#Aprile

La tempestiva azione del Gruppo Marina consentì di salvaguardare molte delle opere della Marina

La Marina fu anche protagonista nella liberazione di Venezia. Il 28 aprile il Gruppo Marina, che faceva capo al contrammiraglio Franco Zannoni, appartenente al Comitato Centrale Militare, alle dipendenze del C.L.N., entrò in azione sin dall’alba in concorso con le squadre dei gruppi dei partiti inquadrate per sestiere, riunite sotto il comando del capitano di corvetta Carlo Zanchi. Furono occupate le caserme San Daniele e Sanguinetti, l’ex comando della Marina Repubblicana, vari uffici distaccati, il circolo ufficiali, i Cantieri A.C.N.I.L. e Celli, il Magazzino viveri di San Biagio. Il Gruppo attaccò a mano armata l’Arsenale, disperdendo con il fuoco delle armi gli ultimi residui centri di resistenza del forte reparto della Marina tedesca che aveva protetto la fuga del comando tedesco dell’Arsenale. Fu lanciato un ultimatum che prevedeva che i tedeschi lasciassero l’Arsenale entro le 16, senza attuare il piano distruttivo previsto e senza far saltare la polveriera della Certosa. Poco prima dell’ora di scadenza fu alzata la bandiera nazionale sui pennoni delle torri e il capitano di vascello Rosario Viola, per delega del C.L.N., assunse il comando temporaneo dell’Arsenale, nominando il colonnello delle Armi Navali Alberto Gerundo direttore di Marinarmi e il tenente colonnello del Genio Navale Alfio Denaro, direttore di Maricost. La tempestiva azione del Gruppo Marina consentì di salvaguardare molte delle opere della Marina; l’Arsenale, in particolare i macchinari e i bacini, aveva già subito notevoli danni a opera dei tedeschi. Gli oltre trecento uomini della X MAS, con i loro ufficiali e l’armamento al completo, si asserragliarono nella caserma Sant’Elena; dovettero essere condotte lunghe trattative poiché essi richiedevano salvacondotti che li mettessero al sicuro dall’azione dei partigiani; cosa che il C.L.N. non voleva dare. Fu necessario un ultimatum dato il 29 per arrivare alla resa, che si svolse il 30, in concomitanza con l’arrivo dei reparti dell’Esercito regolare, dei commando alleati e degli NP della Marina. Grazie all’arrivo dei commando il Gruppo Marina di Lido poté procedere all’occupazione delle principali batterie, che fino ad allora avevano minacciato di aprire il fuoco sulla città, al disarmo del personale della Difesa e alla cattura dei numerosi mezzi della Marina Repubblicana, compresa una motosilurante.
Giuliano Manzari, La partecipazione della Marina alla guerra di liberazione (1943-1945) in Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, Periodico trimestrale, Anno XXIX, 2015, Editore Ministero della Difesa

L’ultima fase dell’azione partigiana a Venezia si intensificò nel mese di aprile del 1945, dopo che il 10 aprile le forze alleate avevano attaccato la Linea Gotica. A Venezia, ancora una volta, si ripresenta una situazione unica per gli spazi e le modalità con cui si svolse l’Insurrezione. L’obiettivo comune era quello di preservare la città nel suo complesso, nel suo patrimonio storico e artistico, nel suo patrimonio archivistico legato alle amministrazioni e ai ministeri fascisti, nel patrimonio industriale di Porto Marghera <230. L’andamento iniziale dell’insurrezione fu quindi lento, parziale, anche per timore delle rappresaglie e dell’isolamento di cui Venezia godeva rispetto al fronte militare di terra. In seguito, tra il 25 e 26 aprile, il moto insurrezionale si fece più forte, grazie ad un più convinto intervento della popolazione locale. Ancora fondamentale fu la rivolta dei detenuti che si tenne nel carcere di Santa Maria Maggiore il 26 aprile del 1945, e le insurrezioni operaie che si ebbero in molte fabbriche di Marghera. Nella notte del 27 aprile i volontari dei GAP e delle brigate cittadine riuscirono ad occupare la caserma di San Zaccaria <231. Solo agli inizi di maggio furono isolate e sconfitte le ultime cellule di fascisti che ancora presidiano i punti strategici o le caserme, come accadde con la X MAS a Sant’Elena <232, l’8 maggio del 1945. In questo clima avvenne quindi la mediazione con le forze tedesche grazie alla partecipazione, come mediatore, del patriarca Piazza, che non era mai stato vicino alla resistenza <233. L’intervento del patriarca come responsabile delle trattative fu promosso, oltre che per salvaguardare la città e i cittadini, anche per interessi politici di arginamento delle forze partigiane più a sinistra. Questo episodio fece discutere molti aderenti alla resistenza già all’epoca <234. Il 28 aprile, in Piazza San Marco, mentre le truppe alleate entravano in città, una grande manifestazione fece sventolare nel cielo il tricolore. Venezia era libera, la guerra era terminata.
[NOTE]
230 ERNESTO BRUNETTA, La lotta armata: spontaneità e organizzazione, in GIANNANTONIO PALADINI, MAURIZIO REBERSCHAK, GIUSEPPE TATTARA (a cura di), La Resistenza nel Veneziano, Università di Venezia, Istituto Veneto per la Storia della Resistenza, Venezia, 1985, p. 437.
231 Ivi, p. 439.
232 Ivi, p. 438.
233 MAURIZIO REBERSCHAK, I cattolici veneti tra fascismo e antifascismo, in EMILIO FRANZINA (a cura di), Movimento cattolico e sviluppo capitalistico, atti della giornata di studi (Venezia, 1974), Marsilio, Venezia, Padova, 1974
234 GIULIO BOBBO, La lotta resistenziale a Venezia, in GIULIA ALBANESE, MARCO BORGHI (a cura di) Memoria resistente: la lotta partigiana a Venezia e provincia nel ricordo dei protagonisti, Istituto veneziano per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea, Nuova Dimensione, Venezia, Portogruaro, 2005, p. 234
Francesco Donola, Armando Pizzinato: pittore partigiano, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2022-2023

In quasi tutte le parrocchie, comunque, si verificarono scontri armati, più o meno accaniti, tra le parti: «I tedeschi parevano furie scatenate; sparavano in tutte le direzioni; si temeva quasi una rappresaglia»; a Noale, però, la nutrita sparatoria ingaggiata dai fuggitivi, col timore di un’imboscata, non ebbe risposta e «fu assicurato alle staffette tedesche libero il passaggio e così il paese non ebbe a soffrire alcun danno per la ritirata» <492. A quanto riportato dalle cronistorie, comunque, furono scongiurati tragici spargimenti di sangue e, all’arrivo degli alleati, il 30 aprile, il bilancio era di qualche caduto, in entrambi gli schieramenti, e qualche prigioniero tedesco arresosi. Fortunatamente, l’unico episodio di “rappresaglia” nei confronti della popolazione, si risolse, a Peseggia [frazione del comune di Scorzè, in provincia di Venezia], da parte di alcune SS, nell’atto di chiudere a chiave nel campanile, un gruppo di ostaggi. Nulla di paragonabile alle decine di vittime che, con il proprio corpo, protessero la ritirata nazifascista lungo quel tristemente famoso percorso, rievocato da Egidio Ceccato in “Il sangue e la memoria” <493. A differenza di quanto accadde in alcune parrocchie in corrispondenza di altri eventi significativi, quali, ad esempio, la caduta di Mussolini, questa volta, i curati non poterono esimersi dal celebrare con «festoso scampanio» <494 l’avvenuta liberazione, facendo da sfondo allo sventolio di bandiere e fazzoletti con il quale la popolazione dava sfogo al proprio entusiasmo.
[…] I contenuti di un volantino del C.L.N., rinvenuto fra gli incartamenti della prefettura repubblicana veneziana per l’anno 1945, fanno presagire il subitaneo riaffiorare delle contrapposizioni ideologiche in concomitanza con il volgere al termine della parentesi resistenziale e, di conseguenza di quella che fu, senza giri di parole, rassegnata convivenza e forzata collaborazione; i «corvi neri» “che un giorno si sono inchinati al fascismo e ne hanno incensato i capi e le loro opere tentano ora di spacciare la falsa moneta del loro patriottismo per usare della vostra opera e del vostro sacrificio […]. Stanno ancora col piede sui due piatti della bilancia, pronti ad abbandonarvi e negare se il vento dovesse cambiare direzione. Lavorano nel silenzio e nel mistero per non rilevare ora la loro identità. […] continuano la loro trama diretti da un papa già fascista, ora filo-inglese, domani ancora fascista se gli avvenimenti e l’interesse dovesse consigliarli [sic] di mutare bandiera”. All’esortazione «Diffidate dei preti!», seguivano i capisaldi della polemica anticlericale, ossia le accuse rivolte al clero di tenere i fedeli lontani dalla cultura «in stato di ignoranza, di inferiorità, perché non scopriate le loro menzogne per dominarvi con l’oscurantismo e la paura. […] Siate uomini e non schiavi della sottana nera» [27 gennaio 1945] <498.
[NOTE]
498 ACS, cit., cat. K42, b. 50, fasc. 92, «Venezia. Attività del clero».
492 Don E. Neso, Cronaca relativa alla parrocchia di Noale. Dicembre 1943-Giugno 1945, op. cit., p. 3.
493 E. Ceccato, Il sangue e la memoria, op. cit.
Daiana Menti, Il clero del Miranese dall’inizio del Novecento alla seconda guerra mondiale nelle sue relazioni con le pubbliche autorità, Tesi di Laurea, Università Ca’ Foscari Venezia, Anno Accademico 2012-2013

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Il vescovo di Triste e la strage tedesca di Opicina

