#Spiegazione

2025-10-10

Recensione “Springsteen – Liberami dal Nulla”: Qualcosa di Autentico

Trovo che sia sempre difficile parlare di qualcosa di così personale, così intimo, così tuo, quando poi diventa di tutti. C’è un po’ di gelosia forse, può darsi, oppure qualche traccia di arroganza, come se non tutti meritino di entrare in contatto con qualcosa di così speciale, qualcosa del tipo: “io ci ho vissuto dentro quelle canzoni, chi siete voi per scoprirle in un film e poi tornare alle vostre vite?”. Parlo ovviamente del sesto album di Bruce Springsteen, Nebraska, la cui genesi viene raccontata da Scott Cooper (che già ci aveva deliziato con un altro film musicale, il bellissimo Crazy Heart) in un film cupo, non sempre facile da digerire, ma prezioso, autentico, vero. E ora che questo film sta per arrivare negli occhi e nelle orecchie di tutti, non so bene come sentirmi, perché chi si aspetta di vedere su grande schermo il mito di Bruce Springsteen, troverà invece un’opera che gli toglie la maschera, soffoca la leggenda per alimentare però la sua umanità, il suo cuore, il suo bisogno di essere ancora una persona normale in un mondo di luci accecanti (non a caso una delle battute che restano più impresse è quando Bruce confessa al suo manager Jon Landau: “Cerco qualcosa di autentico in mezzo a tutto questo rumore”). E in mezzo al rumore, spicca l’interpretazione di Jeremy Allen White: il modo in cui l’attore di The Bear riesce a modellare il suo timbro vocale è impressionante, a tal punto che lo stesso Springsteen si è domandato se quella nel film fosse la sua voce o quella dell’attore.

Siamo nell’autunno del 1981 (stesso periodo in cui è nato chi vi scrive, sarà anche per questo che sento questa storia così vicina?). Bruce Springsteen ha appena concluso il tour di The River e per la prima volta ha raggiunto il numero uno delle classifiche. Tutti aspettano il suo album successivo per la consacrazione definitiva, Springsteen però non è ancora pronto a lasciar andare il passato e si chiude in una casa di campagna nel New Jersey, a Colts Neck, insieme a un registratore portatile, la chitarra acustica, l’armonica. Qui comincia a buttare giù idee, canzoni, un demo che non dovrebbe portare da nessuna parte, che racconta storie di criminali e sogni sfioriti, lasciando emergere sensi di colpa, disillusione, disperazione. Mentre il mondo aspetta un nuovo album pieno di hit da cantare e da ballare, Bruce Springsteen sta affrontando i suoi demoni con la musica, attraverso la quale tenta di trascinare i fardelli che il Boss porta con sé dall’infanzia. Sarà dunque questa follia acustica il suo nuovo album? Spoiler: certo che sì.

Il rapporto tra Springsteen e il cinema è noto, ne abbiamo parlato spesso anche su queste pagine: il Boss ha ispirato film (da Lupo Solitario di Sean Penn, che prende spunto proprio da una canzone dell’album Nebraska, a Thunder Road o Blinded by the Light) e documentari, oltre ad aver vinto un Premio Oscar per Philadelphia. Al tempo stesso è il cinema ad aver dato forma all’immaginario del Boss: in Liberami dal Nulla è evidente infatti come La Rabbia Giovane di Malick o il capolavoro La Morte Corre sul Fiume di Laughton abbiamo lasciato un’impronta decisiva nell’evoluzione dell’uomo e dell’artista. In questo bellissimo film di Scott Cooper scoprirete finalmente il lato oscuro del mito, l’animo intimo di un artista che non è mai sceso a compromessi con il suo successo, che ha cercato di restare se stesso sempre, mentre il mondo intorno a lui continuava a girare vorticosamente. Anche perché, come ci suggerisce il film, il passato non esiste più e il futuro non si può rincorrere: possiamo vivere soltanto dentro noi stessi, ora.

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Poster italiano di "Springsteen Liberami dal Nulla" di Scott Cooper con Jeremy Allen White
2025-09-17

Recensione “Una Battaglia Dopo L’Altra”: Viva la Revolucion!

Tom Petty nella sua splendida hit American Girl cantava: Well, she was an American girl, raised on promises, she couldn’t help thinkin’ that there, was a little more to life, somewhere else (“Beh, era una ragazza americana, cresciuta a promesse, non poteva fare a meno di pensare che c’era qualcosa di più nella vita, da qualche parte”). Non è un caso se questo brano, che i più cinefili ricorderanno anche in una scena de Il Silenzio degli Innocenti, sia stato scelto da Paul Thomas Anderson a chiusura della sua ennesima prodezza. Al centro della storia, infatti, c’è un’altra ragazza americana, cresciuta a menzogne, che non poteva fare a meno di credere che nella sua vita ci fosse qualcosa di più rispetto alle paranoie (più che fondate) del babbo Leonardo Dicaprio. Tra rivoluzioni agognate e rivoluzioni fallite, sensei messicani (Benicio Del Toro da nomination immediata), suprematisti bianchi e un fiume di parole in codice, c’è davvero tanta carne al fuoco nei 170 minuti di Una Battaglia Dopo l’Altra.

L’ex rivoluzionario Leonardo Dicaprio vive con la figlia adolescente avuta dalla ex-compagna, un’attivista afroamericana con cui ha condiviso anni di lotte e rivoluzioni, ora scomparsa. Dopo anni di silenzio, il razzista Sean Penn torna nella sua vita per dargli la caccia, ma soprattutto per portargli via la figlia, a suo parere la prova imbarazzante di un’unione interrazziale, ma non solo. Il nostro sarà allora costretto a fare i conti con il suo passato.

Quasi un decennio dopo il fortunato Vizio di Forma, il regista di Los Angeles torna a pescare idee dalla narrativa di Thomas Pynchon, il cui romanzo Vineland ha fornito il materiale di base sul quale modellare poi la storia, molto diversa, di Una Battaglia Dopo l’Altra. Ci sono momenti (ma soprattutto personaggi) che sembrano uscire fuori dal cinema dei fratelli Coen, ma soprattutto c’è l’enorme talento di PTA nel raccontare storie, nel prendere per mano lo spettatore e coinvolgerlo in un caleidoscopio di ironia, azione, calore umano e battute fulminanti, fino a una bellissima scena di inseguimento nel deserto, tra dossi, salite e discese, in una sorta di “labirinto rettilineo” che tiene con il fiato sospeso. Il mondo forse si può davvero cambiare, una battaglia dopo l’altra. Nel frattempo, godiamoci film stupendi come questo.

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2025-09-11

Recensione “Alpha”: Tra Venti Rossi e Vene di Pietra

Nel bellissimo Titane, film precedente di Julia Ducournau, Vincent Lindon insegnava alla protagonista del film come fare un massaggio cardiaco canticchiando Macarena. Qui a fare i massaggi cardiaci c’è invece la splendida dottoressa Golshifteh Farahani, già musa di Ridley Scott, Asghar Farhadi e Jim Jarmusch, tra gli altri. Forse tutto Alpha è un lungo massaggio cardiaco alle emozioni dello spettatore, continuamente messo alla prova dagli sbalzi ermetici di un film molto bello, che come il precedente farà discutere, dividerà, ma che innegabilmente è in grado di scavare nel profondo grazie anche a tre interpretazioni pazzesche (Tahar Rahim diventa sempre più bravo a ogni film).

La giovane Alpha un giorno torna a casa con la lettera A incisa sul braccio, una ragazzata che getta sua madre, dottoressa single, nel panico: in giro infatti c’è un virus ematico che pietrifica le persone, rendendole simile a statue di marmo (lo stesso virus contratto anni prima dal fratello della dottoressa). Per sapere se la ragazza è stata contagiata servono però due settimane: un’attesa snervante per una 13enne che deve vivere ogni giorno in una classe di coetanei che, adesso, cercano di evitarla in ogni modo.

Il mondo del film, senza cellulari, senza internet e tecnologie simili, somiglia in maniera inquietante agli anni 80 in cui siamo cresciuti anche noi, con il terrore dell’AIDS che rendeva spaventosa ogni passeggiata per strada (“guarda sempre a terra, attento a non calpestare siringhe”, ci dicevano gli adulti). Il riferimento all’HIV non è neanche tanto nascosto, in questa allegoria che abbellisce esteticamente la malattia, ma che al tempo stesso ci mostra quanto sia spietata e pericolosa. La chiave di tutto forse è in una poesia di Edgar Allan Poe, Un sogno dentro un sogno, che viene spiegata a lezione di inglese nella classe di Alpha, dove il poeta racconta cosa significa perdersi durante il cammino dell’esistenza, quando la disperazione prende il sopravvento e non si riesce più a distinguere cosa sia reale e cosa sia, per l’appunto, un’illusione. Alpha, infatti, è un film sulle difficoltà di essere adolescenti, su quanto sia difficile essere madre di una ragazza in crisi e sorella di un uomo disperato, sopraffatto dalla tossicodipendenza, ma soprattutto, come dicevo, è un lungo massaggio cardiaco: c’è un costante bisogno di aggrapparsi alla vita, di curare, di salvare, di salvarsi.

Dopo la Palma d’Oro con Titane, la regista francese realizza forse il suo film più bello, sicuramente il più cupo e disperato, dove le montagne russe tra la corsia di un ospedale (dove c’è spazio anche per l’ottimo francese dell’infermiera Emma Mackey!) e la casa-ambulatorio delle protagoniste altro non sono se non quella stessa spiaggia dorata dove il poeta di cui sopra soffriva della sua incapacità di trattenere la sabbia nella mano: tutti cerchiamo qualcosa di solido a cui aggrapparci, ma ciò che cerchiamo si trova sempre di fronte a un cambiamento perpetuo, inarrestabile, forse davanti a una realtà effimera, che soffia come il maledetto vento rosso delle maledizioni berbere.

