#Processi

Era quindi essenziale non destabilizzare i tedeschi appena sconfitti

Le stragi e le uccisioni commesse dai nazifascisti nel comune di Massarosa sono rimaste impunite, come del resto la grande maggioranza di quelle avvenute per mano tedesca e italiana nella penisola durante la Seconda guerra mondiale.
La storia delle indagini e dei processi a carico dei colpevoli – in pratica conclusasi nel gennaio del 1960 con il provvedimento di «archiviazione provvisoria» di tutti gli atti processuali relativi alle stragi – è lunga e complessa, ma è doveroso accennarne almeno le parti salienti.
Le indagini iniziarono già prima della fine della guerra, con il punto di partenza che è possibile far risalire alla dichiarazione di Mosca del 31 ottobre – 1° novembre 1943. Con essa gli Alleati stabilirono che coloro accusati di crimini di guerra sarebbero stati giudicati dai tribunali dei paesi nel quale essi avevano commesso i crimini. Pochi giorni prima era stata istituita una United Nations War Crimes Commission, composta dai rappresentanti di 17 nazioni alleate, e avente il compito di raccogliere documentazione sui crimini di guerra. Iniziò i lavori l’11 gennaio 1944 a Londra <669.
Il caso italiano presentava alcuni problemi particolari, in quanto si trattava di una nazione nemica sconfitta che aveva commesso essa stessa crimini di guerra, ma che adesso si trovava sotto la brutale occupazione del vecchio alleato.
Ciononostante con il decreto ministeriale del 26 febbraio 1945 il governo Bonomi nominava una «Commissione Centrale per l’accertamento delle atrocità commesse dai tedeschi e dai fascisti dopo il 25 luglio 1943», presieduta dal liberale Aldobrando Medici-Tornaquinci, sottosegretario di Stato del ministero dell’Italia Occupata. Nel maggio dello stesso anno la commissione entrò in contatto con le autorità alleate per stabilire una linea di condotta e le fu permesso di visionare i risultati delle indagini anglo-americane, anche se non sarebbero state concesse persone in stato di arresto <670. Per il momento evidentemente pesava ancora lo status di nazione sconfitta.
In agosto gli alleati, dopo la stesura del Report on German Reprisials for Partisan Activity in Italy <671, proposero di celebrare due grandi processi. Il primo relativo alla strage delle Fosse Ardeatine e il secondo che avrebbe visto imputati i comandanti d’armata, di corpo e di divisione per aver organizzato la grande rete di rappresaglie dal giugno al settembre del 1944. Entrambi questi procedimenti sarebbero stati condotti da autorità militari britanniche, mentre a quelle italiane veniva concesso di processare i gradi più bassi. La questione, nascosta dalla motivazione che gli italiani non sarebbero stati in grado di portare avanti processi troppo complessi, era in realtà politica. Se si fosse permesso alle autorità italiane di processare gli alti gradi dell’esercito tedesco, si sarebbe legittimata la richiesta di estradizione di militari italiani accusati di crimini di guerra in paesi quali la Jugoslavia e la Grecia. Questo veniva giudicato inaccettabile dagli Alleati perché avrebbe minato il morale e la fiducia delle FF.AA. italiane, ora cooperanti con quelle alleate <672.
Con l’anno successivo gli Alleati modificarono leggermente la loro linea di condotta e decisero di procedere con un processo per la strage delle Fosse Ardeatine e con uno al singolo feldmaresciallo Kesselring. Quest’ultimo, vista la caratura dell’imputato, avrebbe assunto un ruolo simbolico molto importante, ma un procedimento penale a carico di una decina o più di alti ufficiali della Wehrmacht e delle SS avrebbe avuto un ben altro impatto. Questa decisione segnò una svolta nella politica giudiziaria alleata <673. Kesselring venne processato a Venezia tra il febbraio e il maggio del 1947 e condannato a morte. Nello stesso anno altri processi minori videro condannati il generale Edward Crasemann,