La rappresaglia messa in atto il 3 aprile fu effettuata il giorno successivo all’attentato del pomeriggio del 2 aprile. La lista dei destinati alla fucilazione doveva quindi essere già pronta nella notte tra il 2 e il 3 aprile visto che all’alba del 3 fu fatto, in carcere, l’appello dei condannati.
Tra le poche informazioni raccolte attorno alla fucilazione interessante è la reazione del Vescovo di Trieste Antonio Santin. Avuta notizia della condanna a morte degli ostaggi per l’attentato al cinema di Opicina, il vescovo, alle 5 del mattino, tentò di raggiunge l’altopiano in macchina, sperando di arrivare prima dell’esecuzione. Arrivato a Opicina si fece guidare dal parroco don Andrea Zini sino al poligono di tiro. Giunse, però, troppo tardi, quando la condanna era già stata eseguita e i cadaveri erano stati già portati via dal luogo dell’eccidio. <93 Tra le carte dell’Archivio della Diocesi di Trieste è stato ritrovato un fascicolo su Opicina <94 che ci può aiutare a fare chiarezza su quali furono le reazioni da parte degli organi ufficiali tedeschi e italiani all’attentato. Il 4 aprile l’Ortskommandantur <95 di Villa Opicina emise il seguente comunicato alla popolazione della frazione triestina: “Per ordine delle autorità militari tedesche, la popolazione di Opicina deve fare luce entro 8 giorni sull’attentato. Tutte le indicazioni devono essere presentate per iscritto o personalmente alla Ortskommandantur. E’ assicurata la più totale discrezione da parte delle autorità militari tedesche. E’ nell’interesse della stessa popolazione contribuire all’accertamento del colpevole. Il termine è fissato per il 12.4.44. Il presente ordine dovrà essere comunicato immediatamente attraverso le autorità Comunali (Consiglio Comunale) e le autorità religiose”. <96
L’ordine delle autorità militari di Opicina era chiaro, ma tardivo rispetto alla punizione dell’attentato. La reazione del vescovo Santin non si fece certo attendere: egli scrisse subito una lettera all’Ortskommandantur di Opicina, una al Comando della Wehrmacht nell’OZAK ed infine una terza al Podestà Cesare Pagnini. “Prego cortesemente codesto Ortskommandantur di disporre che l’ordine dato alla popolazione per le ricerche intorno all’attentato nel cinematografo sia comunicato in altro modo non potendo codesto parroco eseguire personalmente quanto viene disposto sulla lettera di questi (lettera del 4 aprile 44). La ragione è la seguente. Fino ad oggi nella nostra regione furono uccisi ben tredici
sacerdoti, ed anche recentemente i partigiani hanno portato via un parroco. Essi sono continuamente minacciati di morte. Sono diligentemente controllati in tutto quello che fanno e dicono, e tutto ciò che sembrare ostile a loro è motivo per decidere della loro sorte. Quanto viene chiesto al vecchio parroco di Opicina sarebbe interpretato certamente in questo senso e ne potrebbe andare della sua vita. Ecco perché io stesso ho disposto che in Chiesa non avvenga la chiesta pubblicazione” <97. La paura del vescovo di non compromettere il suo parroco non era giustificata, in quanto il vecchio don Zini era ben voluto dalla popolazione locale. È chiaro che si tratta di un tentativo di evitare di compromettere l’autorità religiosa, facendosi da tramite tra la popolazione e le autorità tedesche in questo particolare momento di violenza. Le parole scritte per il Comando della Wehrmacht sembrano più interessate alle sorti della popolazione di Opicina: “[…] Come vescovo della Diocesi, mentre deploro nel modo più deciso il proditorio attentato di Villa Opicina, non posso non esprimere il mio dolore per l’uccisione di tanti miei diocesani che certamente, se erano in carcere, non avevano commesso il fatto. Tanto più viva è la mia sofferenza in quanto, come promesso, non fu accordata loro l’assistenza religiosa, diritto sacro del quale nessuno può essere privato. La popolazione fu invitata a fornire indicazioni sopra gli autori dell’attentato, minacciando severe misure militari se entro 8 giorni non fosse fatta luce sullo stesso. Pesa così su quella povera gente un incubo proprio durante questi giorni santi. E siccome gli autori si saranno
probabilmente eclissati, e, sia la mancata conoscenza degli stessi, sia il terrore largamente diffuso dai partigiani, impediranno che vi siano rivelazioni di qualche importanza, così si teme il peggio per la povera popolazione. […] io chiedo vivamente a codesto Comando di voler desistere da simili misure. La punizione già data è tale, che ulteriori provvedimenti, salvo che non si raggiungano i veri autori, desterebbero oltre che immensa pena anche l’indignazione di tutta la regione” <98.
La popolazione aveva già subito una punizione dura ed esemplare, non si doveva andare oltre. Il vescovo chiude la lettera con un’ultima analisi dei fatti accaduti: “E’ solo la giustizia che viene accettata da ognuno, comunque egli senta, e placa gli animi; ed è essa il segno chiaro della grandezza di un popolo. Il terrore, anche come reazione, ottiene solo effetti molto effimeri e spinge ancor di più gli animi alla disperazione e quindi verso la zona della violenza”. <99
Santin vuole cercare di bloccare un’escalation di violenza all’interno della zona cittadina, per evitare gli orrori che ben conosce nel resto del territorio della sua Diocesi (vedi l’Istria soprattutto). Sullo stesso tono la lettera al podestà: «non posso non deplorare una reazione che colpisce un tale numero di innocenti di quel delitto. Tali sistemi introdotti non so come e non so da chi negli usi di questa guerra gettano una luce ben fusca sopra la nostra generazione». <100 Quali dovessero essere le severe misure militari nei riguardi della borgata nessuno lo sapeva con precisione, si temeva la distruzione delle case e la deportazione in Germania, stessa sorte accaduta ai paesi di Comeno e Rifembergo qualche mese prima (fatti ben conosciuti da Santin). Alla richiesta di un intervento deciso presso le autorità tedesche per impedire ulteriori violenze, rispose il podestà alla vigilia del termine dell’ultimatum: “Ho fatto quanto stava in me per evitare ulteriori dolori alla gente di Poggioreale del Carso. Ho scritto una lettera al Comandante di Brigata delle SS barone von Malsen-Pockau esprimendo che le rappresaglie si fermassero alle 70 fucilazioni e dicendomi convinto che il rispetto alle leggi e agli ordini delle superiori Autorità troverà sempre conferma in questa zona e che un atto di clemenza potrà avere gli stessi o migliori risultati di un atti di repressione sulla popolazione, poiché ritengo che il pericolo sia esterno e che queste popolazioni debbano essere considerate vittime e non complici degli atti di terrore”.
[…] Scaduto l’ultimatum tedesco non ci furono altre rappresaglie nella borgata di Opicina anche se, come conferma il 21 aprile il Prefetto di Trieste in un comunicato al Ministero degli Interni della Repubblica di Salò, i colpevoli non furono individuati: “Si comunica [che] le locali autorità germaniche, in seguito all’attentato terroristico compiuto nel cinematografo di Poggioreale del Carso che provocava la morte di alcuni militari germanici, ha proceduto, per rappresaglia, all’esecuzione di 70 banditi comunisti, già detenuti. I responsabili dell’attentato finora non risulta siano stati identificati. Inoltre il Supremo Commissario per la Zona d’Operazioni Litorale Adriatico, con ordinanza del 2 corr., ha ordinato lo “stato di guerra” per la frazione di Poggioreale del Carso” <104.
Due giorni dopo però, un’altra esplosione sconvolse la città di Trieste e i suoi cittadini.
[NOTE]
93 G. Botteri, Antonio Santin Trieste 1943-45, Udine 1963, p. 41. Si tratta del giorno 4 aprile sicuramente.
94 ADTS, fasc. 317/1944 Opicina.
95 L’Ortskommandantur era il Comando di presidio locale della Wehrmacht.
96 ivi, Ortskommandantur Villa Opicina den, 4. April 1944.
97 ivi, minuta della lettera del vescovo Santin indirizzata alla Ortskommandantur di Opicina, del 4 aprile 1944.
98 ivi, minuta della lettera del vescovo Santin indirizzata al Comando della Wehrmacht della Zona d’operazione Litorale Adriatico, del 5 aprile 1944.
99 ivi.
100 ivi, minuta della lettera del vescovo Santin al Podestà di Trieste, del 5 aprile 1944.
104 ARS, AS 1829, dok. 1016. Per «stato di guerra» si intendeva una situazione di controllo totale della borgata e sui suoi cittadini. Una situazione che poteva portare ad arresti preventivi indiscriminati, alla requisizione di intere zone ritenute importanti ai fini della difesa delle forze di occupazione. Secondo il racconto del Prefetto Coceani, fu grazie al suo intervento presso il Comandante di Brigata, il barone von Mahlzen (comandante della Polizia per la Provincia di Trieste) che furono scongiurate altre rappresaglie nella frazione. Cfr: B. Coceani, Mussolini, Hitler, Tito cit., p.116
Giorgio Liuzzi, La politica di repressione tedesca nel Litorale Adriatico (1943-1945), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Pisa, 2004

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Le pattuglie tedesche ispezionavano ogni angolo della capitale

“Attorno a questo lavorio c’era il consenso, anzi la complicità della popolazione: oneste famigliole borghesi, umili case operaie, ospitavano, sfamavano chi era costretto ogni notte a cambiar domicilio, tenevano in serbo carte pericolose; impiegati, funzionari fornivano informazioni, tessere, bolli, documenti falsi; fornai facevano il pane per gruppi di patrioti, trattorie sfamavano celatamente gente braccata, chirurghi aprivan la pancia a malati immaginari, monacelle di clausura accoglievano ebrei e renitenti alla leva, sacerdoti trasmettevano messaggi segreti in confessionale. […]. Ci accomunava l’attesa per tutti uguale, l’angoscia per tutti uguale di un male vicino, nostro o di persone care, la speranza ferma contro quel limite, il giorno della liberazione; al di là del quale non ci raffigurava nulla, solo una gran luce entro cui tutto sarebbe stato facile, il pensare, l’operare, il lasciare passare gli anni” <72.
Borghesi, studenti, donne cercarono in ogni modo di contribuire con gesti di ribellione verso gli invasori e di solidarietà verso gli oppressi, correndo enormi rischi per la propria incolumità e per quella dei propri familiari. Le pattuglie tedesche ispezionavano ogni angolo della capitale, si trovavano a pochi metri l’una dalle altre, con fucili spianati e camionette pronte a caricare gli oppositori, come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, e come ci è stato raccontato dai protagonisti di quegli anni drammatici. Il coprifuoco fu istituito alle ore 17, le retate divennero più frequenti, così come le ruberie: eppure, clandestinamente, la rete di aiuto divenne sempre più fitta. Si cercava di procurare una maggiore quantità di materie prime, come ad esempio ortaggi o animali, per sfamare i fuggitivi, i ripostigli delle case vennero dotati di nascondigli improvvisati. Frequente divenne l’uso della loro carta annonaria <73, di cui i clandestini erano ovviamente privi, per poter prendere razioni di cibo da condividere con loro: esibendo questo documento nominale era possibile rivolgersi a venditori autorizzati e acquistare prodotti alimentari. I fuggiaschi iniziarono ad affluire in numero sempre più considerevole anche dalle campagne, in primis da quelle abruzzesi e ciociare. La situazione divenne ancora più critica: non c’erano più ferrovie, ed erano saltate tutte le linee di comunicazione, gas e luce, le riserve di cibo erano sempre più scarse e i prezzi degli alimenti era salito in maniera esorbitante, soprattutto pane, pasta, farina e olio. Nessuno pensava di fare qualcosa di speciale, tutti si rimboccavano le mani per rendere meno arduo il sopravvivere quotidiano, come abbiamo visto. Portare medicine ai feriti, ospitare fuggiaschi, ricercati ed ebrei, condividere cibo: ciascuno nel proprio (grande) piccolo, trascorse i mesi dell’occupazione attuando una forma di resistenza, armata e non. La Roma di quei mesi è stata sempre più spesso descritta con tre parole: fame, freddo, paura.
Fame, problema quotidiano a cui cercavano di provvedere le donne, spesso iniziando una fila interminabile all’alba, per poter almeno comprare le razioni di cibo utili a sfamare la propria famiglia. e quante volte, all’arrivo del proprio turno, i forni si scoprivano vuoti: nacquero da questa situazione gli assalti, con immediate fucilazioni per le donne che se ne erano rese protagoniste. Il freddo accompagnò tutto il periodo dell’occupazione, senza contare che i continui furti dei tedeschi negavano alla popolazione non solo di poter sfruttare le proprie risorse alimentari, ma anche l’uso di stufette e beni di prima necessità, per sopravvivere alle intemperie. Paura. Ma su questo non credo sia necessario spendere parole per spiegarne il perché.
[…] Dopo 272 giorni di sofferenze, violenze e privazioni, il 4 giugno 1944 Roma venne liberata dagli Alleati. Ma, nel mese di maggio, visse forse la fase più drammatica della sua occupazione: i tedeschi intensificarono i controlli e i divieti divennero più stringenti, con l’obiettivo di intimorire le bande partigiane, mettendole nella condizione di rinunciare a qualsiasi rappresaglia, evitando così l’insurrezione. Così non fu, Roma continuò a essere divisa in zone controllate militarmente da gruppi del Cnl. Coordinati fino a quel momento da una giunta con a capo Giorgio Amendola, Sandro Pertini e Riccardo Bauer e organizzati con radio, staffette e pattuglie, i partigiani compirono vere e proprie azioni militari per reagire all’occupazione. In quei giorni di maggio tutti questi gruppi vennero posti sotto il comando del capitano Roberto Bencivenga, in contatto con i comandi alleati che fornivano armi e organizzavano azioni di disturbo alle colonne tedesche, sabotaggi ai mezzi e alle linee di trasporto e alle vie di comunicazione più usate: strade e telefoni in primis. Inoltre, divenne più attiva la partecipazione della popolazione, turbata dall’eccidio delle Fosse Ardeatine, dopo la deportazione degli ebrei nell’ottobre precedente.
Nel frattempo, gli eserciti alleati si avvicinarono a Roma, dopo aver rotto la linea Gustav, un sistema di fortificazioni eretto dai tedeschi verso il fronte abruzzese, e aver superato le montagne di Gaeta e Terracina. Anzio e la Casilina furono le prime zone in cui giunsero e immediatamente partì l’ordine del generale Albert Kesselring di battere in ritirata, per attirare gli Alleati lungo la linea gotica (il sistema di fortificazioni costruito nella parte settentrionale della penisola), e cercando nel frattempo di limitare le perdite tra i propri uomini. Il 27 maggio iniziò la ritirata, con i tedeschi che comunque difesero le vie di Roma, per consentire a tutti i militari di attraversare la città e dirigersi verso nord. Sulla Casilina si ebbe lo scontro più duro, con i tedeschi che resistettero per cinque giorni, salvo poi dover cedere agli attacchi degli angloamericani, che si aprirono così la strada per Roma il 1° giugno. Strada che, come abbiamo visto, era ormai priva delle principali linee di comunicazione: si chiese quindi ai romani di fare uno sforzo per cercare di rendere praticabili i pochi impianti non andati distrutti. Squadre armate di cittadini risposero all’appello mettendosi a lavoro: la collaborazione con gli Alleati divenne sempre più simbiotica.
Il 3 giugno i tedeschi abbandonarono definitivamente la capitale; il pomeriggio del 4, la Quinta divisione dell’esercito americano, guidata dal generale Mark Clarck entrò a Roma attraverso le strade provenienti da sud. Ma i tedeschi, prima di abbandonare definitivamente la città, compirono un’ultima strage, l’eccidio de la Storta, una località sulla via Cassia, in cui vennero trucidati gli ultimi prigionieri di via Tasso: 14 persone, 12 italiani, un inglese e un polacco, tra cui sindacalisti, partigiani ed ex ufficiali. Roma comunque era ufficialmente di nuovo libera: gli angloamericani furono accolti con giubilo, mentre Ivanoe Bonomi venne convocato in Campidoglio e nominato nuovo Presidente del Consiglio, a seguito di un incontro con i rappresentanti delle Nazioni Unite. Persone di ogni fede e partito si recarono sotto la finestra di papa Pio XII in piazza San Pietro, inneggiando al suo nome e ringraziandolo per quanto fatto nei lunghi mesi di occupazione. Il re Vittorio Emanuele III mantenne fede ai patti stipulati nei mesi precedenti con la corrente antifascista, ritirandosi a vita privata: la questione monarchica venne rimandata al dopoguerra, nel frattempo il figlio Umberto ottenne la luogotenenza.
Pochi mesi dopo i fatti raccontati, si procedette all’apertura delle cave sull’Ardeatina, e a una prima identificazione dei cadaveri sepolti nella fossa comune. Un’immagine che rimanda a ciò che era a quel punto Roma: libera dagli occupanti, ma non dai propri fantasmi. E con un futuro da (ri)costruire con una parola d’ordine: libertà.
[NOTE]
72 Monelli, Roma 1943, cit., p. 339.
73 Ribattezzata dai romani come “tessera della fame”.
Cristiana Di Cocco, L’occupazione tedesca di Roma. Il diario di Giulio Di Legge, Roma TrePress, 2023