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Poster italiano del film "Alpha" di Julia DucournauFotogramma dal film "Alpha" di Julia Ducournau
2025-08-17

Capitolo 412: Puglia, Texas

Anche questo Ferragosto ce lo siamo tolto di mezzo. Il 15 è un po’ come il giro di boa dell’estate, superato quello si avvicina la nuova stagione e tutti quei propositi che troppo facilmente ci siamo appuntati per settembre. L’estate è quindi agli sgoccioli, si avvicina per me il rientro nella Città Eterna (e la ricerca della casa), le presentazioni del libro (il 28 agosto a Monopoli, il 18 settembre a Roma), il ritorno a una routine romana che, dopo tutte queste settimane in terra pugliese, comincia a mancarmi. Ciò che non manca mai, invece, è buon cinema. E allora andiamo a parlare di film!

Paris, Texas (1984): Quando ho saputo che avrebbero proiettato il capolavoro di Wim Wenders all’arena estiva di Polignano a Mare (se siete in zona, andateci: è magnifica), non ho esitato un istante a fiondarmici. Vincitore della Palma d’Oro a Cannes, è un’opera che ho scoperto in età adulta, soltanto cinque anni fa, ma che non mi è più uscita dal cuore. In questo film c’è tutto quello che amo vedere su uno schermo: la strada, il viaggio, un protagonista tormentato, nessun antagonista (se non gli eventi della vita), la giusta ironia, un sottofondo di malinconia e romanticismo, una fotografia stupefacente e una colonna sonora perfetta: una collezione di luoghi e personaggi da amare. Harry Dean Stanton sparisce per anni nel deserto e quando viene finalmente recuperato dal fratello, viene riportato a casa, dove incontra suo figlio, che ora ha 8 anni e praticamente non lo conosce. Al tempo stesso, il nostro cerca di scoprire dove sia invece finita la mamma del bambino (Nastassja Kinski), anche lei fuggita da diversi anni. Tre film in uno, una manciata di personaggi ai quali ti affezioni senza esitazioni, di cui vorresti conoscere il destino, di cui ti preoccupi continuamente. Una poesia di terra e fuoco, attraverso motel e bar, specchi e riflessi. Capolavoro.
•••••

Una Pallottola Spuntata (2025): Durante il primo atto ho riso più volte, ci stavo davvero credendo, ho pensato: “Cavolo, sta funzionando” (due o tre gag sono ottime). Poi le idee finiscono (più o meno con la comparsa in scena di un imbarazzante pupazzo di neve spiritato), le citazioni pure e quel che resta è una storia, che da pretesto diventa il punto del film: dove muore il passato e non c’è spazio per il futuro c’è solo un presente che, purtroppo, genera mostri. Inutile citare la trama, c’è il solito milionario dalle idee folli, c’è il solito protagonista che ne combina di tutti i colori, ci sono i soliti metodi bislacchi ma funzionali: ogni cosa però è lo squallido tentativo di replicare quello schema nel quale una volta lavoravano idee geniali, qui invece non ce ne sono. E allora lasciate che i morti riposino in pace, lasciate stare chi ha fatto sbellicare dalle risate una generazione intera.
••½

Weapons (2025): Spinto da una serie di recensioni e commenti positivi (e da un trailer niente male), sono andato al cinema con le migliori intenzioni. Nel cuore di una notte, in una cittadina della Pennsylvania, alcuni bambini fuggono improvvisamente di casa. Dalle videocamere di sicurezza emerge che i ragazzi sono tutti scappati di loro spontanea volontà e, nei giorni seguenti, non si riesce a dare una spiegazione all’evento. Il capro espiatorio diventa Julia Garner, la maestra, visto che i bambini appartenevano tutti alla sua classe. La prima mezzora è bellissima, ha un debito con l’immaginario di Stephen King (soprattutto come ambientazione). L’effetto Rashomon, ovvero la struttura narrativa che racconta uno stesso evento da punti di vista diversi, funziona piuttosto bene e aggiunge di mano in mano nuovi tasselli alla storia, risolvendosi però in un finale purtroppo grottesco, poco coinvolgente, sul quale il film inevitabilmente si affloscia (difetto tipico di molti horror inizialmente promettenti, come il recente Longlegs, ad esempio, o il comunque buonissimo When Evil Lurks). La metafora sull’ipocrisia che si cela dietro le maschere sorridenti delle comunità di provincia è un po’ abusata e perde di potenza di film in film. Di Zach Cregger si era parlato bene con l’opera prima Barbarians (che non ho visto, lo recupererò) e anche qui riesce a tenere insieme qualche buona idea, ma nel complesso non va e, ripeto, la seconda metà del film è davvero un delitto (dai, ma veramente gli investigatori non avevano pensato a seguire la direzione dove convergono le fughe dei bambini? Meno male che c’è Josh Brolin a pensarci!).
•••

L’Implacabile (1987): Il regista Paul Michael Glaser forse è più celebre come volto televisivo nei panni del detective Starsky nel telefilm Starsky e Hutch, chi è cresciuto negli anni 80 forse invece ricorderà questo action distopico che vede come protagonista Arnold Schwarzenegger. Nel futuro 2017 (sic) alcuni detenuti possono ottenere la grazia partecipando a una trasmissione televisiva di successo, dove devono attraversare alcuni quadranti sotterranei della città senza finire uccisi dagli “sterminatori” spediti appositamente dal programma per rendere la missione più complicata. Schwarzy è ingiustamente accusato di aver massacrato un gruppo di persone inermi, che chiedeva solo cibo (la scena, vista oggi, è inquietante per l’attinenza con le cronache di questi mesi) e finisce con il diventare un perfetto concorrente per il programma. Nonostante le premesse abbastanza ridicole (e nonostante l’accento e la recitazione “canina” di Schwarzenegger), il film ha un suo perché, funziona, diverte, con una strepitosa colonna sonora da videogame anni 80 e la struttura stessa che sembra quella di un videogioco per Amiga. Se un film del genere l’avesse diretto qualcuno come George Miller, probabilmente staremmo qui a parlare di un cult assoluto. A ogni modo, a settembre uscirà un remake con protagonista Glen Powell, The Running Man.
•••½

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2025-07-24

Cinque Film 2: L’Estate

Secondo episodio della rubrica Cinque Film. Dopo la prima parte dedicata al tema del viaggio, oggi parliamo della stagione più amata o odiata dell’anno: l’estate. Flaubert diceva che Un’estate è sempre eccezionale, calda o fredda, secca o umida che sia. Qualunque sia, l’estate è arrivata già da un po’, con il suo carico di aspettative e di avventure, di emozioni da cercare tra le strade delle città deserte, nelle campagne assolate, sulla sabbia lucente in riva al mare.

Il cinema ha raccontato questa stagione, senza dubbio la più “cinematografica” che ci sia, nei modi più disparati, in ogni angolo del mondo, tra serial killer e vacanze al mare. Per l’occasione ho scelto Cinque Film “estivi” per celebrare l’inizio della stagione. Che sia anche per noi un’estate eccezionale, come quella raccontata da Flaubert (e arrivate in fondo all’articolo, ci sono due bonus!).

Summer of Sam (1999): Estate del 1977. Una delle più torride e afose che gli abitanti di New York possano ricordare. I nervi dei newyorkesi, già sfiancati dal caldo asfissiante, sono messi a dura prova da un serial killer che uccide a caso con una calibro 44. Ispirato alla storia vera del cosiddetto “Figlio di Sam”, David Berkowitz, Spike Lee gira un thriller sociologico dove è la mafia a dare la caccia all’assassino, prendendo di mira il più diverso e strambo del quartiere, un punk che ha i connotati di Adrien Brody (lo sceneggiatore, Michael Imperioli, meglio noto come Christopher Moltisanti ne I Soprano, afferma di essersi ispirato a ciò che ha passato in quel periodo un suo amico punk). Un gran film, che gronda di sudore e tensione, in una delle estati più calde della storia del cinema.

Alcarras (2022): Orso d’Oro alla Berlinale 2022, l’opera seconda di Carla Simón è un film autentico, vivace, a tratti documentaristico. La regista catalana racconta la storia della famiglia Solé, che da decenni vive agricoltura, grazie al raccolto di campi che le è stato concesso di coltivare in segno di gratitudine sin dai tempi della guerra civile. Quei campi però appartengono ad un’altra famiglia, che non è interessata a mantenere la promessa fatta dai suoi padri e che ora vuole sradicare i peschi dei Solé per installare sul terreno pannelli solari. Alla fine dell’estate, dopo l’ultimo raccolto, la famiglia dovrà dunque lasciare quella terra alla quale ha dedicato ogni goccia di sudore da oltre tre generazioni. Ci sarà quindi da affrontare la tempesta, ma il futuro, con il peso dell’incertezza, mina l’unità di questo gruppo di persone, in cui ogni componente sembra occupato a cercare il suo posto all’interno della crisi. In un periodo di cinema letteralmente invasi da effetti speciali digitali e supereroi in pigiama, film come Alcarràs sono piacevoli come il ricordo di un’estate intensa che sembra finita troppo presto.

The Myth of American Sleepover (2010): Torniamo negli Stati Uniti, nell’ultima estate prima di cominciare il liceo. Anzi, nell’ultima sera d’estate prima dell’inizio della nuova scuola. David Robert Mitchell fa il suo esordio nel lungometraggio con un indie d’autore che sfata il mito del teen movie e dell’edonismo adolescenziale sfrenato e demenziale. I suoi adolescenti sono malinconici, più profondi di quanto ci si possa aspettare: ragazzi e ragazze, rigorosamente separati, sono riuniti a casa di alcuni di loro per un ultimo pigiama party. Per questo in città ci sono diverse festicciole, dove i ragazzi stanno insieme a guardare qualche film (o a spizzare una sorella maggiore particolarmente annoiata) e le ragazze si riuniscono invece per chiacchierare e condividere confidenze. I più grandi invece, quelli che al liceo già ci vanno, si muovono in sottofondo tra feste più movimentate, ambite da alcuni dei più giovani come luoghi dove poter finalmente fare tutto quello che in estate ancora non è stato fatto. Disarmante nel realismo della sua rappresentazione, David Robert Mitchell ci fa capire che è possibile fare un film sugli adolescenti con un impronta d’autore, senza dover per forza mostrare divertimento sfrenato o ragazzi e ragazze in cerca di guai. Parafrasando Gaber, i personaggi di questo film non si sentono adolescenti ma, per fortuna o purtroppo, lo sono: quanta nostalgia per quando quelle estati erano le nostre!