comandante della 26. Panzer-Division (condannato a 10 anni di reclusione) e il generale Max Simon, comandante della 16. SS-Panzergrenadier-Division, «Reichsführer-SS» (condannato a morte) <674. È significativo che sia Kesselring che Simon vennero quasi immediatamente graziati.
Questi furono gli ultimi processi ad alti ufficiali tedeschi portati avanti da corti militari britanniche. Il clima politico era infatti cambiato e la guerra fredda era alle porte. In questo contesto la Germania occidentale assumeva un ruolo molto importante nel nuovo assetto europeo, trovandosi in prima linea di fronte alla nuova minaccia sovietica. Era quindi essenziale non destabilizzare i tedeschi appena sconfitti, sottoponendoli a lunghi e laceranti processi che avrebbero riaperto le ferite di una guerra persa <675.
La palla adesso passava alle autorità italiane, le quali aprirono una stagione di processi durata una quindicina d’anni, ma che vide solamente 13 sentenze. I procedimenti più importanti riguardarono Herbert Keppler e cinque tra ufficiali e sottufficiali per la strage delle Fosse Ardeatine; Jospeph Strauch, responsabile della strage del Padule di Fucecchio, e Walter Reder, imputato per una notevole serie di crimini <676. Questa stagione di processi si concluse in pratica con la sentenza a carico di Reder, pronunziata il 31 ottobre 1951. Fino agli anni ’90 verranno infatti portati avanti soltanto altri due procedimenti – uno del 1952 e uno nel 1962 -, per di più contro imputati latitanti <677.
La parola fine ai processi venne definitivamente pronunciata dal Procuratore Generale Militare Enrico Santacroce con la sua «archiviazione provvisoria» del 14 gennaio 1960. Con questo provvedimento, assolutamente privo di significato giuridico, Santacroce di fatto obliterò quasi 700 fascicoli inerenti a crimini di guerra commessi in Italia. Le motivazioni che portarono il Procuratore Generale a questa decisione furono in buona parte additabili alla «ragion di stato», cioè alla necessità di evitare alla Germania, che in quel periodo di grave tensione internazionale con il blocco orientale stava ricostruendo il suo esercito. Accanto ad essa c’era l’imbarazzo, da parte del governo italiano, di dover da una parte richiedere l’estradizione di cittadini tedeschi, mentre al contempo negare quelle di presunti criminali di guerra italiani avanzate da paesi stranieri quali la Jugoslavia e la Grecia <678. Ulteriori motivazioni possono essere ricondotte al coinvolgimento con il ventennio fascista che avevano avuto vari esponenti di punta nella gestione dell’archiviazione – quali Santacroce stesso -, al reclutamento da parte dei servizi segreti occidentali di alcuni dei vecchi criminali di guerra nazisti e, in ultimo, dalla volontà di non incrinare i rapporti con la Repubblica Federale Tedesca, che si stava dimostrando un ottimo partner commerciale per l’industria italiana in piena ripresa <679.
[NOTE]
669 Relazione di minoranza della Commissione Parlamentare di inchiesta sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti, p. 57.
670 Pezzino, Guerra ai civili, cit., pp. 27-28.
671 In questo rapporto venivano considerati privi di qualsiasi legittimità la cattura indiscriminata di innocenti, l’incendio di paesi e l’uccisione di anziani, donne e bambini.
672 Pezzino, Guerra ai civili, cit., pp. 29-30.
673 Ivi, 32-33.
674 Relazione di minoranza, cit., pp. 137-138.
675 Ivi, p. 138.
676 Ivi, paragrafo 12.
677 Ivi, p. 183.
678 Ivi, p. 423.
679 Ivi, p. 424.
Jonathan Pieri, militari, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2013-2014