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Notizie importanti ce le dà Radio Bari

Con l’avvenuto riconoscimento della delegazione ciellenistica di Lugano Mc Caffery aveva così perentoriamente chiesto a Pizzoni l’esautorazione di A.G. Damiani e la nomina di un suo sostituto per la parte militare. Per la persona da destinare a tale incarico l’inglese aveva fatto esplicitamente il nome di Stucchi, conosciuto in occasione della recente missione. Discussa la questione in sede di Clnai, in assenza di Parri, i delegati dei partiti si erano accordati per interpellare “Federici” tramite Giorgio Marzola, “Olivieri”. D’altra parte, sulla nomina di Stucchi si erano pronunciate positivamente varie forze politiche, che l’avevano usata come mezzo per indebolire i comunisti e per riservare ai socialisti, nel dopoguerra, un ruolo di mediatori. L’allontanamento di Stucchi era poi consigliato anche da ragioni di prudenza: egli era stato in contatto con molti degli arrestati di via Andreani e di via Borgonuovo, ma soprattutto con Galileo Vercesi, espondente per i democristiani del Cm. Egli era di fatto schedato, se è vero che Antonio Gambacorti Passerini, già all’inizio dell’anno [1944], da San Vittore, dov’era recluso, aveva fatto pervenire alla moglie Nina un biglietto clandestino diretto all’amico: “Di’ a Gibi di andarsene subito” <636. Stucchi sarebbe venuto a sapere solo dopo la fine della guerra che, durante gli interrogatori, la polizia carceraria chiedeva ai detenuti se lo conoscevano. Fu così che, passate le consegne a Guido Mosna, suo sostituto nel Cmai, e abbandonata la “grigia e travagliata vita di Milano” <637, egli sarebbe partito il 23 aprile alla volta della Svizzera.
Dai nuovi colpi inferti alla Resistenza alla costituzione del Cvl
Nel frattempo, al di là dell’affaire Damiani, che sarebbe durato più di un mese, la situazione politica del Paese era giunta a un punto di svolta. Ivanoe Bonomi, presidente del Cln centrale, dimessosi il precedente 24 marzo 1944 a causa di contrasti sorti tra i partiti di sinistra e quelli di destra, il 7 aprile aveva annotato sul suo Diario: “Quel voto [del Congresso di Bari, nda] aveva avuto un effetto notevole. Aveva collocato Badoglio in un cul di sacco. Egli non poteva fare un vero e proprio Gabinetto politico per il rifiuto dei partiti antifascisti a parteciparvi. Non poteva né avanzare, né ritirarsi. In tale situazione è giunto miracolosamente da plaghe lontane un cavaliere portentoso, un Lohengrin redivivo, che si è accostato a Badoglio e lo ha tratto in salvo. Il cavaliere è venuto dalla Russia ed è Palmiro Togliatti (alias Ercoli) […] Il pensiero di Togliatti è semplice, rettilineo, convincente […] La mossa di Togliatti ha avuto effetti risolutivi. Se i comunisti vanno con Badoglio, come possono restare in disparte i liberali di Croce, i democristiani di Rodinò e così, via via, tutti gli altri?” <638
Il 27 marzo, infatti, quasi contestualmente, il leader del Pci, Palmiro Togliatti, nome di battaglia “Ercoli”, partito dalla Russia e transitato per Il Cairo e per Algeri, era giunto in Italia dove aveva dato, con la famosa “svolta di Salerno”, un nuovo indirizzo all’atteggiamento del suo partito verso il governo Badoglio e la monarchia. Togliatti aveva proposto la più ampia collaborazione di tutte le forze politiche, compreso il re, la cui sorte sarebbe stata discussa alla fine del conflitto. Alla costituzione di un nuovo governo democratico di guerra e di unità nazionale, il Pci aveva posto tre condizioni: la prima, che non si rompesse l’unità delle forze democratiche e liberali antifasciste, ma che, anzi, questa unità si estendesse e si rafforzasse; la seconda, che al popolo italiano venisse garantita, nel modo più solenne, a liberazione avvenuta, un’Assemblea nazionale costituente; la terza, che il nuovo governo democratico si formasse sulla base di un preciso programma di guerra per lo schiacciamento degli invasori e per la liquidazione del fascismo. Con estremo realismo Togliatti aveva parlato davanti ai militanti comunisti della Federazione di Napoli: “A queste condizioni siamo disposti a ignorare tutti gli altri problemi o a rinviarli; sulla base di queste condizioni ci sembra che possa essere realizzata la più ampia unità di forze nazionali per la guerra […] <639. Queste indicazioni, legate al riconoscimento del nuovo governo da parte della Russia, avevano spiazzato del tutto i partiti ciellenistici. L’8 aprile Bonomi riportava tra i suoi appunti le “doglianze e le critiche” provocate dalla svolta nel mondo politico, paragonandole a quelle che avevano “formato la sostanza dei dibattiti” <640 e che lo avevano costretto, due settimane prima, a dare le dimissioni dal Comitato di Liberazione. Annotava: “Se durante quei dibattiti io avessi proposto ciò che Togliatti ha fatto accettare […] io sarei stato cacciato dal mio posto. Proprio vero che in politica i fatti sono quelli che si incaricano di far giustizia delle passioni del momento” <641.
L’area degli antifascisti cattolici aveva accolto invece le proposte di “Ercoli” in modo positivo. Aveva scritto il giornalista Carlo Trabucco alla data dell’11 aprile: “Notizie importanti ce le dà Radio Bari. Infatti le dichiarazioni dell’esponente massimo del Comunismo in Italia, Palmiro Togliatti, sono di una liberalità che perfino sconcerta. Togliatti ci porge un piatto sul quale si trova in bella mostra la completa libertà di culto e il rispetto della Religione Cattolica. Pare di sognare. Perché 25 anni or sono il comunismo italiano e il padre suo, il socialismo, non hanno formulato la stessa proposizione? Perché negavano patria ed esercito, religione e morale? Non sarebbe nato il fascismo e la vita italiana avrebbe avuto altro corso. Perché il comunismo italiano acquistasse il buon senso di cui dà prova oggi per bocca di Togliatti, ci sono voluti 20 anni di tirannia e questo spaventoso bagno di sangue. Ma se tutto è bene quel che finisce bene, noi vogliamo prendere in parola Togliatti e aspettarlo a suo tempo al traguardo delle realizzazioni pratiche” <642.
Le proposte, invece, erano state guardate come un inaccettabile voltafaccia dagli azionisti, rimasti da tempo amareggiati e delusi dalle manovre di Badoglio, tendenti a soffocare l’opinione pubblica antifascista e a far rimanere il re su quel trono che egli stesso aveva disonorato. Scriveva in una lettera clandestina Parri ad Alberto Damiani, “Tito”, e ad Adolfo Tino, “Vesuvio”, il 16 aprile: “dopo tanto lavoro nostro e specie di Tito, la situazione sia pol. sia mil. del Nord Italia è totalmente ignorata, come dimostra anche il colpo di scena Ercoli” <643. Per rimarcare con maggiore incisività le proprie posizioni, il PdA pubblicava il 18 sul suo organo di stampa «Italia Libera» un articolo intitolato Esordio pericoloso, in cui venivano messi in luce alcuni errori che avevano turbato l’entusiasmo e la fede nella lotta: “Le deficienti impostazioni politiche nell’Italia meridionale, rese evidenti dal Congresso di Bari, le mene del governo Badoglio, le oscillazioni di qualche altro partito di Roma, il discorso di Churchill, rude e aspro e ingiusto per la democrazia, le sottigliezze politiche dell’Unione Sovietica, hanno dato agli avvenimenti un corso assai diverso da quello che il Paese aveva il diritto di attendersi. L’iniziativa Togliatti, se avesse tenuto conto di tutti i più complessi e delicati fattori politici in gioco, avrebbe potuto ancora salvare la situazione e preservare le ragioni e l’avvenire della democrazia” <644.
[NOTE]
636 G.B. Stucchi, Tornim a baita, dalla campagna di Russia alla Repubblica dell’Ossola, cit., p. 266.
637 ivi, p. 309.
638 Ivanoe Bonomi, Diario di un anno (2 giugno 1943-10 giugno 1940),, Garzanti, Milano 1947, pp. 175-6.
639 P. Togliatti, Il discorso, in A. Capurso (a cura di), I discorsi che hanno cambiato l’Italia. Da Garibaldi e Cavour a Berlusconi e Veltroni, Mondadori, Milano 2008, pp. 170-1.
640 Ivanoe Bonomi, Diario di un anno…, cit., p. 178.
641 ibidem.
642 Carlo Trabucco, La prigionia di Roma. Diario dei 268 giorni dell’occupazione tedesca, Borla, Torino 1954, p. 218.
643 Insmli, Maurizio a Tito e Vesuvio, 16/IV ’44, fondo Damiani, b. 1, f. 3.
644 Insmli, Esordio pericoloso, in «Italia Libera», 18/4/1944, in fondo Damiani, b. 1, f. 7.
Francesca Baldini, “La va a pochi!” Resistenza e resistenti in Lombardia 1943-1944. La vita di Leopoldo Gasparotto e Antonio Manzi, Tesi di dottorato, Sapienza – Università di Roma, Anno Accademico 2022-2023

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Il 1° maggio 1945 a Belluno fu un giorno di sangue

Belluno: la chiesa di San Liberale. Fonte: Wikiloc

[…] La ritirata tedesca e la resistenza partigiana
A fine aprile 1945, la strada tra Belluno e Ponte nelle Alpi era percorsa da un flusso continuo di truppe tedesche in fuga verso il Cadore. Il Battaglione partigiano “Palman”, comandato da Francesco Del Vesco detto “Macario”, operava nella zona tra San Liberale e Safforze. Il 25 aprile, nei pressi di Andreane, i partigiani attaccarono una colonna motorizzata tedesca, infliggendo gravi perdite. Da quel momento si aprì una fase di scontri quasi continui, culminata in una battaglia nel centro di Fiammoi, dove persino le donne del paese parteciparono attivamente respingendo l’avanzata nemica.
Il 21 aprile 1945 a Giamosa, frazione del comune di Belluno, viene fermato dai tedeschi un partigiano (sul cui nome non c’è certezza) che, trovato in possesso di un caricatore, viene fucilato sul posto.
Il 30 aprile 1945 le operazioni insurrezionali attorno a Belluno sono in pieno svolgimento. Fin dal mattino i partigiani attaccano il presidio tedesco di Castion (Belluno), che oppone una dura resistenza. I tedeschi prendono molti ostaggi in paese, incendiano diversi edifici, costringono il parroco a togliere il tricolore dal campanile della chiesa e saccheggiano la canonica, oltre a molte case. Infine uccidono, forse perché scambiato per partigiano, un uomo malato di mente che si trovava sulla loro strada.
Quella mattina (30 aprile 1945) i partigiani della zona di Bolzano Bellunese (Belluno) fanno prigionieri 25 tedeschi in ritirata che avevano trovato alloggio in una stalla a Travazzoi (Belluno). I tedeschi, però, informati del fatto, inviano rinforzi per liberare i compagni. Durante le operazioni viene ucciso Mario Mares e ferito un altro uomo.
La situazione era ormai esplosiva: le strade erano intasate da soldati tedeschi allo sbando. Quella notte, il “Palman” ingaggiò nuovi combattimenti. Alle prime luci del 1° maggio, con gli Alleati ormai vicini, i tedeschi iniziarono a scatenare rappresaglie violente sulla popolazione.
L’ira cieca dei nazisti sui civili
Il 1° maggio fu un giorno di sangue. A San Pietro in Campo, i tedeschi, in ritirata e sotto pressione sia dalle forze partigiane sia dalle avanguardie alleate, reagirono con ferocia contro la popolazione civile. La strada che da Belluno porta a Ponte nelle Alpi, diventata una delle principali vie di fuga, si trasformò anche in un teatro di stragi.
Per garantirsi il passaggio, i soldati tedeschi iniziarono a prendere civili come ostaggi, con l’obiettivo di usarli come scudi umani. Tra questi, a San Pietro in Campo, cercarono di prelevare Lino Fistarol e il figlio Gino. La moglie e madre, Luigia Rossa, si oppose disperatamente: si aggrappò ai suoi congiunti per impedirne la cattura. I soldati, innervositi, tentarono di strapparla con la forza. La picchiarono brutalmente con i calci dei fucili e, infine, fucilarono tutti e tre davanti alla loro casa. Luigia Rossa aveva già visto morire un cognato nei giorni precedenti.
Alla Rossa, poche ore dopo, vennero uccise altre persone. I tentativi dei tedeschi di entrare a Fiammoi vennero invece respinti: la popolazione, affiancata dai partigiani, oppose una resistenza decisa. Si scatenò una vera battaglia in cui persero la vita Fiori Sala, Marino Schiocchet (ricordato nella chiesetta di San Matteo a Sala), Antonio Brino “Italo” e Antonio Pampanin “Rapido”. Il comandante del battaglione Palman, Francesco Del Vesco “Macario”, fu gravemente ferito e morì il 14 maggio all’ospedale di Belluno.
L’eccidio di Porta Feltre (ora Piazzale Marconi) a Belluno
Il 1° Maggio 1945 anche Piazzale Marconi a Belluno, registrò delle vittime a causa della furia nazista, in particolare sette partigiani che tentarono di bloccare una colonna corazzata tedesca. I nomi di questi caduti sono Pietro Poletto (Peter), Ardeo De Vivo (Mimi), Oscar Pisciutta (Paolo), Sergio Salomon (Dax), Renato Sottomani (Venerdì), Bruno Tormen (Mario) e Giovanni Sommavilla (Squalet).
Un’ultima minaccia e la risposta alleata
I tedeschi, messi alle strette, arrivarono a prendere in ostaggio donne, bambini, anziani e persino il parroco di Cusighe, usandoli come scudi umani per aprirsi un varco verso il Cadore. Di fronte al rifiuto dei comandi partigiani di lasciarli passare, minacciarono di bombardare Belluno con cannoni da 80 mm puntati sulla città.
Fu solo grazie alla mediazione tra il comando della zona “Piave” e la missione inglese “Simia”, guidata dal maggiore Tilman, che si decise di richiedere un intervento aereo alleato. Otto cacciabombardieri si alzarono in volo e colpirono la colonna tedesca: l’inferno si scatenò sulla strada. I tedeschi superstiti fuggirono verso il monte Serva, ma vennero infine sopraffatti dalle truppe partigiane.
Una liberazione pagata a caro prezzo
Il 1° maggio 1945 si concluse così con un misto di vittoria e lutto. Belluno e l’Oltrardo furono finalmente liberi, ma il prezzo fu altissimo: vite spezzate, famiglie distrutte, ferite ancora aperte. L’episodio è ricordato anche nel libro “Polenta e sassi” di Emilio Sarzi Amadè, che racconta con crudezza la battaglia finale e la ferocia della ritirata tedesca:
“… quando il battaglione di Macario ha visto i carri armati americani che venivano su da Ponte nelle Alpi si è lanciato all’attacco della colonna tedesca che era sulla strada, e i carri armati sono tornati indietro e i tedeschi hanno sparato con un fuoco d’inferno e hanno fatto fuori una dozzina di uomini e adesso Macario è pieno di pallottole, e poi hanno fucilato dei civili vicino alla strada”.
Il 2 maggio 1945 i tedeschi in ritirata presso Salce (Belluno) uccidono Amorino Cassol.
Sempre il 2 maggio 1945 giunge ad Orzes, frazione di Belluno, una colonna tedesca in ritardo rispetto alle altre in ritirata. I soldati sparano sui passanti e ne feriscono due. Luigi Merlin viene ricoverato in ospedale ma muore per l’infezione alla ferita il 5 maggio 1945.
Oggi, a distanza di ottant’anni, è fondamentale non dimenticare.
Quelle giornate tragiche e valorose raccontano la forza di una popolazione che ha resistito all’orrore e ha combattuto per la libertà, anche a costo della vita.
Michele Sacchet, 1° Maggio 1945: a Belluno l’ultimo sangue prima della libertà, Gruppo Alpini Salce, 1 maggio 2025

