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2025-10-26

: "Il politicamente corretto è il linguaggio delle élite"

Lo scrittore Valerio Savioli presenta il suo libro "L'uomo Residuo. , , Morte dell'Europa" analizzando gli effetti che questi due fenomeni hanno sulla società occidentale.
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Profughi stranieri in Italia nel 1945

Il responsabile dell’Ufficio per i Dp [Displaced Persons: persone profughe] Camps Unrra [United Nations Relief and Rehabilitation Administration] a Roma era Antonio (Tony) Sorieri, Chief of Bureau of Relief Service, presentato dal Nuovo Notiziario Luce del 1945 come il “Signor Sorieri, dal quale dipende l’organizzazione dei campi degli sfollati” <81. Sorieri era anche il Deputy Chief of Mission in Italy, il cui ufficio era in una piccola sede in Via Toscana, in una traversa alle spalle dell’Ambasciata statunitense a Via Veneto. Nella struttura piramidale secondo la quale era organizzata l’Unrra egli si trovava ai vertici della missione italiana: prima di lui vi erano il Chief of Mission, Keeny, gli Uffici dell’Unrra in Europa con sede centrale a Londra (Ero) e la direzione generale di Washington <82. Il Bureau of Relief Service aveva ricevuto mandato dal Sacmed [Comando Supremo Alleato nel Mediterraneo] di occuparsi degli Unrra Camps della zona di Lecce (Santa Cesarea, Tricase, Santa Maria a Bagni e Santa Maria di Leuca), della zona di Milano e del nord Italia (Torino, Cremona e Genova) e dei campi di Bari e Cinecittà. I campi rimasti sotto la tutela dell’Acc [Commissione Alleata di Controllo] raccoglievano le Dps ritenute ineleggibili o pericolose <83.
La sede di Roma, oltre ad essere il punto di riferimento per tutti gli Uffici Unrra della penisola, era anche il tramite tra le Dps e i paesi d’appartenenza o di elezione per l’emigrazione, attraverso l’istituzione di canali preferenziali con le ambasciate e i consolati, dei quali teneva un’agenda degli indirizzi sempre aggiornata <84. Si verificavano, inoltre, alcune situazioni particolari in cui cittadini stranieri displaced in stati diversi dall’Italia erano costretti a contattare le proprie rappresentanze diplomatiche sul territorio italiano che, a loro volta, si incaricavano di far da tramite con le nazioni di appartenenza. Stando ai documenti, ad esempio, si presentò il caso dell’Albania. Nel 1946 a Tirana non era presente una rappresentanza diplomatica polacca, così gli assistiti polacchi dell’Unrra in Albania furono costretti a far passare dagli uffici consolari polacchi a Roma le proprie richieste per l’emigrazione in Palestina <85.
Nel caso delle JDps [profughi ebrei], l’Unrra di Roma era anche l’organizzazione meglio connessa con altre istituzioni ebraiche e non, a partire dall’Icgr, alla Croce Rossa Internazionale, al Joint, all’Hebrew Immigrant Aid Society e alle Comunità cittadine, fino agli uffici della Delegazione per l’Assistenza degli Emigranti Ebrei (Delasem) ancora aperti nelle città italiane. A Roma la Delasem, finita la guerra, aveva trovato posto negli uffici di Via Principe Amedeo 2, vicino alla Stazione Termini <86. Come ricorda nelle sue memorie Settimio Sorani, direttore della Delasem romana, la primissima sede degli uffici era stata in Lungotevere Raffaello Sanzio, vicino alla sede dell’Unione delle
Comunità Ebraiche Italiane (Ucei) e aveva continuato la sua attività nel dopoguerra <87. Proprio per questo doppio legame diplomatico e assistenziale, gli uffici di Roma erano stati i primi ad essere interessati da comunicazioni provenienti da alcuni paesi delle Nazioni Unite, volte ad avere informazioni sui propri connazionali displaced in Italia, o dalle richieste dei governi di prendere in carico i propri cittadini sotto il mandato dell’Unrra <88. Tale legame era anche il motivo principale per cui molte Dps si ammassavano in città, alla ricerca di un contatto con gli uffici consolari per le pratiche di emigrazione, per aspettare il rilascio dei visti o per chiedere notizie dei propri congiunti.
Le attività dell’Ufficio di Roma erano cominciate successivamente alla firma dell’Accordo dell’8 marzo 1945 tra l’Unrra e il Governo. Uno dei primi provvedimenti presi nei confronti delle Dps era stato, se eleggibili per l’assistenza internazionale, di fornirle di un certificato di garanzia rilasciato dall’Unrra. Da un Memorandum dell’Italian Mission del gennaio 1945, nei territori liberati, si contavano già 1.406 certificati rilasciati in varie città dai Local Assistance Office. Le città con il numero più alto di certificati rilasciati furono Bari (213), Bologna (313) e Roma (395) <89 e non stupisce che fosse proprio l’Ufficio di Roma ad accorgersi delle irregolarità che si erano verificate nei rilasci dei “Grant Certificates”. Giunsero, infatti, alla responsabile dell’ufficio Displaced Persons Division, Helen Montgomery, “rumors” sullo spostamento di richiedenti assistenza da un ufficio, che precedentemente aveva negato
il certificato, ad altri che invece successivamente lo avevano concesso. Il problema riscontrato non era certamente inusuale: l’eleggibilità di una Dp veniva determinata, in mancanza di documentazione certa, sulla base dei racconti delle stesse Dps e sui pochi dati anagrafici a disposizione delle autorità. Il racconto della Dp, qualora non fosse valso al rilascio di un certificato una prima volta, cambiava per poter aderire ad alcuni criteri <90. La soluzione proposta consisteva nell’applicare sul certificato il numero di pratica del richiedente, il luogo, la data e di fornire tutti gli uffici di un elenco aggiornato giornalmente dei nomi di coloro cui non era stato concesso. L’ufficio era perfettamente consapevole che ciò non avrebbe evitato che si riproponessero episodi simili, in una situazione in cui le Dp non erano per la maggior parte fornite di documenti d’identità, ma si augurava che il provvedimento avrebbe reso più difficile il passaggio da un ufficio all’altro <91.