Il Buio Oltre la Siepe (1962): Alabama, estate del 1932. Gregory Peck è un avvocato, padre vedovo di due ragazzini irrefrenabili, Scout e Jem, nonché avvocato difensore di un giovane afroamericano ingiustamente accusato di violenza carnale. Mulligan si ispira al meraviglioso romanzo di Harper Lee per raccontarci una storia sul valore della giustizia, sul pregiudizio, attraverso gli occhi dei bambini, impegnati a vivere l’estate tra i giochi, le storie spaventose sul misterioso vicino di casa Boo Radley, gli insegnamenti di uno dei migliori padri mai visti su pellicola. Capolavoro senza tempo.

Mektoub, My Love (2016): 2 ore e 54 minuti che volano in un soffio, come un’estate carica di desiderio. Un’estate che vola via tra gli sguardi dei suoi personaggi, sui sapori dei pasti che consumano, sulle note assordanti delle musiche che ballano. Abdellatif Kechiche, dopo il meraviglioso La Vita di Adele, si conferma ancora una volta un maestro puro che attraverso il suo cinema riesce ad immergerci profondamente nei pensieri dei personaggi: l’utilizzo costante della camera a mano, uno dei marchi di fabbrica del regista, ci trasporta tra i vicoli di Sète (paesino del sud della Francia in cui si svolge la storia) e abbiamo quasi l’impressione di sentire sulla nostra pelle la canicola estiva, gli odori della campagna o il mormorio rinfrescante del mare. Illuminato dalla luce magica dell’estate mediterranea, il film di Kechiche indaga le varie forme del desiderio e quelle ancor più misteriose dell’attrazione, facendoci innamorare dei suoi personaggi, della loro libertà e della loro vitalità, rendendo nostalgica anche un’estate che non abbiamo mai vissuto.

BONUS
Una bella canzone sull’estate: Amongst the Waves, Pearl Jam.
La band di Seattle usa il mare e il surf come metafore potenti della vita, della rinascita e dell’accettazione. Se dapprima la canzone dice I used to be crustacean, in an underwater nation, nel ritornello esplode la consapevolezza, un sentirsi vivi e in armonia con tutto ciò che c’è intorno: I’m amongst the waves, I am part of the ocean. Insomma, la canzone ci invita ad accettare i cicli, le altezze e le cadute, esattamente come fanno le onde: d’estate dunque non si fugge più, si vive tutto.

Un bel libro sull’estate: Il Grande Gatsby, Francis Scott Fitzgerald.
Uno dei libri più belli che abbia mai letto: il jazz, l’afa, le feste. L’estate dorata del sogno americano, destinata a finire male, in un classico senza stagione, dove l’estate sembra essere un personaggio vero e proprio. Il caldo infatti è opprimente, ma l’estate, almeno all’inizio, contiene una promessa, tutto è ancora possibile.

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2018-07-30

Capitolo 246

Eccomi nuovamente a Roma, dopo quindici bellissimi giorni nella mia seconda terra, la Puglia. Tornare nella Città Eterna a fine luglio mi fa sentire un po’ tipo Clint Eastwood ne “Il Buono Il Brutto il Cattivo”, quando Tuco lo obbliga ad attraversare il deserto sotto il sole rovente. Ecco, mi sento proprio così, strisciante nell’asfalto romano, con il pensiero fisso del mare, dei panzerotti e di quella dolce brezza cullata dalle onde. Bon, dopo questa nostalgica ed amara introduzione, passiamo alle visioni di questo periodo di vacanza, tra treni che andavano, treni che venivano e terrazze stellate.

Funeral Party (2007): Viaggio d’andata in treno. Lo scorso anno, non so perché, guardai “Zabriskie Point” di Antonioni, quest’anno ho imparato la lezione e mi sono buttato su una commedia che non vedevo da tanti anni. Forse il film più divertente di questo secolo, ricordo che al cinema, ai tempi, sono finito sotto la poltroncina per quanto stavo ridendo. Anche in treno sono riuscito ad attirare lo sguardo di alcuni passeggeri che mi stavano sentendo ridere un po’ troppo sguaiatamente. Capolavoro.

Phenomena (1985): Altro film già visto, che però stavolta non vedevo davvero da circa 25-30 anni. Visto che sto dando ripetizioni di Dario Argento alla mia dolce metà, grazie a Prime Video mi sono imbattuto in quest’altro grande classico: atmosfere come sempre bellissime, anche se nei film del buon Dario la plausibilità non è proprio di casa. Ha retto comunque il peso del tempo, confermandosi un ottimo prodotto di genere. Jennifer Connelly prometteva proprio bene (in tutti i sensi): ma che fine ha fatto?

Ammore e Malavita (2017): Se i Manetti Bros non ci fossero, bisognerebbe inventarli. Un musical tra camorra e canzone napoletana, uno dei grandi successi italiani della scorsa annata cinematografica. Finalmente sono riuscito a recuperarlo e, sebbene continui a preferire “Song e Napule”, devo dire che anche in questo caso il film funziona in ogni dettaglio: la musica, gli attori, l’ambientazione, la storia. Splendido.

Rocky (1976): A Roma non ho il televisore, motivo per cui ogni volta che mi trovo a Monopoli, dove il televisore c’è, devo assolutamente guardarmi almeno un film in tv. Un mercoledì sera bello fresco mi imbatto nel capolavoro partorito da Stallone: e che fai, non te lo rivedi per la trentacinquesima volta? Ma di che stiamo parlando, i brividoni!

Non buttiamoci giù (2014): Da un libro molto bello di sua maestà Nick Hornby, un adattamento che, pur essendo piuttosto godibile, non ha la brillantezza né l’acutezza del romanzo. Visto però che ci stanno un sacco di rompiballe che quando vedono un film devono per forza dire che il libro è meglio (e ti credo, a meno che il film non sia di Kubrick) e visto che non voglio assolutamente fare la parte del rompiballe, diciamo che il film preso così com’è è comunque molto carino (e poi da quando ho visto “Roadies” ho una cotta per Imogen Poots). Dimenticavo, Toni Collette tanto per cambiare fa la parte di una madre disagiata: che novità!

Funny People (2009): Mi domando come facessi a non conoscere questo film, proprio io che sto sempre molto attento a ciò che si muove nel panorama indipendente. Judd Apatow (creatore della serie “Love”) riunisce in due ore e mezza (!) di film alcuni tra i maggiori comici del momento: Adam Sandler, Seth Rogen, Jonah Hill, Aziz Ansari e un sacco di altra gente. Mi è piaciuto, non è assolutamente male, non è proprio una commedia, anzi, però la durata è decisamente esagerata. Adam Sandler nei ruoli drammatici funziona davvero bene.

England is Mine (2017): Aspettavo questo film con grande curiosità visto che gli Smiths sono tra le mie band preferite. Niente, soporifero fino alla nausea, la regia è piatta, senza guizzi, la storia è totalmente monocorde. Inoltre, trattandosi di una biografia non autorizzata, non ci sono le canzoni degli Smiths. Tempo perso.

Slacker (1991): Il viaggio di ritorno in treno, che grazie a Trenitalia è durato 8 ore invece di 6, è stato allietato dal film d’esordio di uno dei miei registi preferiti, Richard Linklater. Dare un giudizio è complicato, perché non c’è una trama vera e propria, semplicemente ci sono gruppi di ragazzi che si incontrano casualmente e danno continuamente vita a nuove scene del film, dove si parla un po’ di tutto. Interessante manifesto di una generazione di “fannulloni” più o meno intellettuali, il talento di Linklater era già cristallino.

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2013-12-12

Recensione “I Sogni Segreti di Walter Mitty” (2013)

Remake di Sogni Proibiti (film del 1947 di Norman Z. McLeod), liberamente tratto dal racconto The Secret Life of Walter Mitty scritto nel 1939 da James Thurber: Ben Stiller dirige e interpreta questa nuova versione, adattandola al cinema, ai sogni e alla vita di oggi. La splendida idea è di inserire la storia all’interno di un contesto storico reale, ovvero il passaggio della rivista Life dal cartaceo alla versione online: in tal modo la vicenda raccontata risulta più reale, più credibile, e di conseguenza più emozionante. Si potrebbe definire il classico film in cui un uomo ordinario, dall’esistenza ordinaria, si ritrova improvvisamente catapultato in una vita nuova, piena di avventura e di esperienze mai provate prima. Ma il film di Ben Stiller ha qualcosa in più: il fascino immenso dello scatto fotografico (che il cinema racconta sempre troppo poco), l’attrazione del viaggio in solitaria, il lato umoristico rappresentato dalle fantasie del protagonista (da una parodia di Benjamin Button a scene d’azione in pieno stile Avengers), una colonna sonora eccezionale (da Space Oddity di Bowie a Wake Up degli Arcade Fire) e soprattutto un finale bellissimo.

Walter Mitty lavora da oltre quindici anni come archivista di negativi per la celebre rivista Life. La sua è una vita noiosa, non è praticamente mai uscito fuori da New York, per questo la sua mente ogni tanto si incanta per creare quelle avventure che lui non riuscirà mai a vivere. La rivista Life sta per chiudere la versione cartacea per passare definitivamente online, questo significa che molti dipendenti perderanno il posto di lavoro, da Walter a Cheryl, di cui il protagonista è segretamente innamorato. Per cercare di salvare il posto Mitty è costretto a lanciarsi all’inseguimento del più grande fotografo della rivista, Sean O’Connell: la fotografia per la copertina dell’ultimo numero, realizzata da Sean, sembra essersi inspiegabilmente perduta negli archivi di Walter. Comincia così un’avventura tra Groenlandia, Islanda e Afghanistan, che regalerà alla vita di Mitty quelle esperienze straordinarie sulle quali lui stesso avrebbe potuto soltanto fantasticare.