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Il rapporto Italia-Stati Uniti sulla crisi del ’60 è stato in gran parte trascurato dalla storiografia

Alla luce delle posizioni assunte sia da Tambroni – incline a formare un monocolore “socchiuso” a destra e a sinistra – che dai suoi ipotetici sostenitori, sempre più perplessi, iniziava a perdere colpi il progetto di transizione al centro-sinistra. Da segnalare poi la posizione assolutamente contraria all’apertura delle gerarchie ecclesiastiche <79. Unico possibile rimedio sembrava essere la presentazione di un programma in parte favorevole ai socialisti, o comunque in grado di ottenerne l’astensione. Andava in questa direzione lo schema per il discorso del neopresidente intitolato “Spunti per un programma”. Redatto da Francesco Cosentino, consigliere giuridico del presidente della Repubblica, lo schema non venne seguito in maniera pedissequa. Anzi, proprio sui punti nevralgici che avrebbero potuto edulcorare la posizione socialista, come la nazionalizzazione delle industrie elettriche e il problema della scuola,
Tambroni non tenne conto dei consigli della coppia Gronchi-Cosentino <80. Così, il politico marchigiano incassò la fiducia della Dc e del Msi, che riuscì a portare a compimento la propria strategia legalitaria.
La storiografia sul tema è ancora piuttosto scarsa, ed è stata spesso ostaggio di letture politico-partitiche, peraltro suffragate da una non soddisfacente base documentaria. I primi studi <81 – dal 1960 al 1968 – hanno insistito sulla mobilitazione antifascista di massa e sullo scontro frontale contro il “clerico-fascismo”. Tali lavori, in larga misura, hanno mitizzato la spontaneità dei giovani, riducendo la loro irrequietezza ad una battaglia squisitamente politica. Questa prima tornata di ricerche influenzò la produzione storiografica degli anni ’70 e ’80. Con una certa continuità è emerso il sospetto delle tentazioni golpiste di Tambroni <82. Tra gli studi di questo periodo, Baget Bozzo si è distinto per una posizione critica verso la guida comunista delle manifestazioni <83. A trent’anni dai fatti, ha cominciato a farsi largo una lettura non più solamente politica, ma in grado di allargare l’orizzonte ai cambiamenti sociali e ad altri aspetti a lungo trascurati, come la violenza dei dimostranti e le testimonianze di diversa origine <84.
Il rapporto Italia-Stati Uniti sulla crisi del ’60 è stato in gran parte trascurato dalla storiografia <85, tuttavia il comportamento di Tambroni, che tentò di rilanciare il condizionamento del conflitto bipolare sulla politica italiana, <86 impone un’attenzione ben maggiore. L’incarico, come ha ricordato Nuti, non fu accolto dall’ambasciata con particolare soddisfazione, soprattutto per la vicinanza di Tambroni a Gronchi <87. «Nel breve periodo – ha scritto Zellerbach – non c’era motivo di preoccuparsi, visto che la cooperazione con gli Usa e con la Nato non sarà molto diversa da quella di Segni». Addirittura le prospettive sulla politica estera italiana venivano definite «eccellenti». Tuttavia la scelta non era giudicata «una soluzione felice». Tra i maggiori pericoli legati al nuovo esecutivo c’erano la possibilità di altre «scorribande» neutraliste in politica estera e l’opportunismo del nuovo capo del Governo. Nello stesso tempo la solidarietà di Gronchi, a cui erano legati il futuro e la stabilità del governo, era tutt’altro che assicurata. <88
A fronte della nuova maggioranza, furono immediate le dimissioni dei ministri della sinistra democristiana Bo, Sullo e Pastore. Poi seguì un tentativo – fallito – di Fanfani, che rispecchiava lo stato di confusione in cui versava la Dc, più volte rilevata dagli osservatori statunitensi. Alla fine di aprile Gronchi invitò Tambroni a completare la procedura e presentarsi al Senato. La direzione Dc approvava e l’ampia maggioranza democristiana confermava il nuovo, tormentato governo. Commentando l’investitura, i funzionari di via Veneto [ambasciata americana] non erano in grado di stimare le probabilità che l’esecutivo arrivasse all’estate. Il presidente del Consiglio, in una formula efficace e sintetica, veniva descritto come un uomo «temuto da molti, ma di cui nessuno si fidava» <89.
Tambroni, da par suo, considerava il plauso americano un fattore non secondario per la durata del suo governo. Fu Francesco Cosentino – segretario generale della Camera e consigliere legale di Gronchi – a “sponsorizzare” il governo, ma dall’ambasciata capirono subito l’intento di «far sentire agli Usa qualche parola buona su Tambroni». Pur giudicando Cosentino un contatto utile, rimanevano perplessità sui suoi commenti che talvolta «sapevano di autoritarismo» <90.
Ad accrescere le perplessità americane contribuiva la posizione, assai più allarmista, del ramo analitico della Central Intelligence Agency. Un rapporto parla di un «ritorno dei fascisti praticamente in tutti i campi». Lo stato «anarchico» della politica italiana offriva ai neofascisti due possibilità di intervento: un colpo di stato per prevenire l’apertura ai socialisti, o il tentativo di influenzare la Dc da posizioni democratiche. «Sebbene la ricerca della rispettabilità – si legge – li renda all’inizio alleati poco costosi, potrebbero poi domandare un quid pro quo, per esempio il coinvolgimento nell’occupazione di certe posizioni-chiave del governo e una politica estera più nazionalistica». In questo caso, ammonivano gli analisti dell’Intelligence, era probabile uno spostamento dell’opinione pubblica italiana verso l’estrema sinistra <91.
Tra le preoccupazioni dei servizi segreti, a differenza di quanto scrivevano da Roma, prevaleva il timore di derive autoritarie. Un governo orientato a destra, con ogni probabilità, non sarebbe riuscito a rimanere in carica se non ricorrendo a mezzi illegali. Nonostante mancassero prove di attività golpiste, Tambroni veniva etichettato «il più grande e abile opportunista d’Italia». E l’estrema destra preoccupava per «l’irrequietezza e la crescente capacità di farsi valere». Comunque, qualsiasi presa del potere a destra richiedeva «l’eliminazione o la neutralizzazione del presidente Gronchi» <92. Inoltre il grosso della Dc e altri elementi di centro si sarebbero spostati all’opposizione con la sinistra. Non era escluso, infine, il coinvolgimento di un presunto “Gruppo per la difesa della Repubblica”, che includeva Pacciardi, Giannini, Pella, Romualdi e Gedda, a sostegno di Tambroni <93. Il rapporto si riferiva al convegno organizzato il 26 maggio dal Centro Luigi Sturzo sul tema “La liberazione dal socialcomunismo”.
In questo senso, la preoccupazione nei confronti di Tambroni – a nostro avviso eccessiva – induceva a pensare ad un’attiva rete di contatti per salvaguardare il governo, al punto da considerare un convegno come il punto di partenza per una prova di forza autoritaria. Peraltro, all’incontro promosso dal Centro Sturzo, partecipò anche una figura di sicura fede democratica e antifascista come Enzo Giacchero, già vice-comandante partigiano in Piemonte e prefetto della Liberazione <94. Forze conservatrici di varia estrazione, pur schierandosi contro l’apertura a sinistra, erano ben lontane dall’elaborare un piano organico in difesa del governo. L’Italia del 1960, in altri termini, era ben più complessa e articolata di come poteva apparire.
In aprile ci furono alcuni scontri a Livorno. Secondo le ricostruzioni desumibili dagli atti parlamentari, alla base dei disordini ci sarebbero state provocazioni reciproche da parte di paracadutisti delle forze armate e civili. Il missino Romualdi parlava di «squadre di teppisti aiutati da gente facinorosa, da tempo sobillata dal partito comunista e socialista» che avrebbero assalito una decina di paracadutisti <95. A sinistra, invece, gli incidenti venivano imputati alle forze armate. Cantando inni di guerra, i paracadutisti «provocavano ed assalivano gruppi di civili» <96. Sia l’ambasciata romana che il consolato di Firenze seguirono attentamente gli scontri.
Diversi elementi sarebbero tornati su più vasta scala in agitazioni successive, tra cui quella di Genova. Secondo Francesco Di Lorenzo – prefetto di Livorno ed emblema della permanenza di funzionari fascisti a quindici anni dalla Liberazione <97 – il dato più evidente era l’età estremamente bassa dei manifestanti e l’unico rimedio contro i comunisti era «l’impiego della nuda forza». Molti ufficiali e carabinieri, inoltre, rimasero «sbalorditi dall’organizzazione e dalla disciplina dei rivoltosi». Tuttavia, l’impressione destata dalla forza comunista non aveva avuto un impatto positivo su gran parte della popolazione, preoccupata più che altro delle devastazioni ai negozi e alle automobili. Azioni di questo genere creavano una forbice tra i frequenti discorsi sulla distensione e i comportamenti – in direzione opposta – degli attivisti <98. Emergeva una certa ambiguità all’interno del Pci. Era una frattura importante tra il partito legalitario e la massa di giovani rivoluzionari che volevano portare fino in fondo la lotta proletaria <99.
[NOTE]
79 P. Di Loreto, La stagione del centrismo, cit., pp. 355-360; P. Scoppola, La repubblica dei partiti, cit., p. 360. Si veda anche Italian political scene (Memorandum of conversation with Cardinal Siri, Archbishop of Genoa), R. Joyce (Consul General, Genoa) to the Department of State, May 11, 1960, NARA, RG 59, CDF, Box 1917, 765.00/5-2360.
80 La vicenda è stata ricostruita da G. Cavera, Il Ministero Tambroni, primo «governo del Presidente», cit. In appendice l’autore riporta lo schema di Cosentino. Si vedano i discorsi alla Camera del 4 e dell’8 aprile 1960, AP, CdD, III legislatura, Discussioni, Seduta del 4 aprile 1960, pp. 13423-13431 e Seduta dell’8 aprile 1960, pp. 13648-13651. Si veda P. Scoppola, La repubblica dei partiti, cit., p. 364.
81 A. Parodi, Le giornate di Genova, Editori Riuniti, Roma, 1960; F. Gandolfi, A Genova non si passa, Avanti!, Milano, 1960; R. Nicolai, Reggio Emilia 7 luglio 1960, Editori Riuniti, Roma, 1960; G. Bigi, I fatti del 7 luglio, Tecnostampa, Reggio Emilia, 1960; P.G. Murgia, Il luglio 1960, Sugar, Milano, 1968.
82 G. Mammarella, L’Italia dopo il fascismo, 1943-1968, Il Mulino, Bologna, 1970; N. Kogan, L’Italia del dopoguerra. Storia politica dal 1945 al 1966, Laterza, Roma-Bari, 1974; P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino, 1989.
83 G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, cit.
84 L. Radi, Tambroni trent’anni dopo. Il luglio 1960 e la nascita del centrosinistra, Il Mulino, Bologna, 1990; E. Santarelli, Il governo Tambroni e il luglio 1960, «Italia contemporanea», marzo 1991, n. 182; G. Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni Cinquanta e Sessanta, Donzelli, Roma, 1996. C. Bermani, L’antifascismo del luglio ’60, in Il nemico interno. Guerra civile e lotte di classe in Italia (1943-1976), Odradek, Roma, 1997, pp. 141-263; P. Cooke, Luglio 1960: Tambroni e la repressione fallita, Teti, Milano, 2000; G. Formigoni, A. Guiso (a cura di), Tambroni e la crisi del 1960, cit.; A. Baldoni, Due volte Genova. Luglio 1960 – luglio 2001: fatti, misfatti, verità nascoste, Vallecchi, Firenze, 2004. Si veda anche A. Carioti, De Lorenzo e Moro, la strana coppia contro Tambroni, «Corriere della Sera», 26 marzo 2004.
85 Se ne sono in parte occupati solo Nuti e Gentiloni Silveri, si vedano L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., pp. 285-299; U. Gentiloni Silveri, L’Italia e la nuova frontiera. Stati Uniti e centro-sinistra 1958-1965, Il Mulino, Bologna, 1998, pp. 49-58.
86 Si veda G. Formigoni, A. Guiso (a cura di), Tambroni e la crisi del 1960, cit., p. 368. Significativo è il fatto che Murgia, citando un editoriale del «New York Times», scrive che «sembra uscito dall’ufficio stampa di Tambroni», si veda P.G. Murgia, Il luglio 1960, cit., p. 139. Sfogliando «L’Unità» e «Il Secolo d’Italia» del luglio 1960 si trova una selezione degli editoriali di molti quotidiani stranieri. Naturalmente la stampa internazionale veniva usata per avvalorare la tesi dell’aggressione da parte delle forze dell’ordine o della provocazione di piazza. Era comunque indicativo dell’attenzione rivolta a quanto scrivevano all’estero per comprovare le proprie idee.
87 L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., p. 288.
88 Si veda L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., pp. 288-289.
89 Telegram 3999, J. Zellerbach to the Secretary of State, May 6, 1960, NARA, RG 59, CDF, Box 1917, 765.00/5-660.
90 Memo of conversation with Francesco Cosentino, Secretary General of the Chamber and Gronchi’s legal adviser, G. Lister (First Secretary of Embassy) to the Department of State, May 11, 1960, NARA, RG 59, CDF, Box 1917, 765.00/5-1660. Si veda U. Gentiloni Silveri, L’Italia e la nuova frontiera, cit., pp. 53-54; L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit., p. 292. Documento parzialmente pubblicato in Così parlò Cosentino, «L’Espresso», 28 luglio 1995, pp. 68-69.
91 Neo-fascists in postwar Italy, CIA, Current Intelligence Weekly Summary, May 12, 1960, http://www.foia.cia.gov
92 The Italian Political Crisis, A. Smith (Acting Chairman, Office of National Estimates) to the Director of Central Intelligence, May 17, 1960, DDEL, WHO, Office of the Special Assistant for National Security Affairs, Records 1952-1961, NSC Series, Briefing notes Subseries, Box 11, f. Italian political situation and U.S. Policy toward Italy, 1953-60. Il riassunto è pubblicato in FRUS, 1958-1960, vol. VII, pt. 2, p. 598.
93 Il leader Gedda avrebbe annunciato «oggi siamo uniti nel pensiero, domani lo saremo nell’azione», Erosion of italian democracy, CIA, Current Intelligence Weekly Review, June 23, 1960, http://www.foia.cia.gov
94 Si veda D. D’Urso, Enzo Giacchero, storia di un uomo, «Asti contemporanea», n. 11, p. 239, http://www.israt.it/asticontemporanea/asticontemporanea11/urso.pdf
95 Dopo l’aggressione contro i paracadutisti i sobillatori bolscevichi cercano un alibi, «Il Secolo d’Italia», 23 aprile 1960; Dalli al parà, ivi.
96 Per gli interventi in Aula si veda AP, CdD, III Legislatura, Discussioni, Seduta del 5 maggio 1960, pp. 13701-13796.
97 Di Lorenzo rimpiangeva i tempi di Mussolini, «quando i poteri del Prefetto non erano limitati da tante assurdità democratiche [democratic nonsense]», si veda Communist involvments in Livorno riots confirmed, M. Cootes (American Consul General) to the Department of State, May 6, 1960, NARA, RG 59, CDF, Box 1917, 765.00/5-660.
98 Communist involvments in Livorno riots confirmed, cit. Per una posizione critica nei confronti dei paracadutisti, del Prefetto e del Ministero degli Interni si veda F. Dentice, Livorno: non cercate la donna, «L’Espresso», 1 maggio 1960, pp. 6-7; G. Crainz, Storia del miracolo italiano, cit., p. 171.
99 Utili suggestioni in R. Del Carria, Proletari senza rivoluzione, vol. V (1950-1975), Savelli, Roma, 1979, pp. 23-28, citato in P. Cooke, Luglio 1960, cit., pp. 54-55.
Federico Robbe, Gli Stati Uniti e la Destra italiana negli anni Cinquanta, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 2009-2010