Nel marzo 1945, seguendo un trend in ascesa, in base al numero totale dei “cases”, ossia delle pratiche di assistenza aperte in diversi Local Office, si registravano a Roma 1.095 Dps in provincia e 977 Dps in città: nello specifico si contavano 118 Dps a Cinecittà <92. Nelle immediate vicinanze di Roma si contava uno sparuto numero di Dps che non superava la decina. Dopo quattro mesi, l’Ufficio di Via Toscana segnalava a Sorieri che il numero degli assistiti era salito a 3.000 Dps, quasi il doppio rispetto alla primavera <93. Nel settembre 1945 la situazione di sovraffollamento degli Uffici di Via Toscana divenne insostenibile, tanto che Sorieri chiese invano che all’Ufficio di Roma venisse data una nuova sistemazione che potesse ospitare il doppio del personale (salito da 10 a 20 persone) e più del doppio di assistiti che giornalmente giungevano presso l’Ufficio (divenuti più di 4.000). Chiese, inoltre, che fosse data agli uffici romani l’autorizzazione a rilasciare certificati per la distribuzione di vestiario e autorizzazioni per l’assistenza medica, oltre alle mansioni già espletate del rilascio di tessere per razioni di cibo e gestione delle richieste di sussidi in denaro. L’ufficio, in aggiunta a ciò, era stato coinvolto anche dalla Repatriation Division per censire le Dps presenti sul territorio e organizzare i convogli. Lo spazio non bastava, soprattutto in previsione della stagione invernale e delle nuove direttive del Consiglio di Londra che autorizzavano l’Unrra a farsi carico, eventualmente, anche delle richieste dell’Italia nei confronti dei propri assistiti <94. La situazione di precarietà non riguardava solamente la sede romana: anche in altri uffici si registrava spesso l’inadeguatezza degli spazi e dell’attrezzatura. A Torino, nel novembre 1945, si lamentava l’assenza di corrente elettrica e di riscaldamento di qualsiasi tipo, tanto che i dipendenti erano stati costretti a lavorare al gelo e al buio <95.
All’inizio del 1946, nei documenti degli uffici di Roma, si comincia a cogliere uno scarto importante tra la politica di rimpatrio e di assistenza. Sin dall’inizio del suo mandato l’Unrra era stata il principale attore non governativo incaricato del rimpatrio delle Dps in Europa. Grazie al suo lavoro nell’anno 1945-1946, come ricordato, le Dps in Europa erano passate da più di 8 milioni a poco meno di 1 milione, con un margine di scarto abbastanza contenuto, dovuto al saldo tra il totale delle partenze e il totale degli arrivi <96. Nei campi Unrra il rimpatrio era stato fortemente incoraggiato e l’organizzazione aveva concesso ai rappresentati dei governi nazionali il libero accesso alle strutture Unrra per “propagandare” i benefici di un prossimo rientro in patria. La stessa organizzazione, per incentivare il rimpatrio, aveva proposto premi in razioni di cibo e sussidi a chi avesse deciso di tornare nel proprio paese di origine. Per i polacchi, in particolare, la macchina pubblicitaria messa in moto dal Governo Provvisorio polacco per riappropriarsi di un’ingente percentuale di “materiale umano” era stata martellante <97. In questo senso l’assistenza non era stata affatto disgiunta dal rimpatrio, anzi, ne costituiva il necessario complemento per un rientro veloce, con l’offerta di soldi e cibo per il viaggio: nel 1950, la Civil Affairs Division dello United States European Command aveva stimato che sul totale delle Dps assistite nel dopoguerra l’83% degli 8 milioni di Dps europee era stato rimpatriato dagli Alleati, mentre solo l’11% era stato in grado di procedere al resettlement o all’emigrazione con mezzi propri <98.
Nel gennaio 1946, però, in una nota dell’Italian Mission a firma del Chief of Repatriation Office, indirizzata alle direzioni del Bureau of Relief e della Dp Division, si faceva presente la netta distinzione che si doveva operare tra “repatriation” e “immigration”, e quindi fra le forme di assistenza per l’una o per l’altra soluzione. Si avvisava che la Repatriation Branch non poteva farsi più carico dell’assistenza anche di coloro che non desideravano tornare al proprio paese <99. Questa netta distinzione dei due ambiti assistenziali, scaturita dal calo delle richieste di rimpatrio, si affiancava alla conseguente necessità di implementare una gestione marcatamente territoriale delle Dps da parte del Bureau, facendo ricorso a campi ben strutturati, piuttosto che all’organizzazione di strutture temporanee per l’organizzazione dei convogli in uscita dall’Italia.
[NOTE]
81 Ail, Roma. Conferenza dell’UNRRA, Nuovo Notiziario Luce, NL00406, b/n, 1945.
82 E. Miletto, Assistere, rimpatriare, reinsediare. L’Unrra, l’Iro e I profughi del dopoguerra (1945-1951), in E. Miletto, S. Tallia (a cura di), Vite sospese. Profughi, rifugiati e richiedenti asilo dal Novecento a oggi, Franco Angeli, Milano, 2021, pp.42-43.
83 Una, Unrra (1943-1946), Im, Brs, Folder S-1479-0000-0001 – Dpo – Italy – Agreements, Item: Dp Operations (Italy), Agreement General, From 1945 to July 1946, Transfer of Administrative Responsibility for DP Camps to UNRRA, 13 June 1946.
84 Una, Unrra (1943-1946), Im, Brs, Folder S-1482-0000-0046-00001, Displaced Persons Division (da qui in avanti Dpd) – Italy, Rome, List of United Nations Consular Officers in Liberated Italy, enclosed communication of 1 August 1945.
85 Una, Unrra (1943-1946), Im, Brs, Folder: S-1479-0000-0047-00001 – Dpo – Italy – Jewish Refugees, Comunication from Repatriation and Records Branch to Palestine Office, Via Catalana, Rome, Jewish Refugees Anna Matusevic, Vera Matusevic, Ariana Dzkeziolsk, 30 April 1946.
86 Ivi, Delasem in Italy enclosed communication of 1 August 1945.
87 S. Sorani, L’assistenza ai profughi ebrei in Italia (1933-1941). Contributo alla storia della Delasem, Carucci, Roma, 1983.
88 Una, Unrra (1943-1946), Im, Brs, Folder S-1482-0000-0046-00001, Dpd – Italy, Rome, carte sciolte.
89 Ivi, UNRRA Italian Mission Memorandum, Jennuary 2, 1945.
90 Ivi, UNRRA Displaced Persons Division, Control of rejected applicants, Rome, 3 Jan. 1946.
91 Ibidem.
92 Una, Unrra (1943-1946), Im, Brs, Folder S-1482-0000-0046-00001, Dpd – Italy, Rome, Number of Assistance Cases by Source by Location, March 1945.
93 Ivi, Unrra Italian Mission Memorandum, from Maurice Rosen to A. A. Sorieri, Transport – Assistance Office, 6 July 1945.
94 Ivi, New quarters for our Rome Local DP Assistance Office, 7 September 1945.
95 Ivi, Report for November 1945, from Rudolph Loewenthal to Walter Schlein, Displaced Persons Assistance Office, Turin, Via Vincenzo Vela1, December 13, 1945.
96 S. Salvatici, Senza casa e senza paese, op.cit., pp.159-163.
97 L’invito al rientro delle Dps in Polonia era rivolto soprattutto ai non ebrei. Cfr. Ivi, p.170 e segg.; P. Gatrell, The Unsletting Europe…op.cit.
98 Ivi, p.167.
99 Una, Unrra (1943-1946), Im, Brs, Folder S-1482-0000-0045-00001, Dpd – Italy, Rome, UNRRA Italian Mission, from R. L. Brookbank to Bureau and Division Heads, Functions of Repatriation Branch, 11 January 1946.
Caterina Mongardini, Gli ebrei stranieri a Roma nell’immediato dopoguerra (1944-1950): tra il displacement e l’assistenzialismo postbellico, Tesi di dottorato, Università degli Studi della Tuscia – Viterbo, Anno accademico 2022-2023