È curioso vedere Ben Stiller in un film di questo genere, troppo fantastico per essere drammatico, ma troppo serio per essere definito una commedia: certo, non mancano gli spunti divertenti, ma c’è una piccola magia di fondo che rende tutto particolare, come vedere Sean Penn nella parodia del fotografo free-lance alla Steve McCurry. Probabilmente ciò che rende davvero speciale questo film è, nonostante le incongruenze e le assurdità, la sua capacità di farci lasciare la sala con la voglia di rendere magico ogni momento della nostra vita. È anche a questo che dovrebbe servire il cinema.

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Da leggere anche: I sogni segreti di Walter Mitty

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2025-05-23

Capitolo 407: Gli Spiriti di Maggio

Questo mese sto guardando pochi film, lo so, è incredibile. Un po’ è colpa della primavera, che mi porta fuori casa più di quanto vorrei, un po’ del lavoro, che mi trattiene al pc anche negli orari che solitamente dedico al cinema, un po’ è colpa degli ultimi ritocchi di – udite! udite! – un libro che sono in procinto di pubblicare, La Strada Altrove. Al momento opportuno farò un post dedicato, per dirvi di più, per ora posso anticipare che si tratta di una storia autobiografica passata in giro per il mondo, tra Parigi, Berlino, New York e tante altre città, un racconto di formazione tra le inquietudini della generazione post-universitaria, oltre che una guida emozionale di città meravigliose (in cui ci sarà spazio per tante citazioni cinematografiche, vero faro di ogni mio viaggio). A ogni modo, sarà disponibile online e in libreria dal 15 giugno, vi terrò aggiornati, che lo vogliate o no! Ora però passiamo ai film, che mi sono dilungato un po’ troppo.

Margini (2022): Su RaiPlay trovate questo bel film di Niccolò Falsetti, che avevo già avuto il piacere di vedere in sala un paio d’anni or sono. Premio del pubblico alla Settimana Internazionale della Critica al Festival di Venezia, questo film d’esordio, prodotto tra gli altri dai Manetti Bros, è divertente, scanzonato, ti costringe a fare i conti con il peso dei tuoi sogni ma sa farlo con leggerezza e vitalità. Siamo a Grosseto, una ventina d’anni fa: tre ragazzi che suonano in una band punk locale, stanchi di doversi sempre spostare ovunque per suonare e per sentire le band che amano, decidono di organizzare il concerto di un celebre gruppo statunitense là da loro, con tutti gli oneri del caso: trovare una location, trovare l’attrezzatura e soprattutto trovare i soldi. Il cinema può anche essere una cosa semplice, basta avere belle idee. Una bella sorpresa, da vedere.
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Tendaberry (2024): Altra opera prima, stavolta di Haley Elizabeth Anderson. L’incipit e la conclusione sono davvero emozionanti, nel mezzo ci sono tante cose da dire e una voce non sempre del tutto coerente. Ma quanta passione, quanta emozione, quanta voglia di urlare “cinema”! La vicenda segue i passi di una ragazza a Brooklyn, con un figlio in grembo e un ragazzo costretto a tornare in Ucraina dalla famiglia. Una storia di formazione che ha incantato il Sundance e che ora trovate su Mubi. “Non voglio essere un cumulo di tristezza”, dice la protagonista: diamine, che voglia di abbracciarla, in quel momento. Lunga vita al cinema indipendente, alle riprese con le luci naturali, alle interpretazioni sporche, alla macchina a mano. Da vedere.
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Gloria! (2024): Ho seguito i David di Donatello e mi sono preso una mezza cotta per Margherita Vicario, che non conoscevo. Incuriosito dai tanti premi ricevuti, ho recuperato il suo film d’esordio dello scorso anno, la storia di una servetta in un istituto di educande del 1800. La ragazza scopre per caso un pianoforte in un magazzino e comincia a suonarlo di nascosto, dimostrando passione e talento per una musica molto più moderna rispetto ai canoni dell’epoca. Nato come omaggio alle tante donne musiciste dell’800, a cui è sempre stato impedito di esprimersi e comporre, a differenza dei colleghi maschi, è un piccolo film pieno di vitalità e gioia. Mi sono proprio divertito.
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Game Night (2018): Opera seconda di John Francis Daley e Jonathan Goldstein, una commedia simpatica e con un buon cast, dove però si ha costantemente l’impressione che si siano divertiti più loro a girarlo che noi a guardarlo. Rachel McAdams e suo marito Jason Bateman sono dei malati di giochi da tavola, giochi di ruolo, quiz: qualunque cosa, purché si giochi. Una sera il fratello di lui organizza una serata interattiva, con finti rapimenti e indagini, dove però qualcosa va storto: qualcuno viene rapito davvero. Equivoci, qualche gag divertente e poco altro, buono per una serata a cervello spento, senza pretese.
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Amore e Guerra (1975): Negli anni 70 Woody Allen è stato investito da un’ispirazione senza precedenti. Ogni suo film era composto da trovate irresistibili, riflessioni emozionanti, seppur comiche e un’aura di genialità che nei decenni successivi è andata un po’ a fasi alterne (anche se il cinema – e noi con lui – ringrazia). Qui Allen omaggia i classici della letteratura russa, mischiandoli con suggestioni e citazioni di Bergman, raccontando la storia di un inetto che, senza volerlo, diventa un eroe militare. Esilarante quanto sofisticato, è una collezione di battute memorabili, tra cui quella di una strepitosa Diane Keaton: “Amare è soffrire. Se non si vuol soffrire, non si deve amare. Però allora si soffre di non amare. Pertanto amare è soffrire, non amare è soffrire, e soffrire è soffrire. Essere felice è amare: allora essere felice è soffrire. Ma soffrire ci rende infelici. Pertanto per essere infelici si deve amare. O amare e soffrire. O soffrire per troppa felicità. Io spero che tu prenda appunti”. La vita sarebbe migliore se si guardassero più spesso i film di Woody Allen.
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Gli Spiriti dell’Isola (2022): Erano due anni buoni che aspettavo di fare un rewatch di questo bellissimo film di Martin McDonagh, uno dei grandi geni del nostro tempo (è l’unico drammaturgo, oltre a un certo William Shakespeare, che a 27 anni ha avuto quattro suoi spettacoli rappresentati simultaneamente nei teatri del West End di Londra). In un villaggio di poche anime due migliori amici si ritrovano improvvisamente ai ferri corti, mentre al di là del mare imperversano gli spari della guerra civile irlandese. Una tragicommedia dove la disperazione esistenziale tra chi non vuole più sprecare un minuto della sua vita e chi invece non vuole rassegnarsi alla solitudine si snoda come una scazzottata psicologica, in un’escalation di rappresaglie da far impallidire la guerra civile che percepiamo dall’altra parte del mare. Colin Farrell e Brendan Gleeson sono perfetti, in questo film beffardo, tragico, ironico e, soprattutto, infinitamente dolce. Nove candidature agli Oscar (di cui addirittura quattro per gli interpreti) e zero statuette. Un filmone.
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2025-05-19

Recensione “La Trama Fenicia”: C’era Una Volta il Wes

Due anni fa, a proposito di Asteroid City, scrivevo queste righe. Le riporto perché ormai con i film di Wes Anderson si può fare copia-incolla, senza rischiare di sbagliare troppo il giudizio. Dunque: “C’era una volta il mio grande amore per Wes Anderson. Ora, seppur estasiato dalla composizione delle immagini, mi tocca constatare come tutta quella magnifica estetica mi appaia invece vuota e piuttosto priva di contenuto. (…) Wes Anderson ormai ha preso una china discendente che sembra, purtroppo, inarrestabile: i suoi film sembrano food porn, un piatto gourmet all’apparenza succulento e coloratissimo ma, in fin dei conti, senza poesia”.

L’ultima fatica del regista texano non fa grandi passi in avanti, in quest’ottica. C’è sempre un rapporto famigliare disfunzionale, stavolta tra padre e figlia, c’è un prologo molto promettente, con il magnate Benicio Del Toro al centro dell’ennesimo attentato ad alta quota, da quel che emerge dal racconto. Sappiamo che l’uomo è sopravvissuto a tre mogli, numerosi incidenti aerei e convive con una nidiata di ragazzini da cui si tiene a debita distanza. Quando sfiora la morte si avvicina alle porte del Paradiso dove, oltre a incontrare Dio (Bill Murray, ça va sans dire), capisce di dover riportare all’ovile l’unica figlia, diventata suora, alla quale intende affidare l’intera eredità. L’obiettivo dell’uomo, accompagnato dalla ragazza (l’ottima esordiente Mia Threapleton) e da un buffo Michael Cera, è di realizzare un enorme progetto di sviluppo in una zona povera della Fenicia e per farlo ha bisogno dell’appoggio di una serie di burocrati provenienti da mezzo mondo, dal consorzio dei fratelli appassionati di basket Tom Hanks e Bryan Cranston, al proprietario di night club Mathieu Amalric, per citarne un paio.

Come ormai accade spesso negli ultimi lavori di Wes Anderson, il film sembra essere un mero pretesto per mettere in piedi una serie di episodi in cui far gigioneggiare i suoi personaggi e impressionare lo spettatore con scenografie straordinarie. Per carità, non nego che abbia qualche buona idea, una manciata di spunti divertenti e un po’ di cuore, però, come un buon pezzo di formaggio, oltre al piacere dell’assaggio non resta molto altro e, nonostante il film sia finito poco più di un’ora fa, fatico già a ricordarlo.