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Partigiani stranieri in Val Taleggio

Uno scorcio di Val Taleggio (BG) – Fonte: Mapio.net

Nei primi mesi del 1944 l’iniziativa più rilevante in Val Taleggio è rappresentata dal sorgere di una nuova formazione [partigiana] composta di ex prigionieri. Essa è capeggiata da un serbo, Zaric Boislau, e nelle fonti archivistiche viene indicata col nome di “Legione Straniera”. La formazione è collegata agli organismi clandestini lecchesi, si occupa di organizzare il transito degli ex prigionieri, degli ebrei e dei politici verso la Svizzera, ma soprattutto tenta di prendere contatto e di coordinare i gruppi di ex prigionieri dislocati nella bergamasca. La documentazione esistente lascia l’impressione che il gruppo, pur riconoscendo la necessità di uno stretto collegamento con i centri resistenziali italiani, volesse garantire agli stranieri rimasti in zona un’ampia autonomia di movimento.
In marzo, aprile la “Legione Straniera” aveva un suo distaccamento a Pizzino (15/20 uomini) ed era collegata con tutti gruppi di ex prigionieri esistenti in valle (a Vedeseta, Olda, ecc.). Non pare di dover sottovalutare l’importanza della “Legione Straniera”; essa infatti riscuoteva la fiducia degli alleati al punto che il 3 aprile poté ricevere un primo aviolancio (parzialmente intercettato dai fascisti) e più tardi, ai primi di maggio, accolse la missione “Emanuele” (2 maggio) accompagnata da un lancio di armi, munizioni e generi di equipaggiamento.
La formazione inoltre era temuta dai fascisti che già dal gennaio/febbraio 1944 cercano di indebolirla e, di screditarne l’operato presso i valligiani. Organizzano una banda di falsi partigiani, la “Banda Thoinsovich”, col compito di snidare ex prigionieri, renitenti e disertori traendoli in inganno. L’iniziativa ottiene qualche risultato nella zona della Val Brembana, ma non è in grado di incidere in modo profondo in Val Taleggio. Qui la “Legione straniera” raccoglie il consenso anche di alcuni giovani del luogo, che in precedenza erano collegati ai gruppi di “Penna Nera”. L’espansione del gruppo raggiunge il culmine a maggio, dopo il lancio della missione alleata. In questa fase i collegamenti con i centri resistenziali lecchesi e milanesi sembrano più organici e si cominciano a progettare azioni a vasto respiro probabilmente ben collegate anche con i comandi alleati. E’ quando i vari progetti di intervento cominciano ad essere elaborati che i fascisti scoprono la rete e decidono di reprimerla con la massima decisione. Quello che temono è la possibilità che essa sfrutti a proprio vantaggio una particolare situazione creatasi allora nella bergamasca dopo l’annuncio dell’apparizione della Madonna alle Ghiaie di Bonate; anzi paventano una stretta connessione tra questo episodio che provoca lo spostamento di enormi masse di cittadini verso Bonate (e verso Ponte S. Pietro dove c’è un campo d’aviazione), e la notizia di un’azione combinata tra partigiani ed alleati volta a colpire in profondità le retrovie nazifasciste. (11)
Si badi che è proprio di quei giorni la ripresa dell’iniziativa angloamericana sulla linea Gustav, con il superamento di Cassino e con il successivo inizio dell’offensiva sul fronte di Nettuno. Così per la terza volta (se si escludono le provocazioni della “Banda Thonsovich”) la Val Taleggio deve registrare la brutale presenza delle truppe nazifasciste. L’azione è preceduta da un’accurata opera di infiltrazione che favorisce l’esito positivo dell’azione repressiva nazifascista. Il 19 maggio i tedeschi riescono a mettere le mani sull’organizzazione. Arrestati i capi ed un buon numero di esponenti del movimento, la “Legione Straniera” si sbanda e la rete clandestina subisce gravi contraccolpi specie nel lecchese. Nuovamente le forze nazifasciste riescono a colpire con estrema tempestività togliendo di mezzo un’organizzazione che trovava ampi consensi, ancor prima che essa cominci a diventare davvero pericolosa.
Ancora una volta la repressione nazifascista richiama la popolazione della Val Taleggio ai suoi calcoli, alle preoccupazioni, al timore di essere coinvolta direttamente, di vedersi intaccati i miseri mezzi di sopravvivenza, alla cautela nell’elargire la propria generosa solidarietà. Di quello che era stata la “Legione Straniera” a fine maggio resta ben poco. C’è chi (Cleto Baroni) assume temporaneamente la guida dei gruppi sparsi nelle baite e si sforza di tenerli collegati. Ma siamo a fine maggio e molte cose stanno cambiando.
Gli alleati avanzano e la convinzione che s’avvicini la fine delle ostilità dilaga. Il 25 maggio scade il bando di richiamo alle armi rivolto a tutte le classi fino a quel momento precettate, con risultati penosi. I giovani invece di rispondere alla chiamata di Salò prendono la via della montagna. Roma non tarderà a cadere. Nel mondo fascista l’aria che tira è quella della disfatta.
Nella provincia di Bergamo sia le organizzazioni clandestine centrali che quelle periferiche riprendono fiato, ma il CLN non è ancora in grado di esercitare un’influenza diretta sulle formazioni partigiane che vanno riorganizzandosi rapidamente. Chi vuol combattere o comunque organizzarsi a volte si sente frenato dall’esclusivismo di talune formazioni politiche clandestine altre volte esprime riserve preconcette contro ogni forma di presenza politica nella lotta di liberazione, ma non pertanto rinuncia a muoversi. Faticosamente si apre la strada il processo unitario.
Tra marzo e maggio si stabiliscono scambi fruttiferi tra “Penna Nera” (scomparso dalla scena nell’inverno) e gli uomini che promuoveranno nella zona di Villa d’Almè la costituzione di gruppi destinati ad aderire all’organizzazione delle Fiamme Verdi. Non è poi impossibile che, mentre in Val Taleggio si consuma l’esperienza della “Legione straniera”, Penna Nera tenga vivi i contatti con il gruppetto dei suoi fedelissimi guidati da Guglielmo (G. Locatelli). A fine maggio comunque questo gruppetto e lo stesso Penna Nera diventano in Val Taleggio il nuovo punto di aggregazione. Cleto e i superstiti della “Legione Straniera” si uniscono agli uomini di “Penna Nera”; quest’ultimo si impegna a provvedere ai loro rifornimenti e all’armamento ottenendo un lancio degli alleati ed inviando un comandante all’altezza della situazione.
All’inizio di giugno, in previsione del lancio, gli organizzatori delle Fiamme Verdi di Villa d’Almè (don Milesi e N. Mazzolà che però è su posizioni abbastanza differenziate da quelle del primo), d’accordo con Penna Nera, inviano in Val Taleggio Rino (G. Locatelli): dovrà ricevere il lancio e prendere il comando dei gruppi della Val Taleggio, cui si unirà con i suoi 15 (circa) uomini. Non a caso dunque il nuovo raggruppamento viene talvolta individuato col nome di “Fiamme Verdi della Val Taleggio”, ma si deve osservare che i tre gruppi fino al lancio tendono a conservare la loro autonomia; Cleto e gli ex prigionieri, Guglielmo e i valligiani, Rino e le sue Fiamme Verdi sono per ora uniti quasi
esclusivamente dalla previsione del lancio. Penna Nera d’altro canto non si sforza di favorire un processo di reale fusione dei gruppi. La sua visione, improntata ad un’estrema cautela, lo porta a non prendere in seria considerazione l’ipotesi di creare una vera e propria unità operativa partigiana. Egli vanta di essere stato riconosciuto dal comando superiore delle Fiamme Verdi quale comandante delle forze operanti in Valle Imagna, Brembilla e Taleggio, ma, tutto sommato, è convinto che le “bande della montagna” non possano svolgere che un ruolo subalterno nella resistenza: quello di procacciare armi allestendo e proteggendo i campi di lancio e quello di costituire una sorta di retrofronte sicuro per altri partigiani costretti ad allontanarsi dalla loro zona di operazioni. Dalle sue memorie poi traspare una concezione militare della lotta partigiana che non tien conto delle esigenze della guerriglia, ma piuttosto di quelle di una guerra di posizione. Se non esclude di portare gli uomini al combattimento, però ritiene che prima sia necessario attrezzare di adeguate difese la valle e di dotare i reparti di un armamento che li renda in grado di sopportare ogni
attacco e di difendere i paesi. Prepararsi dunque, ma intanto aspettare, è questa la sua linea di condotta ed è anche la ragione per la quale, dopo l’aviolancio del 13 giugno, egli verrà progressivamente emarginato. L’uomo che invece assume dopo il suo arrivo in valle, una posizione di primo piano, per la sua capacità d’iniziativa e per la sua dinamicità, è Rino (G. Locatelli). Egli di fatto si troverà a svolgere la funzione di comandante effettivo di un raggruppamento di uomini che si aggirava ai primi di giugno sulle 30/40 unità.
[NOTA]
(11) Archivio privato Micheletti – Brescia notiziari GNR. 3/6/1944: “Nella notte di venerdì 19 maggio, aerei nemici avrebbero lanciato, per mezzo di paracadute, armi pesanti, mitragliatrici e mortai con relative munizioni in località Pizzino, Vedeseta, Olda, Taleggio G [….] nelle giornate di domenica 21 e 22 sarebbero stati lanciati paracadutisti col compito di costruire una testa di ponte, dopo aver occupato di forza il campo d’aviazione di Ponte S. Pietro nelle vicinanze di Bergamo; (…) i gruppi di Pizzino, Vedeseta, Olda e Taleggio dovevano, in concomitanza, agire a viva forza su Lecco, impadronirsene ed accorrere su Bergamo in contatto con Ponte S. Pietro. L’azione principale, cioè quella dell’occupazione del campo d’aviazione di Ponte S. Pietro, sarebbe stata facilitata da un avvenimento che si ha ragione di credere diabolicamente escogitato. Infatti, nella città di Bergamo e nella provincia si era diffusa la voce di una miracolosa bambina, la quale, nelle vicinanze di Ponte S. Pietro, aveva avuto una visione celestiale con l’apparizione della Madonna che le indirizzava sul campo un raggio solare. Si può immaginare con quanta rapidità questa notizia passò di bocca in bocca e l’impressione dei bergamaschi notoriamente attaccati alla chiesa. La notizia dell’apparizione della Madonna assunse infatti proporzioni enormi e, dopo i primi annunci di miracoli avvenuti per guarigioni improvvise il concorso della gente sul posto divenne plebiscitario. La prima apparizione sarebbe avvenuta il 19 e, a detta della bambina, si sarebbe ripetuta nei giorni 20, 21 e 22. Specie nella giornata del 21 si sarebbe improvvisamente oscurato il cielo e sarebbe apparsa la Madonna col raggio di sole. La strana coincidenza delle date ha indotto le SS ad agire immediatamente, poiché erano state intuite le precise intenzioni dell’avversario, il quale, artatamente aveva manifestato intenzioni di operazioni con paracadutisti verso Premeno (Como) al fine di indirizzare colà le forze e permettere quindi ai gruppi di Vedeseta, Olda, Taleggio e Pizzino di agire su Lecco, mentre i paracadutisti avrebbero agito sul campo di aviazione di Ponte S. Pietro. Bisognava quindi prevenire e stroncare sul nascere la azione con rapidità fulminea, altrimenti il nemico sarebbe riuscito nel suo intento, perché l’affluenza della popolazione nelle adiacenze del campo di aviazione di Ponte S. Pietro era enorme, si calcola circa 100.000 persone. Se si pensa alla congestione delle strade principali e secondarie, si ha un’idea delle difficoltà che avrebbero incontrato le eventuali forze inviate a rintuzzare un lancio di paracadutisti i quali, invece, avrebbero avuto tutta la possibilità di attestarsi […..]
Maria Grazia Calderoli, Aspetti politici e militari della Resistenza taleggina. Luglio 1944-aprile 1945, Tesi di laurea, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 1975-1976 qui ripresa da Associazione Culturale Banlieu