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Nel 1956 il numero di emigrati italiani verso paesi esteri superò le 200.000 unità

Con il passare del tempo però, si ripresentarono negli ambienti di governo preoccupazioni e perplessità riguardo il futuro del paese. Si cominciarono a ripresentare motivi di forte instabilità; nel giugno del 1953 fallì la legge elettorale maggioritaria, intesa a premiare i partiti della coalizione governativa, e contemporaneamente la figura di De Gasperi venne a mancare, colui che aveva fermamente guidato il paese sulla via della democrazia. Ci si domandò fino a quando avrebbero continuato ad agire alcuni fattori che resero possibile la ricostruzione economica e la restaurazione delle finanze pubbliche; se non si fosse ormai esaurita la spinta nei confronti dell’economia italiana dal recupero nell’epoca post conflitto degli impianti non totalmente utilizzati, dalla ripresa dell’agricoltura e dall’aiuto straordinario apportato dai prestiti americani. A contribuire fortemente a destare perplessità e preoccupazioni era il disavanzo della bilancia commerciale, che registrava saldi positivi solo nei confronti della Germania occidentale e la Svizzera.
Frutto di queste perplessità fu lo “Schema Vanoni”, una politica di piano condivisa alla fine del 1954. Lo Schema varato mirava al raggiungimento di alcuni fondamentali obiettivi nel corso di un decennio e sulla base di una crescita media annua del prodotto interno lordo del 5 per cento. <33 Gli obiettivi fondamentali si possono riassumere nella creazione di quattro milioni di nuovi posti di lavoro nei settori extragricoli, la riduzione del divario fra Nord e Sud del paese e il raggiungimento dell’equilibrio nella bilancia dei pagamenti. Per raggiungere tali obiettivi si rendeva necessario un ingente volume di capitali per favorire l’aumento degli investimenti industriali tramite la formazione di importanti risparmi. Il tutto era particolarmente improbabile, per questo si fece leva sull’espansione dell’edilizia e dei lavori pubblici come principale elemento propulsivo al fine di aumentare l’occupazione, nonché su un massiccio intervento dello Stato al fine di diversificare l’allocazione territoriale delle risorse e di imprimere un impulso agli investimenti. Nel contempo, si sottovalutarono l’incidenza che avrebbero avuto gli aumenti della produttività del lavoro, gli effetti del progresso tecnologico e organizzativo e le economie di scala che si sarebbero generate dallo sviluppo della domanda. <34 Lo Schema Vanoni promuoveva perciò un processo di graduale evoluzione.
In quegli anni l’economia italiana giovò del cambiamento politico-economico, a ragione di chi riteneva che il Paese sarebbe cresciuto vertiginosamente con l’intensificazione degli sforzi a favore di un maggiore accesso a una più vasta area di scambi. La transizione dall’economia autarchica ereditata dal periodo fascista, ad un tipo di economia liberista improntata agli scambi commerciali con gli altri paesi, si stava gradualmente compiendo.
I benefici della liberalizzazione degli scambi
Analizzando la decisione italiana di procedere verso un tipo di economia aperta da un punto di vista puramente teorico, i benefici ricercati, come dimostrato nel corso degli anni, erano sostanzialmente quattro: libero scambio ed efficienza, economie di scala nella produzione, incentivi all’innovazione e all’apprendimento, e intensificazione della concorrenza. Come visto, i dati di crescita dell’economia italiana furono più che positivi, questo perché analizzando il primo beneficio, lo spostamento da un equilibrio con dazi, ad uno con liberi scambi, elimina la perdita di efficienza e accresce il benessere nazionale. Vedendo nello specifico il secondo punto, l’Italia beneficiando di economie di scala, oltre ad aver aumentato la quantità di scambi internazionali, poté giovare di una maggiore disponibilità di varietà a prezzi inferiori. Aumentando gli scambi esteri, l’industria italiana, ebbe la possibilità di misurarsi con le migliori economie occidentali, e ciò ovviamente portò indubbi incentivi all’innovazione e all’apprendimento. Inoltre, gli imprenditori locali sono stimolati a ricercare nuovi mercati per le proprie esportazioni e a difendersi dalla concorrenza delle esportazioni. Questi vantaggi del libero scambio sono spesso chiamati “dinamici”, dato che un’intensificazione della concorrenza e del ritmo di innovazione può richiedere più tempo per manifestare i propri effetti, rispetto all’eliminazione delle distorsioni nella produzione e nel consumo. <35
Vedendo nello specifico il caso italiano, l’età degasperiana, nel 1953, finì insieme al modificarsi dello schema di politica economica temperata che l’aveva contraddistinta. Subentrò a De Gasperi come presidente del Consiglio, in seguito alla sconfitta elettorale della Democrazia cristiana nelle elezioni politiche del 7 giugno 1953, Giuseppe Pella. Pella, molto vicino a Luigi Einaudi, era un forte sostenitore del principio di libertà economica e, perciò, contrario all’interventismo statale, senza però disprezzare qualche lavoro pubblico dovuto ai sovrappiù prodotti dalle aziende. Da un certo punto di vista si potrebbe definire Pella un “monetarista”, in quanto assertore della teoria secondo cui con il controllo dell’offerta di moneta si sarebbe potuto controllare l’aumento del livello generale dei prezzi; i medesimi orientamenti erano condivisi anche da Donato Menichella, divenuto governatore della Banca d’Italia, in seguito all’elezione di Einaudi come presidente della Repubblica nel 1948.
Questo il quadro politico italiano. Italia che tra il 1955 e il 1963 conobbe una fase espansiva senza precedenti, anche se si ritiene che lo sviluppo industriale cominciò già dal 1953. Gli investimenti nell’industria manifatturiera fermi in media al 4,5 per cento del reddito nazionale lordo, salirono nel 1956 al 5,2 per cento, per poi culminare al 6,3 per cento tra il 1962 e il 1963. Il valore aggiunto passò invece nel decennio successivo al 1953, dal 20,6 per cento al 27,6 per cento. <36 Il prodotto dell’industria complessivamente si avvicinò a un indice pari al 47 per cento nella formazione del prodotto lordo privato, mentre il reddito nazionale crebbe con un saggio di aumento annuo del 5,8 per cento.
La bilancia dei pagamenti precedentemente in notevole disavanzo, registrò notevoli miglioramenti; da un disavanzo di 343 milioni di dollari nel 1952 si passò a un avanzo di 745 milioni nel 1959.