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2025-04-05

Capitolo 404: Queer e Ora

Prima di parlare del qui e ora, un passo indietro: marzo si è chiuso con 21 film all’attivo, di cui ovviamente abbiamo ampiamente parlato. In tutto il 2025 (esclusi questi primi giorni di aprile) mi trovo dunque con un totale di 62 film, 10 in meno rispetto all’anno scorso, che è stato il mio anno dei record. Il motivo di questo ritardo non è causato da un’impennata della mia vita sociale, figuratevi, ma va più probabilmente ricercato nelle tante serate dedicate al rewatch di Twin Peaks, ormai agli sgoccioli. Alla lista qui di seguito manca Zodiac, trovato anche quest’anno in tv e inevitabilmente rivisto, ma ne ho già parlato così tanto in passato che, per questa volta, ho pensato di ometterlo (tanto cosa devo dirvi ancora, è un capolavoro).

Queer (2024): Avevo discrete aspettative su questo nuovo film di Luca Guadagnino, anche perché le sue opere precedenti mi sono piaciute praticamente tutte (niente che mi facesse strappare i capelli, anche perché stanno cadendo da soli, ma comunque lo ritengo un autore più che apprezzabile). Qui invece non funziona quasi nulla, se non gli ottimi interpreti (Jason Schwartzman è fantastico) e alcune sequenze oniriche (specie nella prima parte) che omaggiano David Lynch e lo fanno anche bene. Daniel Craig è un tossico espatriato in Messico, dove fa il viveur tra un locale gay e l’altro. In uno di questi incontra un ragazzo che gli farà perdere la testa, ridefinendo il suo concetto di dipendenza. Decisamente meglio nella prima parte, quando si attiene al romanzo omonimo di Burroughs, cala drasticamente nel terzo atto, tra trip allucinati e ricerca dell’ayahuasca come fosse il Santo Graal. La colonna sonora con i Nirvana poi, mi è sembrata totalmente fuori luogo, così come alcune scenografie, talmente finte che mi sono sembrate ricostruite con l’AI, ma spero di sbagliarmi. Delusione.
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Possession (1981): Il polacco Andrzej Żuławski, oltre ad essere stato assistente di Wajda e uomo più invidiato del mondo nei 17 anni in cui è stato insieme a Sophie Marceau, è anche il regista di questo straordinario e assurdo film. Citare la trama senza rivelare troppo sarà un’impresa: nella Berlino divisa dal muro, Sam Neill e Isabelle Adjani sono una coppia in crisi. Non si amano più e per questo lei decide di portarsi via il figlioletto e lasciare il marito. In realtà la donna sta vivendo una sorta di doppia vita in cui nasconde un segreto che è meglio non conoscere. Probabilmente ho già detto troppo, ma sarebbe stato complicato far capire il livello di ansia, mistero e orrore che avvolge ogni scena, con una macchina da presa che gira di qua e di là, in alcune delle carrellate più audaci (e bellissime!) che abbia mai visto in un film. Un cult per cui David Lynch nel 2006 spese parole importanti, definendola “la pellicola più completa degli ultimi 30 anni”. Palma d’Oro a Cannes per la migliore interpretazione femminile, il modo in cui il regista riesce a rendere la stessa Berlino protagonista è strepitoso, con l’angoscia dei personaggi che viene amplificata dalla presenza, a due passi, del muro, dei soldati, del filo spinato. Cultissimo.
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Seven (1995): In un tranquillo sabato sera, dopo che hai visto la partita della Roma, fai zapping in tv e trovi questo capolavoro di Fincher appena iniziato, che fai? Cambi canale? Non credo proprio. Ed è così che ti rivedi Brad Pitt e Morgan Freeman alle prese con un assassino che sceglie le sue vittime in base ai sette peccati capitali. Ed è così che rivivi tutta la claustrofobia di una città cupa, perennemente piovosa, fredda, fino a quel clamoroso e assolato finale, uno dei più incredibili della storia del cinema. Ricordo perfettamente quando a 14 anni vedevo il trailer in tv e la felicità, un anno dopo, quando venne messo in programmazione su Telepiù, dove lo vidi e rividi fino a farmelo uscire dalle orecchie. Immenso.
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Voglia di Vincere (1985): Se ci si ferma a pensare è incredibile quanto eravamo felici negli anni 80, senza saperlo. Quando la sera in tv passavano un film con Michael J. Fox e tu te ne stavi là a guardarlo, magari sperando un giorno di diventare simpatico e gagliardo come lui. Il nostro qui è uno studente di liceo, nonché titolare nella sfigatissima squadra di basket della scuola, celebre per prendere scoppole a destra e a manca. Un giorno il ragazzo scopre di aver ereditato la licantropia, ciò che non può ancora sapere è che la sua versione da lupo farà impazzire le ragazze, lo renderà un fenomeno a basket e, di conseguenza, il ragazzo più popolare della scuola. Ma non è tutto oro ciò che luccica… Ammetto che sia invecchiato maluccio (o forse sono invecchiato male io), i miei ricordi di questo film erano molto più felici e positivi rispetto a questo rewatch avvenuto una trentina d’anni dopo l’ultima volta. Ennesima dimostrazione che i film restano sempre uguali, sono i nostri occhi che cambiano, maturano, forse peggiorano. Diamine però quanto si stava meglio, in quei fottuti anni 80. Il film è in streaming su Prime Video.
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Il Cavaliere della Valle Solitaria (1953): Due anni prima di girare Il Gigante, noto anche come l’ultimo film di James Dean, il regista George Stevens gira questo western atipico, una sorta di Lo Chiamavano Trinità senza fagioli (ma con le scazzottate!). Il protagonista Shane, che già conoscevo per essere stato citato più volte nel bel thriller Il Negoziatore, è un pistolero dal cuore d’oro che, di passaggio in una vallata, decide di fermarsi per rifarsi una vita come contadino e, al tempo stesso, difendere gli altri contadini da un proprietario terriero avido che vuole tutte le loro terre per sé. Con le splendide montagne del Wyoming a far da sfondo alla valle solitaria del titolo italiano, le due fazioni si provocano, si pizzicano, si menano e, inevitabilmente, si sparano per gran parte del film. Al di là della semplicità della storia, è appassionante, coinvolgente, si fa il tifo per i buoni come se fosse una partita dell’Italia ai Mondiali e ora capisco perfettamente perché i ragazzini dell’epoca fossero in fissa con Shane. 6 candidature agli Oscar (compreso film e regia) e la statuetta per la migliore fotografia. Bello!
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Il Colore del Melograno (1969): Considerato un film più unico che raro nella storia del cinema, il film dell’armeno Sergej Iosifovič Paradžanov racconta la vita del poeta errante Sayat Nova, dall’infanzia alla corte del principe, fino al ritiro in convento e quindi la morte. Le immagini, dei tableaux vivants a inquadratura fissa, sono tutte ispirate alle opere del poeta, tra allegorie, nature morte, fantasie oniriche e surrealismo, dove spicca il colore del melograno, che richiama subito al sangue versato dal popolo armeno. Un film inafferrabile, enigmatico, ipnotico, ma anche affascinante a non finire: bisogna scendere a patti con il suo simbolismo, il suo linguaggio cinematografico totalmente diverso da ciò a cui siamo abituati, ma se si riesce a entrare in contatto con quella poesia, è difficile non restarne abbagliati. Inoltre, cosa non da poco, dura meno di 80 minuti. Scelto come film preferito per il progetto Film People (qui anche in versione video!), se avete voglia di avventurarvi nella vita di questo bardo armeno del Settecento, potete farlo su Rai Play (dove lo trovate sotto il titolo Sayat Nova).
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2025-03-31

Recensione “The Shrouds”: Sotto il Sudario Niente

L’ultima fatica di David Cronenberg si apre su un corpo di donna in decomposizione, osservato da un volto in penombra, con i capelli grigi, ispidi, talmente somigliante al regista canadese da farti credere per un momento che sia proprio lui: un attimo dopo si illumina però il volto e riconosciamo le fattezze di Vincent Cassel, il vedovo al centro di una storia ispirata dal lutto vissuto dallo stesso Cronenberg in seguito alla perdita della moglie (sarà anche per questo che il protagonista somiglia così tanto al regista, immagino). L’elaborazione del lutto sfocia dunque in un film sul dolore, o viceversa, dove le ottime premesse non servono però a evitare una confusa deriva spy, tra complottismi, hacker e paranoie.

Vincent Cassel è un ricco imprenditore che ha basato il suo business sulla costruzione di cimiteri hi-tech in cui è possibile, grazie a un’app dedicata e a un particolare sudario (che non sfigurerebbe al Met Gala), monitorare in tempo reale la decomposizione del proprio caro estinto. I problemi cominciano quando l’uomo, mentre sta mostrando il corpo in decomposizione della moglie durante un appuntamento al buio (non riuscitissimo, capirete), nota dei depositi ossei che stanno crescendo nelle cavità nasali del cadavere. Questa scoperta viene poi seguita da una profanazione di alcune di queste tombe tecnologiche. Poi entra in gioco un milionario ungherese che vuole trasformare l’attività del protagonista in un franchise e da qui una concatenazione di eventi che ci fa perdere sempre più interesse nei confronti della storia.

Fedele ai corpi tumefatti su cui si basa la vicenda, anche il film stesso sembra decomporsi sotto gli occhi dello spettatore (se escludiamo una splendida scena di sesso tanto fisica quanto psicologica, che è anche una delle migliori sequenze del film, annunciata dalla frase “i complotti mi fanno arrapare”, una citazione che potrebbe decisamente funzionare su una linea di t-shirt per annoiati teenager statunitensi o addirittura sulle tazze per il caffè): i tentativi di Karsh, il protagonista, di mandare via il dolore rimpiazzandolo con qualcosa di più tangibile di uno schermo con un corpo in decomposizione cozzano decisamente con la sottotrama cospiratoria, a tal punto da non far capire né a lui, né tantomeno allo spettatore, la direzione in cui il film si sta dirigendo. Resta il rimpianto di qualcosa che, senza tutta quella fuffa complottista, sarebbe stata un bellissimo film sulla ricerca della nostra metà perduta, sulla possibilità di vivere ancora nonostante un dolore che ha mutilato il nostro corpo. Sotto il sudario però ci sono solo ossa, nonostante un film di Cronenberg meriti sempre il nostro tempo.