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Ma la stampa resistenziale savonese contava altresì su un certo numero di testate di carattere più limitato e settoriale

Un lettera indirizzata dal Centro alla Federazione Comunista di Savona il 2 gennaio 1945. Fonte: Fondazione Gramsci

Fu proprio all’inizio di aprile [1945] che il locale Comando di Sottozona [Savona] ricevette finalmente la qualifica ufficiale di Comando di Zona <1, pur avendone svolto tutte le mansioni fin dall’estate precedente. Ormai forte dell’appoggio di decine di volontari giovani e meno giovani tra cui molte donne, l’organismo che da mesi guidava la Resistenza in gran parte della provincia in un primo tempo aveva reso conto del proprio operato alla Delegazione ligure delle Brigate d’Assalto Garibaldi, poi, quando la situazione politica fu meglio definita, al CLN provinciale e al relativo Comitato militare <2. In aprile alla testa del Comando della Seconda Zona ligure si trovava il colonnello “Carlo Testa” (Rosario Zinnari), che aveva “Penna” (Guido Caruzzo, destinato a sostituire “Enrico” al comando della divisione “Bevilacqua”) quale vice; commissario era “Marcello” (Vincenzo Mistrangelo) poi rimpiazzato da “Renna” (Armando Botta), proveniente dalla “Bevilacqua”, in contemporanea con la sostituzione del comandante “Enrico”; capo di stato maggiore era “Ernesto” (Edoardo Zerbino) ed intendente l’abile “Tullio” (Federico Torresan), che grazie all’aiuto di numerosi collaboratori era stato in grado di far pervenire qualcosa ai partigiani anche nei momenti più neri. Tra gli ispettori del Comando di Zona spiccava il nome di Giovanni Gilardi “Andrea” <3, che dopo lo scioglimento formale (31 marzo) della Delegazione ligure delle Brigate Garibaldi in seguito al riconoscimento del Corpo Volontari della Libertà quale esercito unitario della Resistenza <4 rappresentava gli occhi e le orecchie del PCI a Savona.
Sempre in aprile il CLN, che aveva molto patito a causa degli arresti di Speranza, Bruzzone e Allegri, era composto dall’avv. Arnaldo Pessano per il Partito Repubblicano, dal dott. Leopoldo Fabretti per la DC, dal dott. Emilio Lagorio per il PCI, da Giovanni Clerico per il PSIUP, Erodiade Polano per il Partito d’Azione ed Ercole Luciano per il Partito Liberale. Il repubblicano Antonio Zauli manteneva come sempre la carica di segretario <5.
Quanto alla divisione SAP “Gramsci”, essa aveva raggiunto il suo schieramento definitivo: otto brigate per ben oltre un migliaio di volontari. Il problema della cronica carenza di armi aveva indotto i comandanti sapisti a creare durante l’inverno in seno ad ogni brigata delle “squadre di punta” dotate del massimo volume di fuoco disponibile ed in grado di agire militarmente per procurare altre armi, mentre altre squadre più o meno disarmate si dedicavano a compiti di collegamento e propaganda <6. Le azioni sapiste tra marzo e aprile non si erano discostate dagli schemi consueti: lanci di bombe a mano contro le sedi del PFR e delle polizie fasciste, minacce, disarmi. Tuttavia la sera del 5 aprile l’organizzazione subì la grave perdita dell’ispettore di divisione “Maurizio”, l’operaio Carlo Aschero. Dopo uno scontro nell’abitato di Vado costato la vita a due “marò” “Maurizio” venne bloccato da alcuni brigatisti neri che, perquisitolo, gli trovarono addosso delle munizioni. Secondo le testimonianze, Aschero avrebbe detto: “Sono un partigiano. Se volete ammazzarmi fatelo subito”. I fascisti non si fecero pregare due volte, e restarono a vigilarne il cadavere per tre giorni in attesa che qualcuno lo reclamasse <7. Come tutti gli eventi in qualche misura epici della lotta di liberazione, anche la fine dignitosa dell’operaio sapista Carlo Aschero fu debitamente pubblicizzata, oltre che dal tam-tam popolare, anche dalla stampa resistenziale di cui proprio le SAP curavano la diffusione in collaborazione con i Gruppi di Difesa della Donna e il Fronte della Gioventù.
Vale la pena di soffermarsi un attimo per una panoramica di questi fogli clandestini. Su tutti emergevano gli organi nazionali del PCI, vale a dire “L’Unità” edizione savonese e “La Nostra Lotta”, che, molto diffusi nelle fabbriche del capoluogo e tra i sapisti, costituirono per molti, già sordi alla propaganda di regime, una sorta di abbecedario dell’educazione politica destinato a segnarne il pensiero e lo stile di vita negli anni a venire. Indubbiamente positivo fu il ruolo rivestito dall’”Unità” nello spingere alla compattezza del fronte antifascista, sia pure per i noti motivi tattici del momento. Ai primi di aprile il quotidiano comunista pubblicò un appello della Federazione savonese del PCI che recitava: “Tutte le forze antifasciste e progressive devono essere unite nella lotta, al di sopra di ogni partito politico, di ogni fede religiosa. Ognuno senta che è giunta l’ora suprema in cui il popolo italiano è chiamato a combattere per il suo onore, per la sua dignità, per la liberazione e la libertà del paese, per riscattare l’Italia dall’ignominia in cui il fascismo la ha gettata” <8. Si noti l’ecumenismo paradossalmente simile a quello dei vani appelli fascisti all’unità patriottica contro l’invasione angloamericana.
Ma la stampa resistenziale savonese contava altresì su un certo numero di testate di carattere più limitato e settoriale. Il lettore clandestino, sapista, partigiano o civile che fosse, poteva così trovarsi tra le mani la “Voce dei Giovani”, organo del FdG che usciva abbastanza regolarmente da un anno e raggiungeva le sei pagine ciclostilate, fitte di appelli alla ribellione; “Noi Donne”, scritto e pubblicato dalle resistenti dei GDD e specificamente dedicato al pubblico femminile (del quale si stimolavano a dovere gli istinti affettivi verso fratelli, figli, mariti e fidanzati alla macchia per spingerlo all’azione); “Savona Proletaria”, battagliero portabandiera della riottosa classe operaia locale; “Il Volontario della Libertà”, opera dei garibaldini imperiesi e savonesi e diffuso in tutti i distaccamenti, il cui primo numero risaliva a luglio; il già citato “Noi Venturi”, curato dal distaccamento “Revetria” con l’aiuto del FdG e delle donne di Calizzano, e che aveva ripreso le pubblicazioni dopo i rastrellamenti; “Pioggia e Fango”, il settimanale della Sesta Brigata “Nino Bixio”; “Il Solco”, periodico destinato ai contadini, senza il cui aiuto, non va dimenticato, i partigiani non avrebbero potuto resistere. Un foglio di maggiore spessore culturale era “Democrazia”, redatto e ciclostilato da professionisti ed intellettuali antifascisti del capoluogo; non mancavano inoltre apporti delle vicine formazioni genovesi e piemontesi, come “Il Partigiano”, organo dei resistenti della Sesta zona ligure (Genova), che raggiungeva talvolta i reparti dislocati a levante di Savona, o “Il Tricolore”, giornale della Sesta Divisione Garibaldi Langhe, diffuso in Val Bormida <9.
Da parte nazifascista non ci si poteva più fare illusioni sull’andamento della guerra. Sintomi di disgregazione dell’apparato repubblicano erano in qualche modo percettibili, anche se meno evidenti di quanto ci si potesse aspettare; tra i militari, alcuni ripresero le trattative con i partigiani, ed altri le intavolarono. Anche le diserzioni aumentavano, ma la maggioranza dei “marò” di Farina avrebbe tenuto duro fino alla fine. Particolare stupore desta ancor oggi la disciplina dei tedeschi, se si tiene conto che all’inizio di aprile i russi erano sull’Oder e gli americani a Francoforte sul Meno; mentre il loro Paese veniva conquistato dal nemico, essi si preparavano non già a rientrarvi per l’estrema difesa, bensì ad un metodico ripiegamento sulla linea Ticino-Po come previsto dal piano Kuenstlicher Nebel. Inoltre, tale ritirata non sarebbe dovuta avvenire che in caso di sfondamento delle linee da parte alleata: la Wehrmacht non aveva alcuna intenzione di lasciare il Nord Italia di propria iniziativa. Si poneva comunque il problema di “ripulire” le retrovie per consentire il ripiegamento, e le numerose e drastiche azioni militari volte a questo scopo spiegano le pesanti perdite subite dalle unità partigiane più esposte, in particolare gli autonomi della divisione “Fumagalli”, che minacciavano le vie di fuga verso il Piemonte. Tuttavia c’era ancora chi non si rassegnava a lasciare il Savonese: erano elementi locali (brigatisti neri, poliziotti, funzionari del PFR e della RSI) che speravano di resistere fino all’arrivo degli americani, dai quali potevano attendersi un trattamento umano. A spalleggiare questo sentimento strisciante si aggiunse lo stesso comandante della divisione “San Marco”, il generale Amilcare Farina, che in quei giorni propose alle massime autorità della Repubblica Sociale di creare una ridotta da difendere ad oltranza nella zona compresa entro la linea Arenzano-Tiglieto-Acqui Terme-Ceva-Albenga: guarda caso l’area difesa dalla “San Marco”. La proposta, certamente dettata dalla volontà di mettersi in mostra piuttosto che dal buonsenso militare, venne subito rigettata in favore di quella, appena un po’ meno peregrina, della “ridotta valtellinese” perorata da Pavolini e dal suo entourage detto “il Granducato di Toscana”. Dopotutto la Valtellina confinava con la neutrale Svizzera, dove molti fascisti previdenti avevano depositato le ricchezze accumulate e talora inviato le famiglie: a questi scopi la zona di Savona sembrò decisamente inadatta. Resta comunque il fatto che Farina mostrava di avere verso i suoi sottoposti una fiducia che alla fine, complice il clima da caccia all’uomo, non si dimostrò mal riposta.
[NOTE]
1 M. Calvo, op. cit., p. 363.
2 G. Gimelli, op. cit., ed. 1985, vol. II, p. 741.
3 M. Calvo, op. cit., pp. 364 e 366.
4 Le Brigate Garibaldi…cit., vol. III, pp. 552 – 553. Anche la qualifica di “commissario politico” era stata sostituita da quella, politicamente più neutra, di “commissario di guerra”: vedi G. Gimelli, op. cit., ed. 1985, vol. II, p.779.
5 R. Badarello – E. De Vincenzi, op. cit., p. 286.
6 G. Gimelli, op. cit., ed. 1985, vol. II, p. 341.
7 Cfr. R. Badarello – E. De Vincenzi, op. cit., p. 272 e G. Gimelli, op. cit., ed. 1985, vol. II, p. 352.
8 G. Gimelli, op. cit., ed. 1985, vol. II, p. 352.
9 Ibidem, ed. 1985, vol. II, p. 352.
Stefano d’Adamo, Savona Bandengebiet. La rivolta di una provincia ligure (’43-’45), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 1999-2000