Attraverso questi miglioramenti ed altri fattori chiave nel processo di sviluppo industriale, l’Italia si inserì nel movimento ascendente dell’economia europea. Sul finire dell’anno 1962 il saggio di sviluppo italiano era inferiore solo a quello tedesco ed ampiamente superiore ai tassi di crescita di ogni altro paese dell’Europa occidentale. Già negli anni precedenti l’Italia aveva dato segnali di superbi miglioramenti, tant’è che nel decennio fra il 1950 e il 1961 il prodotto lordo nazionale registrò un aumento medio del 6,7 per cento. L’Italia grazie a questa miracolosa fase espansiva riuscì a ridurre sensibilmente il divario rispetto alle maggiori economie occidentali; ridusse il distacco di partenza che perdurava da fine Ottocento con l’Inghilterra, la Germania e la Francia, e superò economie migliori come quelle belga, olandese e svedese. Nel 1962, siderurgia, meccanica, chimica ed elettricità, i quattro settori principali del paese, rappresentavano in Italia il 16,1 per cento dell’offerta finale complessiva rispetto al 23,3 per cento in Germania e al 19,3 per cento in Francia.
Furono molti i fattori ad incidere in questa straordinaria espansione, avvenuta in una situazione di profitti crescenti, senza sensibili movimenti inflazionistici, e con un costante aumento del saldo dei conti con l’estero. Probabilmente il fattore dominante, al quale attribuire l’avvio del processo di rapido sviluppo degli anni Cinquanta, nonostante opinioni contrastanti, fu l’espansione veloce delle esportazioni, agevolata dalla progressiva liberalizzazione degli scambi. L’effetto trainante delle esportazioni, secondo alcuni invece, si vide in misura massiccia solo dopo il 1955. Tali esperti, come Silva, Targetti e Rey, osservarono che tale effetto appunto, agì solo su un numero limitato di settori produttivi (l’industria automobilistica, i prodotti petroliferi, alcuni prodotti tessili, le calzature, la gomma). Secondo questa teoria, a trascinare l’Italia sarebbe stata la spesa pubblica, soprattutto in agricoltura, nell’edilizia e nei trasporti. Negli anni più recenti, invece, esperti come Kregel e Grilli hanno osservato come l’andamento favorevole della bilancia dei pagamenti italiana, che rese possibile un veloce aumento degli investimenti senza creare un disavanzo nei conti con l’estero, fosse connesso all’andamento più che positivo delle ragioni di scambio internazionali, che dava all’economia italiana la possibilità di acquisire materie prime e semilavorati a costi reali decrescenti. Secondo Castronovo invece, il fattore trainante fu la presenza simultanea di condizioni favorevoli quali salari bassi, ampie possibilità di autofinanziamento, bassa conflittualità operaia e un forte arretramento tecnologico, che consentì rapidi aumenti di produttività. Rimanendo su questa teoria, è facile notare come l’industria italiana fece leva su una rilevante ed elastica offerta di braccia per contenere, o calmierare di volta in volta, la domanda salariale e per tenere comunque sotto controllo le vertenze sindacali. <37 Non mancarono, ovviamente, in quegli anni alcuni miglioramenti nell’assetto delle retribuzioni; ma in termini reali gli indici dei salari rimasero pressoché stazionari fra il 1950 e il 1954 e fra il 1956 e il 1961, e a livelli in ogni caso inferiori agli aumenti di produttività. <38 Secondo i calcoli della Banca d’Italia, a un incremento dei salari pari fra il 1953 e il 1961 al 46,9 per cento corrispose una crescita media della produttività dell’84 per cento. Stando alle stime dell’economista americano Stern, l’incremento delle esportazioni italiane fra il 1955 e il 1963 fu dovuto, per quasi il 60 per cento, alla maggiore competitività resa possibile soprattutto dallo scarto fra aumento della produttività e aumento dei costi di lavoro. <39
Nonostante idee e teorie differenti il tema delle esportazioni rimane centrale. La struttura della produzione italiana si ritrovò forzata a seguire l’orientamento che le imprimeva la domanda proveniente dai paesi europei in fase di avanzata industrializzazione. La domanda proveniente dai paesi con un’elevata industrializzazione era un tipo di domanda caratterizzata da beni di consumo di massa e da beni di lusso. Questo tipo di domanda, propria di società caratterizzate da livelli di reddito elevati, forzò l’Italia a fare largo spazio alla produzione di beni di consumo di massa e beni di lusso.
Contemporaneamente mentre l’industria italiana entrò a far parte di quel sistema di economie caratterizzate dalla produzione di massa di beni di consumo durevoli, le altre economie europee e i loro sistemi industriali passarono a produzioni ancora più avanzate. La modernizzazione servì sostanzialmente a mantenere inalterato il distacco dalle altre economie avanzate; nel frattempo nel quadro dell’industria mondiale, le produzioni italiane continuarono a ruotare attorno ai settori con una tecnologia relativamente semplice.
L’apertura degli scambi con l’estero connessa alla necessità di sviluppare una corrente di esportazioni orientata verso i mercati dei paesi industrializzati, diede luogo alla formazione di una struttura produttiva suddivisa in due settori ben distinti; si trattava di due settori caratterizzati ognuno da tecnologie proprie, il primo settore era rappresentato dalle industrie esportatrice, mentre il secondo da attività produttive orientate prevalentemente verso il mercato interno.