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2025-03-19

Recensione “Nonostante”: Purgatorio Amaro

Dopo un buonissimo esordio dietro la macchina da presa con Ride, Valerio Mastandrea raddoppia, anzi triplica, scrivendo, dirigendo e interpretando un film che lascia da parte il realismo agrodolce del film precedente, spostando il focus su una storia d’amore atipica, malinconica, surreale ma al tempo stesso molto dolce. Mastandrea è bravissimo a evitare ogni cliché, con il solito equilibrio tra cinismo, malinconia e leggerezza, un tratto che contraddistingue il suo memorabile protagonista e, di conseguenza, tutto il film.

In un ospedale le anime dei pazienti in coma vivono, parlano, passeggiano, in attesa di un risveglio o della morte. Una piccola comunità di persone molto diverse tra loro, con in comune un letto d’ospedale, una certa disillusione nei confronti della vita e un quasi perenne stato d’attesa. Il tempo scorre sempre uguale, tra improvvise raffiche di vento provocate da chi sta per morire, finché tra i corridoi nell’ospedale non si presenta una nuova paziente, anche lei ovviamente in coma, una donna che stravolgerà lo stato d’apatia rendendo molto più spaventosa l’idea della morte o, ancor peggio, della vita.

Se in Ride il tema centrale era l’elaborazione del lutto, in Nonostante c’è un’altra elaborazione da affrontare, quella di chi va via da questo limbo, morendo o, ancor più imprevedibilmente, svegliandosi dal coma, tornando su, come dicono i personaggi. Questa è probabilmente l’idea più potente del secondo film di Valerio Mastandrea: la paura della vita, intesa sia come risveglio che, da un punto di vista meno concreto, come un faccia a faccia con i propri sentimenti, con un’uscita dalla propria comfort zone emotiva. Forse con un terzo atto meno affrettato avremmo potuto parlare di uno dei migliori film italiani dell’anno, Mastandrea però è evidentemente cresciuto e maturato come artista e sta riversando la sua sensibilità e il suo valore anche dietro la macchina da presa. C’è più emozione, forse, in questo purgatorio immaginario che in tanta realtà, soprattutto perché, concedetemi il gioco di parole, al cuor non si comanda.

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Locandina "Nonostante" di Valerio MastandreaValerio Mastandrea in "Nonostante"
2025-03-07

Recensione “Lee Miller”: La Ragazza con la Rolleiflex

Il problema atavico di tanti film ispirati alla vita di grandi fotografi e grandi fotografe è che, pressoché sempre, le foto che hanno realizzato sono decisamente più interessanti del contesto in cui si muovono le loro vite. Il film di Ellen Kuras dedicato alla carriera di Lee Miller, modella e musa di Man Ray prima, corrispondente di guerra in qualità di fotoreporter dopo, non fa eccezione, dimostrandosi troppo convenzionale nel raccontare il lavoro di una donna straordinaria, una fotografa immersa per anni in un mondo dominato da uomini armati (da questo punto di vista è stata la più grande della sua epoca, seconda forse soltanto alla spericolata quanto eccezionale Margaret Bourke-White, sulla quale il cinema prima o poi dovrebbe puntare lo sguardo).

Gran parte del film mostra le sequenze in cui, con le libertà narrative del caso, Lee Miller ha scattato le sue immagini più celebri, dalle dipendenti di Vogue con le maschere antincendio alla celeberrima immagine della stessa fotografa intenta a lavarsi nella vasca da bagno di Hitler, dopo la fine della guerra. Sempre chinando il capo verso la sua Rolleiflex, con la quale ha raccontato, oltre agli orrori del mondo, soprattutto donne di qualunque genere, che siano ragazze in un rifugio antiaereo, aviatrici, naziste suicide o bambine spaventate. Saranno questi i frammenti più belli di Lee Miller.

Ellen Kuras è senza dubbio più celebre come direttrice della fotografia che come regista (qui al suo primo film di finzione dopo il documentario The Betrayal, candidato all’Oscar), basti pensare al suo lavoro più importante, Eternal Sunshine of the Spotless Mind, nel quale ha plasmato visivamente le idee di Michel Gondry, contribuendo a consegnare il film alla storia del cinema. Senza dubbio è interessante vedere un’esperta di luci accostarsi al lavoro di una fotografa, che fa della luce il suo inchiostro quotidiano, peccato però che ogni scena proceda con il pilota automatico, sprecando un cast prezioso, costellato da perle come Marion Cotillard e Noemie Merlant, oltre alla protagonista Kate Winslet. Nonostante proceda tutto come ci si aspetti, compresa la galleria delle reali immagini di Lee Miller durante i titoli di coda, è un film pieno di intensità, di carica emotiva, che ha bisogno di far sentire la propria voce. Ma la fatica di Ellen Kuras alla fine non fa altro che rimpolpare la lunga lista di film incentrati sul lavoro di fotoreporter di guerra: da Sotto Tiro a Mille Volte Buona Notte, da Bang Bang Club al recente Civil War (dove la protagonista si chiama, guarda caso, proprio Lee…), solo per citarne alcuni. Per carità, Lee Miller non è peggiore di tanti titoli simili, ma il punto è che non riesce neanche a essere migliore e la domanda che segue è: forse ci stiamo stufando di vedere così tante rappresentazioni della Seconda Guerra Mondiale? Forse sarebbe il caso di mostrarla in maniera diversa (come fatto straordinariamente da La Zona d’Interesse)? Forse il problema di questo film è proprio nell’immaginario che ci mostra, a cui siamo probabilmente assuefatti? Rimugino su questo punto senza conoscere una risposta, certo però di poter aprire un motore di ricerca, sfogliare le immagini di Lee Miller e restare con gli occhi incollati a quelle foto straordinarie. Una reazione che, purtroppo, questo buon film non riesce a regalarci.

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2025-02-12

Capitolo 399: Brutalmente Febbraio

Febbraio è un mese pieno di cose che non mi interessano: Carnevale, San Valentino, il Festival di Sanremo, la gente che odia Sanremo, l’inverno, film che non ho voglia di vedere ma sono candidati agli Oscar e quindi vanno recuperati (ma ancora non l’ho fatto). Dimentico qualcosa? Possibile. Presumibilmente però febbraio sarà anche il mese in cui arriveremo al Capitolo 400, ennesima conferma che anche una nuvola di pioggia ha contorni d’argento.

About a Boy (2002): Uno dei rari casi in cui ho letto il libro (spassoso, di Nick Hornby) prima di vedere il film, che guardai al cinema in un lontano settembre, limbo tra la fine del liceo e l’inizio dell’università. In quest’opera seconda dei fratelli Weitz, Hugh Grant è un ricco scapolo piuttosto superficiale, Nicholas Hoult (all’esordio) è invece il figlio di Toni Collette, depressa madre hippie. Per i casi della vita le esistenze di questi due sconosciuti, l’adulto e il bambino, si incrociano, fino a camminare insieme per un po’, a tal punto da non capire quale dei due sia il boy del titolo. Ci sono momenti esilaranti e, all’incirca, corrispondono tutti a quando è in scena Hugh Grant. Alla simpatia dell’insieme va aggiunta una splendida colonna sonora di Badly Drawn Boy e la bellezza (e bravura) abbacinante di Rachel Weisz. Una nomination agli Oscar per la sceneggiatura, un film sempre bello da rivedere.
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Matt and Mara (2024): L’ultima variazione sul genere mumblecore arriva dal Canada e dallo sguardo del regista Kazik Radwanski, che racconta la storia di due vecchi amici che si ritrovano a New York: lui è uno scrittore di successo, lei è un’insegnante di poesia sposata con un musicista. I due passano del tempo insieme, parlando di qualunque cosa, come nel più classico dei film indie nordamericani, e c’è costantemente la sensazione che stia per succedere qualcosa. La cosa funziona in parte, poiché in questa versione canadese di Past Lives (scherzo, dai) manca sicuramente concretezza, qualcosa in più oltre a una sensazione. Carino, ma dimenticabile. Lo trovate su Mubi.
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Il Diritto di Uccidere (1950): Quasi un lustro prima di Johnny Guitar e Gioventù Bruciata, Nicholas Ray realizza questo melodramma a tinte noir che vede Humphrey Bogart nei panni di uno sceneggiatore di successo, sospettato di omicidio. Il Dix di Bogie è un uomo violento, pieno di lati oscuri, con cui è molto difficile entrare in empatia e il suo rapporto sentimentale con la vicina di casa Gloria Grahame viene spesso messo a dura prova a causa dei suoi attacchi d’ira, che ho trovato decisamente disturbanti. Si tratta del classico bel film nel quale però non sono proprio riuscito a entrare, ho faticato a volerlo seguire e ho rinunciato a farmelo piacere. Non c’è dubbio che si tratti di un’opera notevole, semplicemente non fa troppo per me (un giorno lo rivedrò, non sia mai che la stanchezza di quella sera mi abbia impedito di godermelo appieno!).
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La Mia Notte con Maud (1969): Parlando con un amico cinefilo del cinema di Rohmer (sì, siamo fatti così), sono giunto alla conclusione di dover recuperare questo film, il terzo del regista francese, padre di tutto un filone successivo di film (solitamente identificabile con l’indie statunitense anni 90) incentrato su trentenni pieni di cose da dire e sentimenti da provare. Trintignant incontra una ragazza (Marie-Christine Barrault) e si innamora di lei, senza conoscerla (quanto fa Dams la frase “Quel giorno, lunedì 21 dicembre, mi è venuta l’idea, improvvisa, precisa, definitiva, che Françoise sarebbe stata mia moglie”), al tempo stesso però si ritrova a passare una notte, apparentemente casta, con una divorziata bella e spigliata, ovvero Françoise Fabian. Rohmer riesce, con la semplicità e la leggerezza tipica del cinema francese di quel decennio, ad approfondire un discorso piuttosto complesso come la contrapposizione tra caso e destino e il peso che la libertà di scelta e il libero arbitrio hanno nelle nostre vite (anche se si parla un filo troppo di Pascal e giansenismo). Il film cresce sempre più ogni giorno che passa e questa è una cosa totalmente piacevole. Oscar per il miglior film straniero, lo trovate su Mubi e potreste amarlo.
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Lo Straniero (1946): Terzo film di Orson Welles, che ho trovato su Prime Video. Il nostro stavolta è un gerarca nazista, scomparso senza lasciare traccia e riapparso, sotto mentite spoglie, in Connecticut, dove è sposato con l’ignara figlia di un giudice, con la quale conduce una vita tranquilla. Un investigatore è però sulle sue tracce e riesce, in seguito a un abile stratagemma, a dirigersi nel villaggio dove si trova il suo uomo. Tensione palpabile e un finale strepitoso, un film che Orson Welles ha disconosciuto, ma che io ho trovato bellissimo. La cosa più curiosa però è accaduta quando sono andato a inserire il film sul mio diario di Letterboxd, scoprendo, con immensa sorpresa, che lo avevo già visto nel luglio del 2019 e che gli avevo già assegnato 4 stellette (anche se non ricordo affatto di averlo mai visto, men che mai così pochi anni fa)!
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The Brutalist (2024): I 200 minuti di durata mi hanno impedito di correre al cinema il giorno della sua uscita (della proiezione stampa non ho avuto notizia), così ho dovuto aspettare qualche giorno per avere il fegato e il tempo da dedicargli. L’attenzione che però gli dedichi, il film te la restituisce sottoforma di splendido cinema: è davvero tanta roba. Fino a qualche anno fa il regista, Brady Corbet, si dilettava come interprete in pellicole come Funny Games di Haneke, Melancholia di Von Trier o Forza Maggiore di Ostlund. Il buon Corbet deve aver imparato bene le lezioni a cui ha assistito su quei magnifici set, visto che è riuscito a mettere insieme un film di cui si parlerà ancora per molto tempo. Durante la Seconda Guerra Mondiale, l’architetto ebreo Adrien Brody riesce a fuggire dalla Germania nazista e a raggiungere gli Stati Uniti (che meraviglia registica la scena in cui vede la Statua della Libertà!). Qui, tra tante difficoltà, finisce ad occuparsi di un progetto ambizioso (cerco di mantenermi vago per non rivelare troppo), in attesa di essere raggiunto negli States da sua moglie Felicity Jones. Potete facilmente immaginare che, in oltre 3 ore di film, di cose ne succedono parecchie e, in alcuni momenti, ti sfugge un po’ la chiave di tutto, il senso, ma diciamo che lo capirai nel finale (ah, se lo capirai!). Ci sarebbe tantissimo da dire, è uno di quei film che ti porti appresso fuori dalla sala, che ti si arrampica dentro durante la notte, a cui inevitabilmente ripensi al mattino. Adrien Brody è magnifico (il mio Oscar è per lui, per quel che conta) e quello di Guy Pearce è un piacevolissimo ritorno sulle scene di un film importante. Uno dei migliori film dell’anno.
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2025-01-31

