Il tema del cosiddetto “post-opensource” non gode di grandi attenzioni mediatiche – soprattutto nel momento in cui è più comodo e rapido distorcere il significato del termine “opensource” stesso, senza ulteriori prefissi – ma tra i suoi estimatori se ne trova uno d’eccezione: Bruce Perens, ovvero l’autore proprio della definizione originaria di “open source” e co-fondatore di Open Source Initiative. E il supporto di Perens non si limita a qualche occasionale tweet di commento, ma si manifesta con la pubblicazione di una pagina web che propone una formalizzazione del concetto.
In modo invero un po’ scomposto. La cui essenza è: costringiamo a pagare solo coloro che d’altro canto avrebbero le risorse per reimplementare ogni cosa per conto proprio, aggirando senza problemi i nuovi vincoli, e per farlo istituiamo un sistema burocratico universale che gestisca in modo centralizzato tutti gli aspetti economici, legali e operativi. Persino io, che non nego la mia inclinazione marxista, sono alquanto scettico del fatto che siffatto piano possa funzionare.
Alcuni degli spunti offerti dal – per così dire – “Manifesto Post Open” sarebbero applicabili da oggi al modello open source così come è.
La distribuzione dell’1% dei profitti ai progetti open source che hanno avuto un ruolo nel generare i profitti medesimi è, ovviamente, un proposito che non posso non apprezzare, applicando io stesso questa pratica da anni. Sono lieto che Perens sia giunto alla stessa conclusione cui sono giunto io nel 2017, ma tocca far presente che per raggiungere tale obiettivo non sarebbe necessaria una nuova licenza bensì “solo” un po’ di buona volontà da parte di coloro (tutti coloro) che traggono beneficio dal lavoro altrui.
Avere una organizzazione che aggreghi l’erogazione di servizi cloud, fungendo da marketplace e fornendo un unico punto di riferimento (e dunque un unico account, un unico pannello di amministrazione, una unica fatturazione, un unico help desk…), sarebbe assai auspicabile e permetterebbe di costruire una alternativa reale e appetibile ai vari AWS, Google Cloud, Azure e similari, presso cui i soggetti che sviluppano applicazioni middleware e SaaS open source (e che spesso già erogano sottoforma di servizi cloud, ciascuno per conto proprio) potrebbero serenamente vendere i propri servigi e trarre profitti diretti, mettendo a fattor comune marketing e costi operativi. Per fare questo non sarebbe necessaria una nuova licenza (men che meno in mancanza di una effettiva organizzazione aggregatrice, menzionata nel documento ma non ancora esistente), ma “solo” un po’ di buona volontà, di dialogo, e di sana capacità imprenditoriale.
Il grattacapo della sicurezza della filiera open source, minacciata dalle scarse risorse a disposizione degli sviluppatori, periodicamente torna tristemente in auge (l’ultimo caso eclantante è stato quello di XZ) pur restando irrisolto. Laddove gli strumenti per distribuire i fondi in modo proporzionale, magari anche facendoli fluire dai progetti di maggior successo ai progetti meno visibili e dunque più vulnerabili, in parte esisterebbero. Fermo restando il requisito primo: smettere di frignare sempre, solo ed esclusivamente nei confronti dei “Big Tech” ed iniziare ad immettere, in prima persona, denaro contante nel sistema. Per fare questo non sarebbe necessaria una nuova licenza, ma “solo” un po’ di buona volontà.
Un concetto del tutto inedito è invece quello di trattare l’intero patrimonio “post-open” come un unico oggetto contrattuale, cui si perde diritto di accesso nel momento in cui viene riscontrata una violazione su uno solo dei progetti coinvolti. Spunto interessante, che può essere letto come un approccio alla sindacalizzazione del movimento nel suo complesso, ma che – come scritto sopra, e come del resto riconosciuto da Perens stesso – prevede uno strato di burocratizzazione decisamente invasivo e scarsamente gestibile.
Inoltre, non è ben chiaro in che modo l’applicazione di una licenza software dovrebbe impattare sulle “esigenze degli utenti non tecnici”, che qui vengono identificate come una mancanza da parte del classico modello open source. Forse non è concesso distribuire una applicazione in licenza PostOpen se non ha una interfaccia grafica bella e semplice? Oppure non posso adottare tale licenza per un database (tipologia di software sconosciuta agli utenti domestici) ma solo per applicazioni end-user? Se non scrivo della documentazione esaustiva, vengo portato in tribunale?
Insomma: Perens, nel suo documento, enumera idee buone ed idee pessime in ordine sparso, le condisce con una buona dose di populismo, e le spaccia per rivoluzione ideologica.
Fintantoché l’unica suggestione di soluzione all’intera questione della sostenibilità del modello open resta l’obbligo di far cacciare, forconi alla mano, i quattrini ad un manipolo di operatori (ovvero: una soluzione inapplicabile), dubito che se ne trarrà mai qualcosa. In questo filone di pensiero vedo una ben scarsa auto-critica alle responsabilità individuali, un facile capro espiatorio, e – come spesso capita – una foglia di fico atta a nascondere la volontà di intervenire da parte dei singoli.
E questo è il medesimo messaggio che ho voluto trasmettere, a chiare lettere, nella homepage dell’iniziativa apt-give, in cui mi sono imbarcato qualche giorno fa. Il progetto, ispirato dai più volte su queste pagine citati npm fund e composer fund (si, avrei potuto chiamarlo “apt fund”, ma mi piaceva il contrasto col canonico “apt-get”, e poi il dominio “apt.fund” era già registrato…), non è altro che un indice delle pagine di donazione di ciascun pacchetto presente sui repository Debian – e pertanto anche Ubuntu, Mint e similari – ed un banale script Bash che mostra le suddette pagine per i pacchetti attualmente installati sul proprio sistema. Insomma: un modo veloce per sapere a chi dare i soldi per fare in modo che il proprio PC (e i propri server…) continuino a ricevere aggiornamenti e miglioramenti. L’ho annunciato sui social (su Twitter e su Mastodon) l’altro giorno e, stando ai log del web server, ho ricevuto più cuoricini e stelline che download.
Ma non mi lascio scoraggiare: lentamente proseguo con la mia opera di indicizzazione delle pagine di donazione (opera svolta in larga parte a mano, ispezionando i siti web uno a uno in cerca di un link a PayPal o a OpenCollective…), continuo ad assillare i miei lettori con la storia dell’1%, e ogni volta che mi è possibile continuo a ripetere l’importanza di distribuire qualche soldo.
Perché non è con le lamentazioni che si potrà aggiustare un movimento fondato sulla partecipazione.
https://madbob.wordpress.com/2024/05/27/la-prossima-definizione/
#aptGive #BrucePerens #postOpensource