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A Bologna, dal maggio 1944 la lotta crebbe

Con gli scioperi di marzo [1944] ci fu in tutta la regione [l’Emilia Romagna] un’ulteriore saldatura tra la città e la campagna, perché portarono avanti istanze che appartenevano anche alla popolazione contadina e la coinvolsero.
Dal punto di vista nazionale gli scioperi rappresentarono il tentativo di unire lotte sociali e lotta armata, oltre a permettere l’affermarsi del Partito Comunista come forza trainante di entrambe. <170
Si possono notare infatti numerose differenze tra l’andamento degli scioperi nelle altre grandi città italiane, come Milano, Torino o Genova, e quelli dell’Emilia Romagna: se nel resto d’Italia i Gap erano in progressivo declino dopo un inverno denso di azioni e furono in grado di offrire solo una minima difesa alle masse operaie in sciopero, al contrario, in Emilia Romagna gli scioperi e l’azione partigiana a sostegno rappresentarono la prima fase di una penetrazione capillare all’interno della società. <171
Ovviamente, questa collaborazione tra campagne e movimento resistenziale non nacque dal nulla ma dipese dal particolare contesto socio-economico della zona: i bassi salari, la disoccupazione, la chiamata alle armi dei giovani (che determinava una mancanza di manodopera), i conferimenti agli ammassi, le violenze e i rastrellamenti furono senza dubbio alcuni dei fattori che determinarono lo scoppio della lotta sociale. <172
Inoltre, un altro dei fattori determinanti per l’ingrossarsi delle fila partigiane furono senza alcun dubbio i vari bandi fascisti per il reclutamento, o gli appelli agli sbandati che sarebbero stati perdonati se fossero tornati a casa entro il 25 maggio. Notizie chiare e affidabili sull’effettiva risposta dei giovani a questi appelli non fu mai data, basti pensare che nel Notiziario della GNR del 28 maggio vi era scritto che si erano presentati in città solo otto sbandati. Probabilmente il numero fu maggiore a Bologna così come in altre città italiane, spinti probabilmente dalla paura di rappresaglie contro le proprie famiglie, salvo poi tornare dopo poco tempo presso le proprie formazioni di montagna, spesso anche con le armi. L’esito tutt’altro che positivo dei bandi inoltre creò problemi all’interno dello stesso fascismo repubblicano, acuendo la tensione tra partito ed esercito, accelerando così il progetto di Pavolini della militarizzazione del partito e la costituzione delle “bande nere”. <173
A Bologna, dal maggio 1944 la lotta crebbe e vi erano anche più attacchi al giorno: a quelli contro i militari fascisti e nazisti continuano ad affiancarsi le azioni di sabotaggio delle vie di comunicazione e di rifornimento verso il fronte, quindi attacchi alle linee ferroviarie, attentati contro i camion di rifornimenti tedeschi, attacchi dinamitardi contro i tralicci dell’alta tensione. <174
Inoltre, una volta decaduti gli ultimatum e gli appelli fascisti, che tra l’altro furono seguiti da appelli partigiani agli sbandati, alla polizia ausiliaria, ai carabinieri ma persino ai soldati tedeschi, cessò ogni distinzione, da parte partigiana, tra i diversi gradi di responsabilità, cosicché poi dal giugno le proporzioni della guerriglia crebbero a dismisura, aiutate anche dalla crescente sfiducia che la popolazione aveva nei confronti del governo fascista repubblicano. <175
A inizio estate la brigata era costituita, tra città e provincia, da sei distaccamenti: Bologna “Temporale” comandato da Nazzareno Gentilucci (Nerone) e da Lorenzo Ugolini (Naldi); Anzola Emilia (Tarzan) comandato prima da Vittorio Bolognini e poi da Sugano Melchiorri; Medicina comandato da Mario Melega (Ciccio), da Vittorio Gombi (Libero) e poi da Giuseppe Bacchilega (Drago); quello di Castel Maggiore comandato da Franco Franchini (Romagna) e infine da Arrigo Pioppi (Bill); il distaccamento di Castenaso comandato da Carlo Malaguti (Nino) e poi da Oddone Sangiorgi (Monello); quello d’Imola, il Ruscello, comandato da Dante Pelliconi (Ragno). <176
Anche a Modena in primavera vi era una situazione di grande fermento: nell’aprile ’44 avvennero varie azioni contro infrastrutture o contro militi fascisti, come l’uccisione di un membro della GNR l’8 aprile, mentre tornava in caserma.
Sul finire di aprile e l’inizio di maggio vi fu un intensificarsi di azioni di sabotaggio ad opera dei Gap modenesi, che rese necessari nuovi servizi di vigilanza da parte delle istituzioni locali; a questo scopo vennero utilizzati anche i civili. Infatti, già da tempo, il comando tedesco aveva iniziato a imporre delle pene pecuniarie ai comuni in cui avvenivano sabotaggi, nonostante questi non avessero alcun modo di mettere in piedi un servizio di sorveglianza tale da impedirli. <177
Il 29 aprile, invece, fallì un tentato attacco al bar del teatro comunale di Carpi, ritrovo di fascisti, e furono arrestati due giovani gappisti, giustiziati poi a Bologna l’11 giugno. <178
Dalla seconda metà di maggio, e così per tutto giugno, si verificò un ulteriore aumento del numero di attentati e sabotaggi nel modenese. Il questore nella sua relazione affermò che nel solo mese di giugno furono compiuti ben dodici attacchi contro le linee telefoniche e telegrafiche della pianura, tra i quali possiamo ricordare quelli, particolarmente riusciti, del 6 e 8 giugno, il primo a Soliera e il secondo nei dintorni di Modena. <179
Quest’intensa attività da parte del gappismo modenese, nonostante non avesse ancora raggiunto il proprio massimo sviluppo, mise in allarme le autorità tedesche e fasciste: per prevenire le azioni partigiane in città, dal 5 giugno furono organizzati posti di blocco su undici strade tramite le quali si poteva entrare nel capoluogo. <180
[NOTE]
170 S. Peli, La Resistenza in Italia cit., p.61.
171 C. Lusuardi, Gappisti di pianura cit., p. 58.
172 Ibidem.
173 L. Bergonzini, La svastica a Bologna cit., p.107.
174 M. De Micheli, 7a GAP cit., p. 98.
175 L. Bergonzini, La svastica a Bologna cit., p.109.
176 https://www.storiaememoriadibologna.it/7a-brigata-gap-garibaldi-gianni-19-organizzazione consultato il 03/06/2021 h. 18:07
177 C. Lusuardi, Gappisti di pianura cit., pp. 59-60
178 C. Silingardi e M. Montanari, Storia e memoria della Resistenza modenese cit., p. 68.
179 C. Lusuardi, Gappisti di pianura cit., pp. 60-61.
180 C. Silingardi, Una provincia partigiana cit., p. 318.
Marco Prosperi, Il detonatore della lotta armata: origini e sviluppo del gappismo, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2020-2021

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Il 30 marzo 1944 le SS italiane arrivano a Cumiana

