriale costituiscono aspetti complementari, dai quali la DC attinge risorse di consenso. L’identificazione con la DC si fonda sull’appartenenza alla comunità cattolica, che si riproduce attraverso il contesto locale e familiare egemonizzato dalla Chiesa. <49 Falliscono infatti, vari tentativi di far nascere un partito cattolico fortemente strutturato; la DC è un classico esempio di partito a “istituzionalizzazione debole” <50, nato per legittimazione esterna, che ebbe come sponsor la Chiesa, e sviluppatosi per diffusione territoriale. L’autentica “istituzione forte” quindi, è la Chiesa, con la propria rete associativa, che organizza la società locale e l’attività delle istituzioni amministrative. Si rafforza così, l’idea fortemente radicata nella cultura politica veneta sin dall’Ottocento, secondo cui chi opera a livello del governo locale non svolge un’attività locale, ma amministrativa, entro un contesto nel quale l’attività dell’ente locale si orienta in larga parte al contenimento di interventi e spese e all’appoggio esterno alla rete organizzativa cattolica, soprattutto alle sue strutture creditizie e assistenziali. <51
[NOTE]
35 MESSINA, PATRIZIA, et al. Cultura politica, istituzioni e matrici storiche. Padova University Press, 2014.
36 JORI, FRANCESCO. La storia del Veneto: dalle origini ai nostri giorni. Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 2018
37 JORI, FRANCESCO. La storia del Veneto: dalle origini ai nostri giorni. Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 2018
38 POMBENI P. (1995), La rappresentanza politica, in R. Romanelli (a cura di), Storia dello Stato italiano dall’Unità a oggi, Donzelli, Roma
39 ALMAGISTI, MARCO. Una democrazia possibile: politica e territorio nell’Italia contemporanea. Carocci, 2016
40 CAMURRI R. (a cura di) (2000), Il comune democratico. Riccardo Dalle Mole e l’esperienza delle giunte bloccarde nel Veneto giolittiano, Marsilio, Venezia
41 PIVA FA. (1977), Lotte contadine e origini del Fascismo. Padova-Venezia, 1919-22, Marsilio, Venezia.
42 RICCAMBONI G. (1992), L’identità esclusa. Comunisti in una subcultura bianca, Liviana, Padova.
43 DIAMANTI I., RICAMBONI G. (1992), La parabola del voto bianco. Elezioni e società in Veneto, 1946-1992, Neri Pozza, Vicenza
44 ROKKAN S. (1970), Citizens, Elections, Parties: Approaches to the Comparative Study of the Process of Development, Universitetsforlaget, Oslo (trad. it. Cittadini, elezioni e partiti, il Mulino, Bologna 1982)
45 ALMAGISTI, MARCO. Una democrazia possibile: politica e territorio nell’Italia contemporanea. Carocci, 2016
46 DIAMANTI I., PACE E. (1987), Tra religione e organizzazione. Il caso delle ACLI: mondo cattolico, società e associazionismo nel Veneto, Liviana, Padova
47 DIAMANTI I. (1986), La filigrana bianca della continuità: senso comune, consenso politico, appartenenza religiosa nel Veneto degli anni ’50, in “Venetica, Rivista di Storia contemporanea”
48 ALMAGISTI, MARCO. Una democrazia possibile: politica e territorio nell’Italia contemporanea. Carocci, 2016
49 TRIGILIA C. (1986), Grandi partiti e piccole imprese. Comunisti e democristiani nelle regioni a economia diffusa, il Mulino, Bologna
50 PANEBIANCO A. (1982), Modelli di partito: organizzazione e potere nei partiti politici, il Mulino, Bologna
51 TRIGILIA C. (1982) La trasformazione delle culture subculture politiche territoriali, in “Inchiesta”
Simone Spirch, Il Veneto lungo: dalla Serenissima ai giorni nostri, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2021-2022

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2023-11-16

@rosigi04 pensare che una persona possa perdere il posto o non venire più chiamata perché non riesce a raggiungere il posto di lavoro per via di uno #sciopero domani, o per un guasto alla linea ferroviaria o perché non le parte la macchina non mi rallegra di certo
Comunque nel #terziario non ti ingressi di certo al massimo ti spezzi la schiena e se ti investe un carrello ti obbligano a dire che ti ha investito un pirata della strada mentre venivi al lavoro
È difficile per tutti per alcuni di più

2020-09-06

“Verso un’economia di merda”| In ricordo di David Graeber –

Pubblicato in origine il 5-09-2020 su Effimera                                di F. Berardi (Bifo)
Conobbi David a Sapporo, nell’anno 2008 nella palestra dove si teneva la riunione iniziale delle gio

rizomatica.noblogs.org/2020/09

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