Capitolo 398: Gennaio è Servito

Ridendo e scherzando ci stiamo avvicinando a grandi falcate al capitolo numero 400, un bel numero, soprattutto perché richiama un certo film a cui sono appena appena legato. Ma di questo parleremo a tempo debito, perché oggi c’è davvero tanta carne sulla brace, generi molto diversi tra loro, cinema di ogni tipo. Ad ogni modo è stato un buon inizio, per quanto riguarda il 2025: se anche stasera guarderò un film (e non vedo come ciò non possa succedere), anche quest’anno, così come l’anno scorso, avrò visto 26 film a gennaio. Restiamo in media.

Mississippi Burning (1988): Buonissimo film di Alan Parker (regista di Fuga di Mezzanotte, Pink Floyd The Wall e The Commitments, per citarne alcuni) ispirato ad una storia realmente accaduta. Siamo negli anni 60 e tre giovani attivisti per i diritti civili degli afroamericani spariscono nel nulla dopo essersi recati in una cittadina del Mississippi. L’FBI manda il cazzuto ma ligio alle regole Willem Dafoe e il più anziano, ma ancor più cazzuto, Gene Hackman per indagare su quanto accaduto, scoperchiando un pozzo di odio, razzismo, omertà. C’è un po’ troppo manicheismo, non a caso i personaggi più interessanti sono quelli che presentano zone grigie (lo stesso Hackman e Frances McDormand, bravissima). Bel film, ti fa indignare per bene, ti fa sbattere i pugni e, a tratti, ti gratifica, anche se forse il finale avrebbe avuto bisogno di una scena più memorabile. Ad ogni modo, molto contento di averlo recuperato. Lo trovate su Prime Video.
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Walk The Line (2005): La sera stessa dopo aver visto A Complete Unknown (cliccate sul titolo per leggere la recensione completa) ero talmente in brodo di giuggiole da sentire il bisogno di rivedere per la decima (?) volta il precedente biopic musicale di James Mangold, incentrato su Johnny Cash e sul tormentato corteggiamento di June Carter. Si tratta di un film che amo molto, che ha sicuramente segnato i miei anni universitari, i ricordi più belli (ma qui Johnny Cash ha avuto decisamente il suo peso) e ci sono davvero molto affezionato. Come si fa a non fare il tifo per Joaquin Phoenix, quando chiede ripetutamente a Reese Witherspoon di sposarlo? Come si fa a non emozionarsi quando quei due meravigliosi protagonisti cantano It Ain’t Me Babe di Bob Dylan guardandosi in quegli occhi che sprigionano amore (rendendo ironiche quelle stesse parole che stanno cantando)? Sono talmente legato a questo titolo che ogni parola sarebbe superflua: non posso essere obiettivo. Viva Johnny Cash.
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Signori, il Delitto è Servito (1985): Esordio alla regia di Jonathan Lynn (celebre più che altro per l’esilarante commedia Mio Cugino Vincenzo, del 1992), che insieme a John Landis adatta per il cinema il celebre gioco da tavola Cluedo. Sei persone vengono invitate a cena in un’enorme villa nella campagna del New England. Un omicidio sconvolgerà la serata, con gli avventori che, insieme al maggiordomo Tim Curry, tenteranno di scoprire l’identità del colpevole. Classico whodunit leggero, si ridacchia qua e là, ma galleggia tutto sulla superficie, senza grandi idee registiche o narrative. Va segnalato però un buon cast, con il già citato Tim Curry, oltre a Christopher Lloyd, Madeline Kahn (la ricorderete in Frankenstein Junior) e Michael McKean (il fratello di Jimmy in Better Call Saul!), tra gli altri. Carino ma tra pochi giorni lo avrò già dimenticato.
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Treni Strettamente Sorvegliati (1966): Premio Oscar per il miglior film straniero, un biglietto da visita niente male per questo film cecoslovacco diretto dall’esordiente Jiri Menzel e ambientato quasi esclusivamente all’interno di una stazione ferroviaria di provincia. Durante l’occupazione nazista, un giovane ferroviere cerca di imparare il mestiere e al tempo stesso di dimostrare alla sua ragazza di essere un “vero uomo”. La sua inadeguatezza sessuale lo spinge sull’orlo della depressione, mentre intorno a lui succede un po’ di tutto, almeno fin quando la guerra non irrompe nella quotidianità della stazione. C’è follia e tenerezza, è come se lontani parenti di Wes Anderson e Aki Kaurismaki avessero deciso di fare un film insieme. Bellissimo, lo trovate su Prime Video.
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Bread and Roses (2000): Un film minore di Ken Loach è pur sempre un film di Ken Loach. In questo caso il regista britannico gira per la prima volta negli Stati Uniti, realizzando il tipico film di denuncia sulla precarietà del lavoro e lo sfruttamento capitalista, inserito in questo caso nel contesto dell’immigrazione clandestina. Una ragazza messicana passa la frontiera per raggiungere sua sorella, che vive già da tempo a Los Angeles. Riesce a farsi assumere come addetta alle pulizie in un prestigioso grattacielo, dove però le condizioni di lavoro sono pietose: qui entrerà in gioco il simpatico sindacalista Adrien Brody, che la convincerà a lottare per i suoi diritti. Ciò che vediamo fa talmente tanta rabbia che se si pensa per un momento che tutto questo accade veramente (e 25 anni dopo la situazione è pure peggiorata), puoi davvero cascare malato: per fortuna Loach riesce a ripiegare spesso su qualche spunto da commedia e porta a casa un lavoro più che interessante, magari non uno dei suoi migliori titoli, ma pur sempre un film di Ken Loach al 100%. Lo potete vedere su Mubi.
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The Girl With the Needle (2024): Il candidato danese ai prossimi Oscar, nominato come Miglior Film Internazionale e già in concorso allo scorso Festival di Cannes, è davvero un’opera notevole. Diretto da Magnus Von Horn, è ispirato a un fatto davvero accaduto, ma per il vostro bene eviterò di accennare troppo alla trama. Vi basti sapere che al centro della storia, ambientata nel primo dopoguerra, c’è una giovane operaia, Karoline. Rimasta incinta, la ragazza viene licenziata e, per questo, resta sola al mondo. L’incontro con una donna più anziana, che aiuta giovani madri indigenti a dare una vita migliore ai loro bambini, cambierà le carte in tavola, almeno finché Karoline non decide di saperne di più. Girato in un bianco e nero esteticamente sublime, il film di Van Horn riesce a cambiare direzione ogni dieci minuti, permettendo all’angoscia di insinuarsi sotto la pelle dello spettatore, fino a un climax eccezionale, che lascia senza parole. Un grande film europeo, assolutamente da vedere, nonostante sia davvero angosciante. Ma come diceva il saggio: “Non si può mica campare di sole commedie”. Lo trovate su Mubi (se volete provarlo gratis per un mese, cliccate qui).
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Tootsie (1982): Non avevo mai visto questo film di Sidney Pollack ed è strano, visto che Dustin Hoffman (qui strepitoso) è uno dei miei attori preferiti della sua generazione. Stavolta il nostro Dustin è un attore di talento che, a causa del suo carattere pignolo e piuttosto fastidioso, viene respinto a ogni audizione e per questo non può mai sperare di staccarsi dal lavoro di cameriere, che condivide con il suo coinquilino Bill Murray (che coppia, avrei voluto vederli di più insieme!). Stanco di essere rifiutato, Dustin Hoffman decide di presentarsi a un’audizione per il ruolo di una donna tutta d’un pezzo, nuovo personaggio di una soap di successo. Ottenuta la parte, per l’attore cominciano i veri guai, gli equivoci e, fortunatamente per noi, parecchie risate. Dieci nomination agli Oscar (e solo una statuetta, a Jessica Lange come migliore attrice non protagonista), una commedia sfrontata, bizzarra ma decisamente divertente, moderna, che tende a ridicolizzare la società maschiocentrica (nel 1982!) e dove Bill Murray sembra l’unico personaggio veramente normale (e ho detto tutto): “arrostirai all’inferno per quello che stai facendo”, “io non credo nell’inferno, credo nella disoccupazione”. Bello, mi sono proprio divertito.
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2025-01-22