A None, in provincia di Torino, il marchese Cordero di Pamparato viene coinvolto nella sua prima azione da quando è salito con i partigiani (Guido Quazza ne data l’arrivo il 15 marzo nonostante lo sviluppo dell’azione il 8 marzo) <34 tentando di effettuare un colpo alla Todt in un magazzino pieno di munizioni e materiali utili per reggere l’inverno <35.
È lo stesso tenente ad addestrare i 21 uomini scelti per la missione: tra questi il giavenese Ugo Giai Merlera, futuro comandante della ‘Campana’.
L’azione non ottiene i risultati sperati: i tedeschi, probabilmente allertati da una spia, rispondono al fuoco; cadono quattro uomini tra l’8 e i giorni successivi, numerosi sono i feriti che, insieme ai superstiti, battono in ritirata e sanciscono il fallimento dell’azione.
Il processo di Torino, le condanne a morte
Il processo di Torino, svoltosi a partire dal 2 aprile 1944, coinvolge due figure importanti per la Val Sangone, seppur non entrambe direttamente coinvolte con il territorio: Giuseppe Perotti e Silvio Geuna. Giuseppe Perotti, classe 1895, residente in provincia di Cuneo, è descritto come “uno dei capi più attivi ed intelligenti della organizzazione militare dei partigiani” <36; coordinatore del CmrP, è arrestato il 31 marzo. Assieme a lui è arrestato Silvio Geuna, classe 1903, tenente di complemento degli alpini, descritto da Valdo Fusi come un “giovane con barba e baffi neri, piccolino, vispo, occhi che bucano, atletico” <37. È uno degli organizzatori delle bande cattoliche nelle montagne di Cumiana; seppur non inserita all’interno del contesto della Divisione Autonoma Val Sangone, la Banda Cattolica di Geuna funge come rifugio ai bandi di reclutamento imposti da Salò, reclutando, fin dagli esordi, un considerevole numero di sbandati: anticomunista, “i risultati della Banda Cattolica sono pressoché ininfluenti nel panorama più vasto di quelle formazioni che nello stesso settore Chisone-Sangone si oppongono ai tedeschi.” <38
Essi appartengono all’organismo che sostituisce il generale Operti (e il maggiore Torchio, suo inviato in valle): il Comitato Militare Regionale Piemonte, che sblocca l’impasse data dall’attesismo di Operti e imprime alla guerra partigiana una caratteristica di lotta senza alcun compromesso o armistizio con gli occupanti e i loro collaboratori.
Sul banco degli imputati finiscono 15 antifascisti: il collegio, presieduto dal generale Umberto Rossi <39 si esprime su quattro imputazioni: attentati all’integrità della Repubblica Sociale Italiana, favore ad operazioni del nemico, promozione di insurrezione armata e concorso in atti di guerra civile ostacolando la pubblica difesa. Il processo, seguito da Mussolini in persona, intende rievocare i fasti del Tribunale speciale durante il ventennio fascista <40: è un processo istruito dai fascisti che reclamano anche il possesso dei detenuti al carcere ‘Le Nuove’ di Torino; uno degli imputati, il professor Paolo Braccini si stupisce di come, per la portata degli imputati, essi non confluiscono nel braccio del carcere gestito dai tedeschi <41.
Il processo contro “Perotti ed altri” <42 si conclude con la condanna a morte per Perotti ed altri 7 imputati, l’ergastolo per Geuna ed altri 3 mentre due sono assolti ed uno condannato a due anni.
Il generale, prima di morire, scrive l’ultima lettera alla moglie in cui cita ripetutamente i figli; così si rivolge a lei qualche ora prima di morire, il 5 aprile del 1944, al poligono del Martinetto di Torino, per mano di un plotone della Guardia Nazionale Repubblicana: “L’unico testamento spirituale che lascio a te ed ai miei figli adorati è di affrontare con serena sicurezza le avversità della vita adoperandosi in modo perché la propria coscienza possa sempre dire che ha fatto tutto il possibile. Se il risultato sarà buono compiacersene con modestia; se sarà cattivo trovare sempre la forza di riprendere con buona lena senza lasciarsi abbattere e senza chiamare in causa il destino. Anche le azioni che ci sono nocive hanno una loro ragione di essere e noi dobbiamo accettarle come una dura ma indispensabile necessità”. <43
L’eccidio di Cumiana
Cumiana, nel 1936, è un piccolo borgo agricolo di quasi 5000 abitanti il cui svuotamento progressivo è dovuto dalla progressiva crescita dell’industria a discapito del settore primario. <44
A Cumiana operano sia le brigate valsangonesi sia quelle della Val Chisone, comandate dall’alpino Maggiorino Marcellin oltre alla già citata, seppur ridotta, Banda Cattolica comandata da Silvio Geuna.
Dal racconto di don Felice Pozzo <45 i partigiani scendono dalle montagne armati in Cumiana già dal febbraio 1944 <46. In un borgo in cui i partigiani svolgono azioni nel centro abitato manca una figura mediatoria: il podestà di Cumiana, Giuseppe Durando, si trasferisce a Torino lasciando i civili in balia degli scontri tra nazifascisti e partigiani. La casa del podestà, abitata da un genitore, è oggetto il 10 marzo di razzie da parte dei partigiani, che prelevano merce di diversa tipologia <47.
Il 30 marzo le SS italiane arrivano a Cumiana <48, rastrellano 79 uomini in età di leva, li portano a Torino, li interrogano. Alcuni vengono deportati, alcuni rispediti in valle, altri rimangono a disposizione dei tedeschi. Due giorni prima i tedeschi arrestano altri 5 cumianesi accusati di connivenza con i partigiani <49.
Il 30 le SS sono ancora nel paese quando subiscono un attacco dei partigiani della ‘De Vitis’ che catturano 32 SS italiane e due sottufficiali tedeschi, uccidono un milite e ne feriscono 18 <50 ma lasciano sul terreno due partigiani: ad uno di questi, Lillo Moncada, viene successivamente dedicata una brigata valsangonese.
I prigionieri vengono dirottati su Forno di Coazze mentre dopo qualche ora in paese giungono numerosi reparti di repubblichini e di nazisti: i tedeschi catturano 158 uomini; il naturale ruolo svolto da Zanolli a Giaveno non viene svolto da Durando a Cumiana: le trattative sono intavolate dal medico cumianese Ferrero insieme a don Pozzo <51.
Quando le trattative si sbloccano l’ordine di esecuzione è eseguito per 58 uomini, 7 dei quali si salvano: di questi 51 nessuno risulta combattente nelle file partigiane, il più giovane è nato nel 1927 e il più anziano nel 1874.
La strage, secondo l’Atlante delle Stragi Nazifasciste si sviluppa su due momenti: nel primo i condannati vengono mitragliati in gruppi da tre per sette turni <52, successivamente il gruppo degli ostaggi si ribella costringendo le SS di guardia a sparare. Il motivo scatenante della rivolta dei condannati è la vista del cadavere di un ostaggio <53 che scatena in loro ribellione di fronte a morte certa.
Il giorno dopo riaprono le trattative per il rilascio degli ostaggi delle SS e dei 100 cumianesi ancora prigionieri dei tedeschi: l’accordo riesce, i 34 SS sono liberati in mattinata, nella serata sono liberati i 100 cumianesi. Il generale Hansen, dopo l’eccidio, promette al comandante Nicoletta che Cumiana verrà risparmiata per i prossimi mesi di conflitto, il cardinale Fossati promette a don Pozzo massima tempestività nel caso di nuove minacce per i cumianesi <54.
[NOTE]
34 Quazza G. La Resistenza Italiana: Appunti e Documenti. Giappichelli; 1966. p 173
35 Comello M., Martoglio G., Covo Di Banditi: Resistenza a Cumiana tra Cronaca e Storia. Alzani; 1998. p 61
36 Rapporto della Questura di Torino contro i membri del Comitato militare piemontese in Archivio Istoreto, fondo Isrp. Fondi originari: Prima sezione [IT-C00-FD17369] foglio 2
37 Fusi V., Galante Garrone A., Fiori Rossi al Martinetto: Il Processo di Torino: Aprile 1944. Mursia; 1975. p. 46
38 Comello M, Martoglio G. Covo Di Banditi : Resistenza a Cumiana tra Cronaca e Storia. Alzani; 1998. p. 35
39 MEM https://www.memora.piemonte.it/beni/regpie_cabe/930494 consultato il 16 02 24
40 Battaglia R. Storia Della Resistenza Italiana : 8 Settembre 1943-25 Aprile 1945. Einaudi; 1963. p 291
41 Fusi V., Galante Garrone A., Fiori Rossi al Martinetto: Il Processo di Torino: Aprile 1944. Mursia; 1975. p 86
42 MEM https://www.memora.piemonte.it/beni/regpie_cabe/930494
43 Malvezzi P., Mann T., Pirelli G., Lettere dei Condannati a Morte della Resistenza Europea. 4. Einaudi; 2006 p 508
44 Comello M., Martoglio G., Covo di Banditi, cit. p 20
45 Don Felice Pozzo (1904-1956) parroco a Cumiana
46 Florio M., Resistenza e Liberazione nella Provincia Di Torino (1943-’45). Gribaudo; 1993. p 338
47 Comello M., Martoglio G., Covo di Banditi, cit. p 55
48 Rende Francesco, ‘Mario Greco e la resistenza in Val Sangone’ tesi di laurea AA 2016-2017 relatore prof. Mauro Forno p 30
49 Comello M., Martoglio, G. Covo di Banditi, cit p 73
50 ASN https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=1000 consultato il 19 02 24
51 Oliva G., Quazza G. La Resistenza, cit. pp 170 171
52 ASN https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=1000 consultato il 19 02 24
53 Oliva G., Quazza G., La Resistenza alle Porte di Torino. F. Angeli; 2004. p 175
54 Florio M., Resistenza e Liberazione, cit. p340
Alessandro Busetta, La resistenza in Val Sangone e la divisione Campana, Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Anno accademico 2022-2023

La mattina del 1° aprile [1944] a Cumiana i partigiani attaccano alcuni reparti delle SS italiane, giunte in paese il giorno prima. Colte di sorpresa, queste lasciano sul campo un morto e diciotto feriti, mentre trentadue militi e due sottufficiali vengono presi prigionieri dai partigiani. Alle 14 dello stesso giorno uomini delle SS italiane e della Wehrmacht partono in rastrellamento. Cumiana viene occupata da tedeschi e repubblicani provenienti da Torino e da Pinerolo. In questo primo giorno tutti gli uomini presenti – circa centocinquanta – vengono rastrellati e portati al Collegio salesiano mentre le case da cui i partigiani hanno sparato sono incendiate. I tedeschi chiedono la restituzione dei prigionieri pena la fucilazione degli ostaggi. Il 2 aprile il tenente della Wehrmacht Renninger dà l’ultimatum: entro le 18 del 3 aprile i prigionieri devono essere liberati. Quando però gli ambasciatori tornano a Cumiana per comunicare l’esito positivo delle trattative, l’ordine è già stato eseguito. Cinquantuno dei cinquantotto uomini prelevati sono stati fucilati (secondo alcune fonti alle 14, secondo altre alle 16) dietro la cascina Riva d’Acaia che si trova appena fuori dal paese. Sembra che uccisi i primi ventuno (sette gruppi in fila per tre mitragliati da un sottoufficiale tedesco che i testimoni descrivono ubriaco), gli altri tentino la fuga e siano trucidati. Ne sopravvivono per ragioni diverse sette. Il 4 aprile i comandanti partigiani della Val Sangone consegnano i prigionieri al generale Hansen. Il giorno dopo termina l’operazione. Negli anni Novanta il giornalista di Repubblica Alberto Custodero avvia un’inchiesta sull’eccidio, individua in Renninger il responsabile della strage e lo intervista: nel 1999 il procuratore militare di Torino Pier Paolo Rivello e il magistrato Paolo Scafi aprono un procedimento penale a suo carico. Il processo viene interrotto a causa della morte per infarto di Renninger, che si è sempre dichiarato estraneo alla vicenda.
Barbara Berruti, Episodio di Cumiana, 03.04.1944, Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia

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2025-04-23

Domanda:
come possiamo in #Italia festeggiare il #25 #Aprile
giorno della Liberazione dal > nazi #Fascismo
avendo un #Governo #Fascista ?
...

2025-04-07

la prima settimana di #aprile in #Palestina.
7 giorni. solo 7 giorni:
mega.nz/folder/axUn0BCY#POjS6-

2025-04-04

Mubi: Le Novità di Aprile 2025

In un mese in cui si prospettano giorni e giorni di vacanze pasquali (per chi potrà farle, ovviamente), cosa c’è di meglio di una scorpacciata di ottimi film d’autore? Inutile nascondersi, Mubi è la nostra piattaforma streaming preferita, non ci sono dubbi. Qualcuno penserà che sono pagato per dirlo (magari!), purtroppo o per fortuna invece è proprio un consiglio spassionato, per cui, se ancora non sapete di cosa sto parlando, in fondo all’articolo trovate un link con un bel regalo per voi, fatene tesoro. Ma non perdiamo altro tempo, vediamo subito cosa c’è da vedere ad aprile.

La migliore notizia è l’arrivo del documentario premio Oscar No Other Land, in cui l’attivista palestinese Basel Adra documenta la distruzione di Masafer Yatta sotto l’occupazione israeliana. Nel frattempo, intreccia un’improbabile amicizia con un giornalista israeliano, Yuval Abraham. Nonostante la disuguaglianza che li separa, per anni i due combattono contro le espulsioni di massa. Un documentario toccante e tristemente attuale.

Un uomo sogna. Da sveglio, vaga per le vie di Londra mentre ricordi del sogno riemergono e danno vita a una strana teoria. Ormai la realtà non è più la stessa. Come prodotto dal regno meditativo del sonno profondo, questo corto contempla la metropoli moderna con sguardo filosofico. Attraverso distorsioni granulose e un montaggio associativo, Fulvio Risuleo dà vita ai residui psichici del sonno: l’entusiasmo inquieto di pensieri confusi e nebulosi. Tutto questo è Una Teoria Che Ho Sognato a Londra, che arricchisce la collezione di cortometraggi d’autore presente sul catalogo Mubi.

Avvolti da malinconia e desiderio, i film anni ’90 di Wong Kar Wai esplorano l’inquietudine urbana tra luci al neon e sigarette. Questo mese tornano su Mubi quattro sue opere meravigliose e imperdibili: Hong Kong Express e Angeli Perduti, ritratti onirici di anime inquiete; Happy Together, specchio queer di Hong Kong alla vigilia del 1997; In The Mood for Love, elegia del desiderio e dell’assenza.

Ci sono solitudini che si cercano e altre che si incontrano per caso. Nella rassegna When Two Loners Meet, anime erranti si sfiorano tra desiderio e malinconia. Dalla delicatezza di Una Storia d’Amore e Desiderio al viaggio interiore di Drive My Car, fino agli incontri surreali di Border e What Do We See When We Look At The Sky?. Questi film esplorano l’intimità di chi, nel mondo, si sente un’isola — finché non trova un’altra isola.

Infine, anche nel cinema il sesso va oltre il mero atto fisico: è immaginazione, sensazione, visione. Da Desire Pie (1977), che trasforma l’orgasmo in un’esplosione psichedelica, a Bug Diner (2024), una scatenata commedia NSFW, questa selezione di corti animati abbraccia il desiderio in tutte le sue forme. Tram (2012) e Asparagus (1979) esplorano il potere della fantasia, mentre ogni film sovverte tabù e celebra il piacere come un caleidoscopio di emozioni.

Al di là delle novità, il resto del catalogo è una raccolta di gemme preziose, cult imperdibili e capolavori da riscoprire. Come sempre, se volete provare Mubi gratis per trenta giorni, potete usare questo link messo a disposizione da Una Vita da Cinefilo per tutti i suoi lettori e le sue lettrici. Al termine dei 30 giorni di prova gratuita potrete decidere se disdire o abbonarvi (e vi assicuro che una volta provato Mubi, non riuscirete più a rinunciarvi). Il link per provare Mubi gratuitamente per 30 giorni? Qui: mubi.com/30giornigratis.
Buon aprile di grande cinema!

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No Other Land
2025-04-01

Il cielo del mese: aprile e la Luna di primavera

https://edu.inaf.it/rubriche/il-cielo-del-mese/aprile-luna-primavera/

Andiamo alla scoperta delle costellazioni di primavera con una guida d’eccezione: la Luna!

#aprile #costellazioni #ilCieloDelMese #Luna

Cielodelmese 04 Aprile 2025 Evidenza

The New York Times@nytimes.com Le compagnie aeree #canadesi stanno eliminando decine di migliaia di posti negli #StatiUniti questo #aprile, mentre i dati del settore mostrano che le #prenotazioni sono diminuite in modo significativo.

RE: https://bsky.app/profile/did:plc:eclio37ymobqex2ncko63h4r/post/3llifc3c7kk2d

André Pitznaaarf
2024-09-24

Bei aller Komik und vermeintlicher Leichtherzigkeit wohnt diesem Film letztlich doch etwas sehr Bitteres und aus heutiger Sicht auch umso Zeitloseres inne. letterboxd.com/andrepitz/film/

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