Il reddito nazionale subì una vertiginosa crescita, come detto; l’espansione degli investimenti ne fu la componente più dinamica, crescendo a tassi elevati in tutti i settori. <40 Fra il 1951 e il 1962 il tasso di aumento degli investimenti globali a prezzi correnti sfiorò il 10 per cento annuo. La distribuzione dei redditi cambiò a favore dei redditi d’impresa rispetto a quelli da lavoro, con la conseguenza che l’incremento degli investimenti non diede luogo a un uguale aumento della domanda globale. Perciò la propensione media ai consumi da parte della società si ridusse, essendo i percettori di redditi da lavoro i più inclini al consumo, a differenza dei percettori di redditi d’impresa. La diretta conseguenza di tale situazione fu la contrazione dei consumi collettivi, avendo meno frazioni di reddito coloro che erano portati a consumare di più rispetto a coloro che erano portati a consumare meno. In sostanza la pressione della domanda globale diventò minore di quella che l’aumento degli investimenti avrebbe potuto sostenere. Il risultato fu che si evitò il pericolo d’inflazione per eccesso di domanda e che il sistema mantenne un’ottima stabilità monetaria. La lira, oltre a non svalutarsi rispetto alle merci più di quanto non si svalutassero le altre monete, si deprezzò meno, tanto che nel 1958 le fu attribuito l’”Oscar” delle valute, risultando la moneta più stabile fra i paesi occidentali. Invero, i prezzi al consumo crescevano mediamente del 3-4 per cento, fenomeno comune anche ad altri paesi, ma i prezzi all’ingrosso tendevano a rimanere su valori stazionari, salvo oscillazioni ampiamente compensate. Tale stazionarietà dei prezzi contribuì positivamente, favorendo le esportazioni italiane. Contemporaneamente la competitività fece crescere la produzione nei comparti dinamici, mentre in quelli non dinamici, in quanto non orientati all’esportazione ma al mercato interno, la produttività subì un andamento inversamente proporzionale rispetto ai salari.
La necessità di aumentare la produzione e l’efficienza nei comparti esportatori portò al formarsi di numerosi nuovi posti di lavoro e al polarizzarsi della crescita industriale soprattutto in tre regioni: Lombardia, Piemonte e Liguria. Questa concentrazione diede vita a un notevole flusso migratorio dalle regioni del Mezzogiorno e del centro-nord meno sviluppate (il Friuli ad esempio), verso quel polo conosciuto come “triangolo industriale”. La forza lavoro non assorbita a livello nazionale, si spostò verso l’estero; il fenomeno della migrazione esterna non riguardò più le Americhe come ad inizio secolo, bensì gli altri paesi europei. Nel 1956 il numero di emigrati verso paesi esteri superò le 200.000 unità.
Complessivamente quasi due milioni di persone abbandonarono il sud-Italia, pari al 12 per cento, per spostarsi verso il nord del paese o verso altri stati. Non tutti gli emigrati meridionali trovarono impiego presso le industrie, infatti una parte considerevole di essi fu assorbita dal settore terziario come i servizi, la distribuzione commerciale o il pubblico impiego.
Il progresso che l’economia italiana compì tra fine anni Cinquanta e inizio anni Sessanta, fu di tale portata che la crescita del prodotto interno lordo, la produttività totale dei fattori e il prodotto per addetto risultarono i più alti e stabili nella storia del Paese. Nel 1963 gli investimenti fissi lordi raggiunsero in media il 25 per cento del reddito nazionale lordo, mentre il tasso di crescita del Pil superò il 7 per cento. L’Italia fu così paragonata per impatto alla Germania in Europa al Giappone nel mondo. Di pari passo il commercio internazionale subì una brusca impennata, registrando le esportazioni, tra il 1958 e il 1962, un tasso annuo di crescita prossimo al 16 per cento.
Non meno importante fu il cambiamento nella struttura economica nazionale; l’agricoltura cessò di essere il settore dominante e nonostante nel 1950 impiegasse ancora il 40 per cento della forza lavoro e fornisse il 25 per cento dell’intero valore aggiunto, nel 1963 fu superato dal settore industriale e da quello dei servizi.
Tutto ciò influì sulla dilatazione dei consumi e sul progressivo affermarsi di un nuovo stile di vita; un ibrido a metà tra la nuova cultura americana e la cultura italiana. Le città assunsero una nuova fisionomia, in particolare le grandi “capitali” del Nord industriale, con la nascita di interi quartieri popolari, ma anche con la costruzione dei primi grattacieli. La stagione espansiva volgeva così al termine portando con sé cambiamenti strutturali profondi.
[NOTE]
33 Si vedano V. Valli, L’economia e la politica economica italiana (1945-1975), Etas libri, Milano, 1977, pp. 109-110; B. Bottiglieri, La politica economica dell’Italia centrista (1948-1958), Ediz. Comunità, Milano, 1984, pp. 254-255.
34 Si veda al riguardo N. Andreatta, Fattori strategici dello sviluppo tecnico dell’industria italiana, in N. Andreatta et al., Il progresso tecnologico e la società italiana. Effetti economici del progresso tecnologico sull’economia italiana, Giuffrè, Milano, 1962. Invece sui vantaggi assicurati dall’ammodernamento degli impianti, si veda anche S. Leonardi, Schema di interpretazione dello sviluppo italiano in questo dopoguerra, in Critica marxista, luglio-ottobre 1968.
35 Per approfondire le ragioni a favore del libero scambio, e quelle a favore di un tipo di economia chiusa, consultare P. Krugman, M. Obstfeld, a cura di R. Helg, Pearson, 2007.
36 Si veda al riguardo A. Campolongo, Dinamica dell’investimento in Italia 1951-1967, in Moneta e credito, secondo trimestre 1968.
37 Si vedano al riguardo A. Triola, Contributo allo studio dei conflitti di lavoro in Italia, in Economia e lavoro, 1971; A. Cova, Movimento economico, occupazione, retribuzioni in Italia dal 1943 al 1955, in A. Cova et al., Il sindacato nuovo. Politica e organizzazione del movimento sindacale in Italia negli anni 1943-1945, Franco Angeli, Milano, 1981
38 Confrontare con A. Vannutelli, Occupazione e salari dal 1861 al 1961, in A. Fanfani, L’economia italiana dal 1861 al 1961, Milano, Giuffrè, 1961.
39 Si veda R. M. Stern, Composizione merceologica, distribuzione geografica e competitività nel commercio estero italiano nel periodo 1955-1963, in Moneta e credito, 1965.
40 Al riguardo non va trascurato il ruolo del credito a medio e lungo termine praticato da alcune banche specializzate, come la Banca di credito finanziario (Mediobanca), fondata nel 1946 dalle tre banche d’interesse nazionale ( Commerciale, Credito italiano, Banco di Roma), per l’esercizio appunto del credito a medio termine, poi esteso al lungo termine, da effettuarsi per il tramite dei loro sportelli; la Banca centrale di credito popolare (Centrobanca), istituita, essa pure nel 1946, dalle banche popolari per il finanziamento a medio e a lungo termine di imprese commerciali e industriali; l’Istituto centrale per il credito a medio termine a favore delle medie e piccole industrie (Mediocredito centrale), sorto nel 1952 con capitali forniti in prevalenza dallo Stato e con il compito di finanziare i Mediocrediti regionali.
Emanuele Zema, Come l’economia italiana si apre al mondo dopo la ricostruzione, Tesi di Laurea, Università Luiss “Guido Carli”, Anno Accademico 2017-2018