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2025-06-24

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All’interno della setta brigatista, iniziarono a manifestarsi i primi veri disaccordi

In seguito al sequestro e alla morte di Moro, le BR continuarono gli attacchi, colpendo funzionari dell’antiterrorismo e continuando la campagna contro il trattamento carcerario dei prigionieri, uccidendo Girolamo Tartaglione, direttore generale degli affari penali del ministero della Giustizia e due agenti di polizia addetti alla sorveglianza esterna del carcere Le Nuove di Torino: Salvatore Lanza e Salvatore Porceddu. Per tutto il 1978 nelle grandi fabbriche del nord Italia, le Brigate Rosse agirono contro le gerarchie e i dirigenti industriali: morirono Pietro Coggiola, capofficina torinese, e Sergio Gori, vicedirettore del Petrolchimico di Marghera (VE); l’omicidio di Gori, il 19 gennaio 1980, fu l’ultima azione delle Brigate Rosse inserita nel contesto di fabbrica. L’uccisione del sindacalista della CGIL Guido Rossa, avvenuta il 24 gennaio 1979, marcò l’inizio di un inesorabile declino delle Brigate Rosse: in quel contesto uscirono dall’organizzazione sette militanti, che confluirono nel Movimento Comunista rivoluzionario. Nel corso dell’estate del ’79, le BR, nel tentativo di far evadere i suoi militanti incarcerati all’Asinara, fecero pervenire all’Esecutivo brigatista un documento di 130 pagine in cui venivano esposte le tesi politiche che avrebbero dovuto indirizzare l’attività dopo il sequestro Moro.
Tra il giugno 1978 e la primavera 1980 venne condotta una campagna contro gli apparati dell’antiterrorismo, durante la quale vennero uccisi 12 militari di vario grado. Nel febbraio del 1980 venne arrestato a Torino Patrizio Peci, uno dei maggiori pentiti dell’organizzazione, che collaborando con le forze dell’ordine facilitò centinaia di arresti in tutta Italia. L’episodio scatenò anche la vendetta per la campagna contro l’antiterrorismo, per cui i carabinieri uccisero quattro brigatisti.
All’interno della setta brigatista, iniziarono a manifestarsi i primi veri disaccordi riguardo al futuro dell’organizzazione e su come procedere con le loro attività: l’Esecutivo brigatista non si trovava d’accordo con le tesi politiche esplicitate nel documento dell’Asinara, per cui vennero richieste le dimissioni dei suoi componenti; i principali dissidi riguardavano la questione operaia e, appunto, il problema della liberazione dei prigionieri. Per via delle contraddizioni interne all’organizzazione, per la prima volta le BR non furono presenti alla reazione della Fiat contro le vertenze operaie, che portò alla cassa integrazione di migliaia di operai e un centinaio di licenziamenti. Diverse colonne, dissentendo con Direzione Strategica, cominciarono ad agire in modo autonomo, e nel 1980 si verificarono le prime separazioni ufficiali. La prima colonna a distaccarsi dalla leadership brigatista fu la “Colonna Walter Alasia” il cui nome era un omaggio a un compagno caduto in azione a Milano: gestendo autonomamente l’omicidio dell’industriale Renato Briano, questa frangia uscì dal controllo politico dell’esecutivo Brigatista, separazione che venne ufficializzata nel dicembre del 1980 <107.
Nonostante questi conflitti interni, i media continuarono a riportare notizie sugli eventi legati alle Brigate Rosse. Nel dicembre 1980, fu ucciso il generale dei Carabinieri Enrico Galvagli, mentre il mese successivo si concluse il sequestro del Magistrato D’Urso in cambio della chiusura delle carceri speciali sull’isola dell’Asinara: fu proprio questa la campagna conclusiva del percorso unitario delle Brigate Rosse, nonostante i successivi tentativi di ripresa. Tuttavia, nell’aprile 1981, l’arresto di Mario Moretti, il leader incontrastato delle Brigate Rosse dal 1976, pose fine alle ultime speranze di un nuovo avvicinamento tra i brigatisti. Tutte le azioni successive, tranne il sequestro e l’assassinio dall’ingegnere Giuseppe Taliercio, direttore del petrolchimico di Mestre, rivendicati dai brigatisti, non furono più attribuite alla famosa sigla BR.
Nel corso degli anni successivi, vennero effettuati tentativi di riconciliazione tra i vari gruppi dissidenti, ma senza risultati significativi. Da quel momento in poi, le Brigate Rosse come un’organizzazione armata unitaria e diffusa su gran parte del territorio nazionale cessarono di esistere, dividendosi in BR-Walter Alasia, BR-Partito Guerriglia e BR-Per la Costruzione del Partito Comunista Combattente, che continuarono autonomamente il percorso di lotta armata.
Nel 1986 iniziò il cosiddetto processo Moro-ter, che pose fine alla storica organizzazione delle Brigate Rosse e portò alla luce molti degli eventi discussi in precedenza.
Nel gennaio del 1987, una serie di “lettere aperte” firmate da diversi militanti segnarono la conclusione dell’esperienza unitaria delle Brigate Rosse. Queste lettere enfatizzarono l’avvio di una nuova fase di lotta, focalizzata sulla risoluzione politica del conflitto degli anni Settanta, sulla liberazione di tutti i prigionieri detenuti a seguito delle azioni delle BR, e sulla facilitazione del ritorno degli esuli nel contesto sociale e politico italiano. Questo momento rappresentò una svolta significativa nella storia delle Brigate Rosse, poiché segnò la fine ufficiale dell’organizzazione e il passaggio a iniziative volte a raggiungere obiettivi politici attraverso mezzi pacifici <108.
[NOTE]
107 Bartali R., 2004, “L’inizio della fine: le BR dal 1978 al 1987”, http://www.robertobartali.it/cap07.htm
108 Bartali R., 2004, “L’inizio della fine: le BR dal 1978 al 1987”, http://www.robertobartali.it/cap07.htm
Lidia Puppa, La violenza politica degli anni di piombo: un confronto tra terrorismo rosso e terrorismo nero, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno accademico 2022-2023

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Andrea Lazzarottolazza
2025-05-22

Un condivisibile editoriale, non firmato, dalla redazione di Forensics Group:

"La non è un reality show: è un processo complesso, che richiede tempo, prove e rispetto per le persone coinvolte."

forensicsgroup.eu/2025/05/gius

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