Capitolo 397: Quella Mezza Dozzina

Lo so, il capitolo precedente l’ho pubblicato appena quattro giorni fa e molti di voi penseranno: “Davvero ti sei visto sei film in quattro giorni?”. Beh, che volete farci, succede, soprattutto a gennaio, quando fuori fa freddo, una brutta tosse ti obbliga a restare al caldo e la domenica ti metti a vedere un film dietro l’altro. Qualche piccola novità: nella home del sito, in basso, ho inserito un bel banner che rimanda al mio account su Letterboxd, il mio social preferito, che ha davvero migliorato tutto ciò che riguarda la condivisione e la scoperta di nuovi titoli. Se non sapete ancora di cosa si tratta, ve ne parlo qui. È stato inoltre annunciato il programma della prossima Berlinale, dove spicca l’ultima fatica di Linklater (Blue Moon, ovviamente con Ethan Hawke) e Mickey 17, attesissimo film di fantascienza di Bong Joon-ho. Per il resto andiamo velocemente ai film di questo capitolo, ché c’è una mezza dozzina di titoli di cui parlarvi.

Emilia Perez (2024): Domani escono le nomination agli Oscar e immagino che questo film straordinario di Audiard ne riceverà parecchie. Rispetto alla prima volta in cui l’ho visto (ottobre scorso) manca ovviamente l’effetto sorpresa, anche perché lo vidi senza sapere assolutamente nulla della trama e questo devo dire che ha funzionato parecchio, visto che parliamo di un film che ha dentro di sé mille film diversi: musical, gangster, dramma sociale, sentimento, famiglia, identità, redenzione. Un’idea quasi grottesca, a pensarci, che nella sua straordinaria messa in scena non perde un solo grammo di credibilità. Inoltre le attrici, Zoe Saldana in primis, sono tutte straordinarie. L’ho amato la prima volta, l’ho amato durante questo rewatch. Uno dei film dell’anno, senza dubbio.
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Quella Sporca Dozzina (1967): Quand’ero bambino passavano spesso in tv questo film, che credo piacesse molto a mio padre, perché lo avrò visto tantissime volte. Lo scorso weekend è nuovamente passato in tv, appena cominciato, ed è stata una bella occasione per ritrovare un film bellissimo, con un ottimo cast (Charles Bronson, John Cassavetes, Donald Sutherland, Ernest Brognine, Lee Marvin, Terry Savalas…) e una storia appassionante: durante la Seconda Guerra Mondiale, un Maggiore dell’esercito statunitense, piuttosto restio alle regole e scomodo per lo Stato Maggiore, è incaricato di mettere insieme una squadra di ergastolani, per addestrarli, abituarli alle regole militari e conquistare una postazione tedesca nella Francia occupata. Ci sono momenti di grande cinema (che tra l’altro hanno ispirato anche Tarantino per Bastardi Senza Gloria, scusate se è poco), ma soprattutto Aldrich ha il merito di aver amalgamato perfettamente il cast, misurando bene ogni scena (e dando il via alla carriera di Sutherland, che inizialmente doveva avere una sola battuta).
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Un’Ottima Annata (2006): Ai tempi dell’uscita in sala (e successivamente) avevo così tanto bisogno di un po’ di freschezza, del sole della Provenza, di Marion Cotillard in bicicletta e di tutti i cliché possibili sulla bellezza della Francia meridionale, da lasciarmi volontariamente sedurre da questo film di Ridley Scott, che vede Russell Crowe, algido broker londinese, ereditare un vigneto in Provenza. Recatosi sul posto per vendere la proprietà, il nostro si innamora di tutto ciò che potete immaginare possa esserci in una cartolina della Provenza. Le scene di Londra, con la pioggia e la fotografia dai toni ghiacciati, sono talmente didascaliche da creare quasi tenerezza. È sempre brutto rivedere un film che hai amato da ragazzo ora che sei un adulto più cinico, meno disposto ad andare in brodo di giuggiole per l’accento francese di Marion Cotillard (per quanto…) o per la lenta vita di campagna. Un buon guilty pleasure, ma del bel film che ricordavo è rimasto ben poco. Sufficienza di stima, per sottolineare quanto sia comunque confortevole addentrarsi in una cartolina da favola.
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My Old Ass (2024): Sono iscritto a una newsletter curata nientepopodimeno che da Nick Hornby il quale, in una delle sue ultime email, parlava molto bene di questo film. Siccome Hornby, quando parla di musica, cinema e letteratura è qualcuno di cui ci si può davvero fidare (anche perché è grazie a lui se è nata questa rubrica e forse lo stesso blog), ho sfidato i miei dubbi e ho guardato l’opera seconda di Megan Park, presentata al Sundance, in cui una diciottenne entra in contatto con se stessa a 39 anni, la quale le intima di non frequentare assolutamente un ragazzo di nome Chad. Che strana cosa da dire a te stessa più giovane, non trovate? La premessa è quindi intrigante, incuriosisce, soprattutto perché il Chad in questione è davvero un pezzo di pane. Non dirò altro se non che lo script è davvero ottimo, ma la regia, la fotografia, il montaggio e, tiè, pure la colonna sonora, sono talmente televisivi, tipo “film da pomeriggio su TV8”, da smorzare ogni entusiasmo sull’efficacia della storia, che è molto bella. Ecco, mi sarebbe piaciuto davvero tanto se un film del genere fosse stato girato da una regista come Charlotte Wells (quella di Aftersun, per intenderci). Ad ogni modo è un film valido, lo trovate su Prime Video e, parola di Nick Hornby, merita una chance.
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Bianca (1984): Girato tre anni dopo Sogni d’oro, nel quarto film di Nanni Moretti è possibile ritrovare i tipici elementi del suo cinema, drammi psicologici, sentimentalismo, il protagonista al centro di ogni scena e, ovviamente, ottime scelte musicali. Il nostro è un professore di matematica ossessionato dalla vita di coppia, che scruta, osserva, idealizza in un idillio di pura felicità, che ovviamente non può corrispondere al vero: è proprio nelle rotture, nelle crepe di questo matematico 1+1 ideale che il suo personaggio va in crisi, mostrando comportamenti e reazioni sempre più eccessive. L’idea di base non mi è dispiaciuta, la messa in scena però lascia talvolta a desiderare e Moretti, sia in passato che in futuro, ci ha mostrato cose molto più belle, girate molto meglio e senza dubbio meno forzate. Però come fai a non amarlo? Ci sono davvero tante scene cult, dalla descrizione delle scarpe delle donne alla foto di Dino Zoff appesa in classe al posto di quella del Presidente Pertini, la lezione su Gino Paoli, Scalo a Grado di Battiato (immancabile!) e l’uso di Insieme a te non ci sto più di Caterina Caselli, che lo stesso Moretti renderà immortale quasi due decenni dopo nella Palma d’Oro La Stanza del Figlio. Sorprendente invece l’utilizzo di In the Middle of All That Trouble Again di Micalizzi, tema portante di Nati con la Camicia con Bud Spencer e Terence Hill, uscito in sala l’anno prima. Al di là della digressione musicale, il film è uno sguardo interessante sul cinema italiano anni 80, Laura Morante è magnifica e Moretti è sempre esilarante, a suo modo. Lo potete vedere su Mubi.
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St Elmo’s Fire (1985): Joel Schumacher ci presenta un normalissimo gruppo di amici degli anni 80, tra cui uno stalker, un alcolizzato, una cocainomane e un repubblicano (ma hanno anche dei difetti!), facendoli passare per i migliori amici che potremmo desiderare, faccia a faccia con la vita dopo l’università, la presa di coscienza di un mondo adulto che non offre più la vita felice e giocosa di un tempo. Insomma, tutti argomenti che mi stanno a cuore e riuscire a rendere piacevole la visione di una serie di personaggi così tossici e negativi è un mezzo miracolo, anche se alcune cose sono davvero troppo eccessive (soprattutto Emilio Estevez, che non solo stalkera Andie MacDowell in maniera inquietante, ma lei ne è pure lusingata!). Una sorta di seguito ideale di Breakfast Club (c’è dentro mezzo cast), con in più qualche droga, risse e alcol. Se si va oltre la tossicità dei personaggi maschili si può godere della nostalgia di un periodo pressoché magico, con in più qualche bel dialogo qua e là (l’amarezza di “I always thought we’d be friends forever, but forever got a lot shorter all of a sudden” o la meravigliosa serietà con cui Judd Nelson urla “No Springsteen is leaving this house!”, mentre la sua ex sceglie alcuni vinili da portare via di casa). Insomma, il film è pieno di cose sbagliate, tanto sbagliate, eppure mi è piaciuto molto (tra l’altro è anche uno dei film preferiti di Amy Adams): che belli gli anni 80 eh? “Non so se ucciderli o innamorarmi di loro”.
•••½

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