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L’egemonia cattolica nel Veneto determina rapporti di forza peculiari tra la DC e il PCI

Il Veneto è una regione popolata da piccole città, piccole imprese, agricoltura contadina ed è permeata dalla devozione al cattolicesimo. <35 La chiave di successo della sua economia, che decollò negli anni ’50 per poi svilupparsi negli anni ’60 e raggiungere l’apice negli anni ’70, fu il basso costo del lavoro derivante dall’impegno part time nell’industria e dal lavoro domestico, ossia la cosiddetta “economia sommersa”.
Alla base della politica del dopoguerra che predominò in Veneto, vi fu il controllo della riproduzione della forza lavoro, dal punto di vista materiale e ideologico, e soprattutto, quello delle condizioni di vita al di fuori della fabbrica. Questo fu possibile dalla frammentazione e dalla dispersione e, conseguentemente, dalla debolezza organizzativa della classe operaia; in secondo luogo, dalla presenza delle istituzioni sociali della Chiesa, una serie di organizzazioni collaterali come le cooperative, le casse di mutuo soccorso, l’Azione Cattolica, tutte facenti capo alla parrocchia, il cuore della vita religiosa.
Nel 1945 il governo italiano scelse un tipo di sviluppo guidato dalle forze del mercato, specialmente da quello internazionale, garantendo così l’incremento dei consumi interni moderni e la compressione dei salari. Questa modello portò un ritardo allo sviluppo della classe operaia nell’industria, lo spostamento di massa dalla campagna alla città e quindi un rapido sviluppo del terziario e dell’ingrossamento delle fila dei ceti medi, sia in ambito produttivo che in quello distributivo. Il cardine di questo percorso era la mobilità individuale e, quindi, lo sfruttamento proprio delle disuguaglianze nel sistema al fine di incentivare la partecipazione ai profitti che il sistema poteva elargire.
Considerando che l’Italia faceva parte del blocco occidentale e si trovava sotto la tutela statunitense che impose, nel 1947, l’esclusione dal governo del PCI (il partito che rappresentava la classe operaia), e dall’altro lato, l’apparato produttivo del paese era quello di un paese in via di sviluppo e si basava sull’eccesso di manodopera a basso costo, si capisce perché il governo del tempo abbia optato per questo tipo di modello di sviluppo.
La svolta che portò alla concretizzazione del miracolo economico del 1958-1962 fu l’attuazione di una politica basata su grandi profitti derivanti dai bassi salari che stimolavano gli investimenti necessari ad assicurare un buon livello di produttività, il quale a sua volta garantiva la crescita, la competitività dell’economia italiana a livello internazionale. Due elementi fondamentali di tale processo furono la produzione industriale di beni di largo consumo a bassa tecnologia e i salari bassi (conseguenza dell’elevato tasso di disoccupazione e della debolezza dei movimenti operai organizzati nel periodo della Guerra Fredda).
Questo scenario spiega, in un certo modo, il successo del settore della piccola impresa nel Veneto, la quale ha contribuito a mantenere costante il benessere della regione e della piccola industria, dove il lavoro a tempo parziale e il lavoro domestico avevano mantenuto relativamente basso costo della manodopera. Ricordiamo che, oltre al conflitto scatenato dagli uomini se ne aggiunse in quegli anni uno provocato dalla natura <36: nel 1951, una devastante alluvione sconvolse il Polesine, allagando oltre la metà della provincia, causando più di 100 vittime e 180mila sfollati (80 mila persone lascerà la regione per sempre). Mentre nel 1963, una frana dal monte Toc, ai confini tra le province di Pordenone e Belluno, piomba nel lago artificiale creato dalla diga del Vajont; provocando la morte di 1917 persone e distruggendo gli abitati del fondovalle. <37
Nonostante le guerre e disastri naturali, la capacità e la voglia di ripresa riescono farsi largo. L’avvio vero come detto è degli anni Sessanta, quando il reddito nazionale netto aumenta del 54 per cento, e il risparmio del 170. Nel 1961, le aziende con meno di 100 addetti assorbono il 72 per cento dell’occupazione. È un salto di qualità progressivo anche se rapido: l’operaio che lavorava giorno e notte in fabbrica, un po’ alla volta si mette in proprio diventando imprenditore di successo, scrivendo storie di tante crescite tipicamente venete. A renderlo evidente è il tasso di natalità delle imprese dell’epoca, di gran lunga superiore a quello della crescita occupazionale: segno evidente che molti ex dipendenti hanno deciso di fare il salto di qualità, avviando un’attività autonoma.
Negli anni Settanta, avviene uno storico sorpasso, gli addetti all’industria hanno superato il fatidico 50 per cento. Se negli anni Sessanta il reddito pro capite del Veneto è stato nettamente inferiore a quello della media nazionale, nel 1970 si verifica l’aggancio, merito di un’industrializzazione che marcia di pari passo con il potere d’acquisto. Inizia, come già annunciato, a decollare anche il settore terziario: una persona su tre, nella popolazione attiva, opera in questo settore. Per il resto dell’economia di questa regione, la seconda parte degli anni Settanta, è quella del grande balzo, con un trend che si dimostrerà costante fino ai primi anni Ottanta.
Pur la Chiesa subendo negli anni ’70, pressioni di una crescente e generale secolarizzazione, l’amministrazione locale con i suoi provvedimenti, in particolar modo nei settori dell’edilizia e della previdenza sociale, divenne un elemento fondamentale per il conseguimento e il mantenimento dell’egemonia di quel partito che per quasi l’intero dopoguerra governò questa regione, la DC.
Durante la dittatura, con la soppressione dei partiti e dei principali corpi intermedi, i poteri locali attuano ovunque in Italia forme di “resistenza” e di salvaguardia della propria collocazione nella struttura sociale. <38 Nel Veneto rurale operano in tale direzione fattori specifici, legati al ruolo della Chiesa che sembrano mitigare l’impatto del fascismo sulla società locale. Non si può non notare che, anche in Veneto l’effetto delle politiche di fascistizzazione della società e di formazione delle nuove generazioni concepite da Mussolini per l’intera nazione (con l’aiuto della stampa, radio, scuola e corpi intermedi creati ad hoc), hanno avuto un forte impatto. Infatti, sarebbe errato attribuire al Veneto del primo dopoguerra una cromatura “bianca”, talmente spessa da riemergere, intatta, dopo la caduta del fascismo. <39 Dalla fine dell’Ottocento, oltre all’associazionismo cattolico, compare e si diffonde anche quello di aspirazione socialista: nei primi anni del Novecento in molti centri urbani del Veneto si formano alleanze comprendenti socialisti, radicali e repubblicani che, dando vita alla stagione delle cosiddette giunte bloccarde, spezzano l’egemonia moderata in ambito amministrativo. <40 Una parte dell’associazionismo mutualistico Veneto urbano favorisce il radicamento del Partito socialista nel territorio, secondo un progetto basato sulle trasformazioni di capitale sociale sedimentato nelle associazioni mutualistiche in risorsa politica, mediante la presenza del partito e il controllo del municipio. Il Partito socialista in Veneto si rivela incapace di saldare le proprie lotte nelle campagne, a differenza delle realtà urbane. In Veneto, nel biennio 1919-20 la mobilitazione delle classi subalterne raggiunge livelli ineguagliati. <41 La contrapposizione fra organizzazioni “bianche” e “rosse” pregiudica la possibilità di successo dei contadini, ma rivela l’eterogeneità degli orientamenti politici nel Veneto d’inizio secolo. In Veneto, la devozione dei contadini ha reso possibile l’incapsulamento nella filigrana “bianca” delle plebi rurali mobilitate a seguito della crisi agraria di fine Ottocento. La storia elettorale del Veneto vede emergere il cromatismo “bianco” già agli inizi del Novecento. Ma l’incidenza della frattura città-campagna discrimina l’insediamento elettorale dei cattolici (rurale) da quello dei socialisti (urbano): il bianco, quindi, è dominante solo in campagna. Lungi dal costituire soltanto “una parentesi”, il fascismo modificherà in profondo il profilo politico lasciando sopravvivere, alla sua caduta, solo le realtà organizzative più forti, ossia solo il capitale sociale “bianco”. Per capire le caratteristiche di fondo della subcultura “bianca”, e al contempo, i motivi per i quali essa ha potuto attraversare il fascismo senza esserne sradicata: dobbiamo immaginare una sorta di sfera immutabile, dove vigevano “leggi” stabilite probabilmente attorno al Settecento, custodite dagli uomini di Chiesa che, creavano una specifica cultura paesana, dove contadini e artigiani erano gli attori principali.
L’apparente immutabilità che sembra caratterizzare il Veneto “bianco” nel passaggio dal fascismo alla democrazia è data dalla centralità della Chiesa nella cultura politica locale e dalla sua capacità di riproporsi quale schermo protettivo nei confronti di qualunque intervento esterno ritenuto pericoloso dalla società locale. Senza più il fascismo e con uno Stato molto diverso da quello scaturito dal Risorgimento nulla più osta alla trasformazione del suo capitale sociale anche in una risorsa politica. È prevalsa l’interpretazione secondo cui in Veneto l’egemonia politica cattolica fosse acquisita fin dal primo dopoguerra. Possiamo sostenere invece che tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento la Chiesa abbia consolidato l’egemonia <42 nei contesti rurali, mentre è solo durante il ventennio fascista, in virtù della libertà di iniziativa ottenuta mediante il compromesso che il regime, che essa riesce a divenire fulcro anche dell’ambiente urbano. Il passaggio attraverso il fascismo può essere identificato come una fase di mutamento del capitale sociale “bianco” sia per effetto dell’annichilimento delle forme organizzative altre e minori ad opera della dittatura, sia in seguito al riposizionamento operato dalla Chiesa nella struttura delle linee di frattura. Con la nascita della DC e la sua posizione dominante nel corso della seconda metà del Novecento la frattura Stato-Chiesa può essere gestita da posizioni molto favorevoli per il Vaticano, che può concentrare la propria forza politica nel proporsi come ancora di salvezza contro il comunismo. Lo spostamento nella struttura delle linee di frattura comporta un cambiamento nelle modalità di azione per la Chiesa: dall’intervento sociale, contro lo Stato liberale e in concorrenza con il movimento socialista fino all’avvento del regime, al controllo del perimetro ideologico in funzione anticomunista nel secondo dopoguerra.
L’egemonia cattolica nel Veneto determina rapporti di forza peculiari tra la DC e il PCI segnati dal preponderante dominio elettorale della prima sulla seconda, e accompagna la trasformazione di un’area preminentemente rurale in zona ad alta densità di sviluppo industriale di piccola impresa. In Veneto, le fratture connesse alla formazione dello Stato nazionale (centro periferia e Stato-Chiesa), unitamente al cleavage città-campagna, hanno preceduto e contenuto la frattura capitale-lavoro, mentre il conflitto di classe si è manifestato in presenza di forme di controllo sociale capaci di impedirne una riproduzione in termini partitici significativi. <43 Questo incapsulamento della struttura di cleavages prevalenti funziona anche nel dopoguerra, quando la frattura principale diventa quella che contrappone il mondo “bianco” al comunismo, il quale condivide con i “nemici” storici, il “centro” del sistema politico, lo Stato, ma anche “il centro urbano”, l’essere percepito quale minaccia esterna in grado di depauperare la filigrana della società locale. Per almeno i primi decenni del secondo dopoguerra, in Veneto, il criterio decisivo di alleanza sarà il legame tra localismo e la sua cultura prevalente, si vota allo stesso modo della comunità a cui si fa parte e dei suoi leader, senza tener conto della propria posizione economica.44 Il localismo non si traduce in posizioni eversive e pericolose, in quanto la dimensione simbolica e organizzativa della Chiesa danno linfa ad un capitale sociale che garantisce la coesione, l’articolazione, l’aggregazione e la soddisfazione delle domande individuali e collettive (responsiveness) e la presenza della DC assicura l’accesso al sistema politico e il rispetto delle sue regole. <45 Il fattore religioso incide sul piano morale e, su quello dell’integrazione, dell’identità sociale e su quello materiale dell’organizzazione, della rappresentanza e della mediazione con le istituzioni. <46 Negli anni Cinquanta su iniziativa delle ACLI venne svolta un’indagine presso i giovani della provincia di Vicenza, dove emerse la rilevanza di tali elementi, quale la premessa e fondamento degli orientamenti politici nella subcultura “bianca”. <47 Dalla ricerca risulta che nella società veneta di quel periodo, il rapporto con la politica era complesso, come i rapporti di forza elettorali. I partiti considerati come attori non troppo amati né apprezzati, cui vengono attribuiti ruoli ben precisi: la DC appare attenta alla tutela della Chiesa e della libertà, ma indifferente ai problemi di chi lavora; mentre il PCI e PSI figurano come nemici della religione, ma sostenitori dei lavoratori. La religione costituisce la filigrana “bianca” che collega gli orientamenti di fondo, è nel nome della religione che la DC viene legittimata come protagonista delle scelte. L’appartenenza alla Chiesa viene ritenuta una premessa sufficiente per attribuire il consenso ad un partito che pure non gode di molta fiducia. La Chiesa rafforza questo aspetto, grazie alla capacità di gestire e riprodurre un sistema di valori e significati incardinato alla vita quotidiana, all’interno della quale è la stessa istituzione ecclesiastica a fornire alla società una peculiare concezione del mondo. Inoltre, la Chiesa produce anche risorse organizzative e beni materiali (assistenza sociale, sostegno economico e organizzazione territoriale), garantendo così, forme di accountability sociale nei confronti dei governanti, attraverso la pressione svolta dal mondo cattolico locale sui parlamentari veneti e l’opera di mediazione svolta dalle parrocchie, compensa il deficit di responsiveness della DC. <48 Adesione o rifiuto della dimensione religiosa comporta anche appartenenza o antagonismo rispetto ai valori e alle logiche dello sviluppo locale. L’alternativa fra DC e PCI non sembra, per i veneti degli anni Cinquanta, porsi come alternativa fra Chiesa e lavoro, ma fra due modelli di sviluppo differenti.
Dimensione religiosa e sviluppo territoriale costituiscono aspetti complementari, dai quali la DC attinge risorse di consenso. L’identificazione con la DC si fonda sull’appartenenza alla comunità cattolica, che si riproduce attraverso il contesto locale e familiare egemonizzato dalla Chiesa. <49 Falliscono infatti, vari tentativi di far nascere un partito cattolico fortemente strutturato; la DC è un classico esempio di partito a “istituzionalizzazione debole” <50, nato per legittimazione esterna, che ebbe come sponsor la Chiesa, e sviluppatosi per diffusione territoriale. L’autentica “istituzione forte” quindi, è la Chiesa, con la propria rete associativa, che organizza la società locale e l’attività delle istituzioni amministrative. Si rafforza così, l’idea fortemente radicata nella cultura politica veneta sin dall’Ottocento, secondo cui chi opera a livello del governo locale non svolge un’attività locale, ma amministrativa, entro un contesto nel quale l’attività dell’ente locale si orienta in larga parte al contenimento di interventi e spese e all’appoggio esterno alla rete organizzativa cattolica, soprattutto alle sue strutture creditizie e assistenziali. <51
[NOTE]
35 MESSINA, PATRIZIA, et al. Cultura politica, istituzioni e matrici storiche. Padova University Press, 2014.
36 JORI, FRANCESCO. La storia del Veneto: dalle origini ai nostri giorni. Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 2018
37 JORI, FRANCESCO. La storia del Veneto: dalle origini ai nostri giorni. Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 2018
38 POMBENI P. (1995), La rappresentanza politica, in R. Romanelli (a cura di), Storia dello Stato italiano dall’Unità a oggi, Donzelli, Roma
39 ALMAGISTI, MARCO. Una democrazia possibile: politica e territorio nell’Italia contemporanea. Carocci, 2016
40 CAMURRI R. (a cura di) (2000), Il comune democratico. Riccardo Dalle Mole e l’esperienza delle giunte bloccarde nel Veneto giolittiano, Marsilio, Venezia
41 PIVA FA. (1977), Lotte contadine e origini del Fascismo. Padova-Venezia, 1919-22, Marsilio, Venezia.
42 RICCAMBONI G. (1992), L’identità esclusa. Comunisti in una subcultura bianca, Liviana, Padova.
43 DIAMANTI I., RICAMBONI G. (1992), La parabola del voto bianco. Elezioni e società in Veneto, 1946-1992, Neri Pozza, Vicenza
44 ROKKAN S. (1970), Citizens, Elections, Parties: Approaches to the Comparative Study of the Process of Development, Universitetsforlaget, Oslo (trad. it. Cittadini, elezioni e partiti, il Mulino, Bologna 1982)
45 ALMAGISTI, MARCO. Una democrazia possibile: politica e territorio nell’Italia contemporanea. Carocci, 2016
46 DIAMANTI I., PACE E. (1987), Tra religione e organizzazione. Il caso delle ACLI: mondo cattolico, società e associazionismo nel Veneto, Liviana, Padova
47 DIAMANTI I. (1986), La filigrana bianca della continuità: senso comune, consenso politico, appartenenza religiosa nel Veneto degli anni ’50, in “Venetica, Rivista di Storia contemporanea”
48 ALMAGISTI, MARCO. Una democrazia possibile: politica e territorio nell’Italia contemporanea. Carocci, 2016
49 TRIGILIA C. (1986), Grandi partiti e piccole imprese. Comunisti e democristiani nelle regioni a economia diffusa, il Mulino, Bologna
50 PANEBIANCO A. (1982), Modelli di partito: organizzazione e potere nei partiti politici, il Mulino, Bologna
51 TRIGILIA C. (1982) La trasformazione delle culture subculture politiche territoriali, in “Inchiesta”
Simone Spirch, Il Veneto lungo: dalla Serenissima ai giorni nostri, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2021-2022

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Milano University Pressmilanoup@mastodon.uno
2025-03-04

La nuova pubblicazione della collana "#Scritti di storia" rilegge un evento fondamentale della #storia italiana del secolo scorso - la caduta della #PrimaRepubblica - con una lente nuova, quella della #QuestioneSettentrionale: in particolare, il volume indaga la disgregazione del sistema #politico del #dopoguerra e l’ascesa della #LegaNord, fenomeni ricondotti al diffondersi dell'insoddisfazione, nel #Nord #Italia, verso i #partiti tradizionali e lo #Stato centrale

doi.org/10.54103/scrittidistor

Titolo volume: La questione settentrionale nella crisi della “prima Repubblica”. Politica, cultura, società, della collana "Scritti di Storia"
2024-12-22

Palermo 1948, la forza di ricominciare

#silentsunday

Il dopoguerra rappresenta uno dei periodi più complessi e significativi della nostra storia, le città erano ridotte in macerie, le economie distrutte e intere famiglie spezzate dalla perdita di parenti e amici.

Il paesaggio era un mosaico di rovine e il morale collettivo era segnato da anni di privazioni, paura e lutti.

Eppure, proprio in questo scenario di devastazione, emerse una straordinaria forza d'animo, le persone si rimboccarono le maniche, trovando nel dolore una ragione per andare avanti, per ricostruire non solo case e città, ma anche il senso della comunità e della speranza.

La ripresa economica e sociale fu un processo lungo e faticoso, e, al di là degli sforzi collettivi dei governi, fu la forza interiore dei singoli individui a fare la differenza, ogni persona doveva affrontare il proprio dolore e trovare la motivazione per andare avanti.

Per molti, la speranza di un futuro migliore, il desiderio di garantire ai propri figli una vita diversa, o semplicemente la necessità di sopravvivere furono stimoli potenti. La solidarietà tra vicini, l’aiuto reciproco e il senso di appartenenza a una comunità diventarono pilastri su cui costruire una nuova vita.

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crono :verified:cronomaestro@koyu.space
2022-02-13

"Uniti come nel #dopoguerra."
Tipo, che so, nel'47 a Portella della Ginestra?

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